Una guida ai fatti della settimana in Medio Oriente e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale e quella araba

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 14:44:08

Come ampiamente previsto, le elezioni presidenziali in Iran sono state vinte da Ebrahim Raisi, che ha ottenuto il 62% delle preferenze. Molta attenzione è stata prestata al dato sull’affluenza, che si è attestata al 48,8% (con il distretto di Teheran al 28%), record negativo nella storia delle elezioni presidenziali della Repubblica islamica (qui i dati completi). Tuttavia la partecipazione popolare non è stata così bassa da «poter determinare imbarazzo tra i vertici delle istituzioni o per il vincitore», ha scritto Nicola Pedde. Ciò significa anche che gli appelli della Guida suprema e di parte del governo sono serviti a portare alle urne la parte di elettorato a loro più vicina. Valutando la partecipazione occorre però considerare anche che sui 28 milioni di elettori che si sono recati ai seggi, più di 4 milioni hanno annullato la scheda o l’hanno lasciata in bianco, gesti generalmente considerati segnali di opposizione al sistema. Il quadro che esce dalle elezioni è «caratterizzato dalla mobilitazione del voto conservatore e dalla forte, fortissima astensione di tutta la restante parte dello spettro ideologico dell’elettorato», chiosa Pedde.

 

Dopo il voto, buona parte della stampa occidentale ha etichettato Raisi come un “ultraconservatore”, stabilendo un parallelo con la precedente ascesa di Mahmoud Ahmadinejad e connotandolo negativamente. Una connotazione negativa legata anche al passato di Raisi che, quando ricopriva la carica di giudice nel tribunale rivoluzionario di Teheran al termine della guerra Iran-Iraq (1980-1988), svolse un ruolo importante nella condanna a morte di migliaia di prigionieri politici (di questo parla anche al-Jazeera, che traccia una biografia del nuovo presidente – il primo a essere sotto sanzioni americane, proprio per il suo ruolo nelle purghe di quegli anni).

 

In realtà però – scrive Pedde - «la collocazione politica di Ebrahim Raisi si è sempre inserita più nel solco dell’area tradizionalista che non di quella radicale […] assumendo una posizione di quasi totale allineamento con la Guida Ali Khamenei». La biografia di Raisi in effetti fa pensare proprio a questo, trattandosi di un uomo selezionato soprattutto sulla base della sua fedeltà al sistema rivoluzionario e a Khamenei stesso. È della stessa opinione Sanam Vakil, che sul sito del think tank britannico Chatham House sottolinea come l’elezione di Raisi porti ad un consolidamento in senso conservatore del sistema iraniano.

 

Questo produce una sostanziale sovrapposizione tra il presidente, Raisi, e la Guida suprema, Khamenei. Cosa significa? Come ha scritto Arash Azizi su Newlines magazine «la Presidenza della Repubblica, con la sua base elettorale indipendente (seppure molto limitata) è l’ultimo ostacolo al Grande Dittatore. Ciascuno dei quattro presidenti che hanno servito sotto Khamenei […] ha finito per scontrarsi con lui. Con l’ascesa al potere di Raisi, questo ostacolo sarà rimosso, e Khamenei sarà vicino ad avere un potere assoluto, come mai era accaduto». Questo però implica anche dei rischi, sia per Khamenei stesso che per la tenuta del sistema iraniano: in primo luogo, verrà meno il ruolo di equilibratore che ha permesso a Khamenei di durare così a lungo politicamente; in secondo luogo, con una popolazione così insoddisfatta, ora ci sarà un solo centro di potere esposto alle critiche.

 

L’elezione di Raisi arriva in un momento critico per Khamenei, che sta cercando di garantire la transizione alla generazione successiva cementando al tempo stesso la sua eredità politica e per questo, sostiene Sanam Vakil, ha bisogno di un presidente che segua le sue indicazioni. Il momento è fondamentale anche per un altro motivo, avverte Azizi: se alla morte di Khamenei subentrasse una Guida suprema debole, come egli ritiene sia Raisi, «gli uomini coi fucili [le Guardie Rivoluzionarie, NdR] potrebbero prevalere su quelli col turbante».

 

La domanda che ora ci si pone è: qual è la posizione di Raisi nei confronti dei negoziati sul nucleare? Secondo Sanam Vakil sarà nell’interesse di Raisi raggiungere un accordo per ristabilire il funzionamento di quello siglato nel 2015, che porti alla rimozione delle sanzioni, fondamentale per evitare che esploda la “bomba sociale” della disoccupazione. Tuttavia, la volontà di ridar vita all’accordo con gli Stati Uniti e i Paesi europei non implica quella di intraprendere una generale politica di apertura nei confronti dell’Occidente verso cui, al contrario – proprio come Khamenei – Raisi nutre un forte scetticismo. La previsione di Vakil è quindi la continuazione di un modello fatto di «resistenza anti-americana, nazionalismo economico e repressione interna interrotto da momenti di pragmatismo».

 

Dopo l’elezione Raisi ha affermato che si aspetta la completa rimozione delle sanzioni americane, ma che non intende né incontrare il presidente Joe Biden né negoziare sul programma missilistico di Teheran. Cruciale però per la prosecuzione dei negoziati di Vienna (che fino ad agosto saranno portati avanti dalla presidenza Rouhani) è il rinnovo dell’accordo tra Teheran e l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (IAEA) per il monitoraggio delle attività nucleari iraniane che è scaduto giovedì 24 giugno (Reuters).

 

Approfondimento dalla stampa araba, a cura di Chiara Pellegrino

 

Questa settimana l’approfondimento dalla stampa araba è dedicato alle elezioni presidenziali in Iran e a come è stata recepita nel mondo arabo la notizia della vittoria di Ebrahim Raisi. I media si sono focalizzati essenzialmente su due aspetti: da un lato hanno tentato una previsione della politica estera futura dell’Iran, dall’altro hanno dipinto un ritratto impietoso del neo-eletto presidente e dello stato di salute del regime iraniano.

 

La giornalista libanese Huda al-Husseini sul quotidiano di proprietà saudita al-Sharq al-Awsat ha riflettuto sulle ragioni per cui l’ayatollah Ali Khamenei avrebbe scelto di sostenere proprio Ebrahim Raisi, impostosi alle cronache negli anni ’80 per le condanne a morte inflitte ai detenuti politici nella sua veste di giudice, ciò che all’epoca gli valse l’appellativo di «macellaio di Teheran». La prima ipotesi è che Raisi sia stato individuato da Khamenei come suo successore. Secondo un’altra ipotesi invece questa scelta sarebbe stata dettata da ragioni di opportunismo: Khamenei, ormai ottantaduenne, potrebbe voler operare dei cambiamenti a livello istituzionale per garantire alla sua famiglia una posizione forte anche quando lui non ci sarà più. Raisi presidente sarebbe dunque funzionale ai piani della Guida Suprema poiché, più di altri conservatori, sarebbe disposto ad accettare questi cambiamenti.

 

Quest’ultima ipotesi è stata considerata anche dal quotidiano emiratino al-‘Ayn, secondo il quale la vittoria di Raisi mette fine alla «turbolenta dualità» che ha vissuto il Paese negli ultimi otto anni, con il presidente uscente Hassan Rouhani in perenne conflitto con l’establishment, ed è un passo importante verso la creazione di un consenso interno sulle riforme da operare in vista della successione di Khamenei.

 

Ancora su al-Sharq al-Awsat, l’intellettuale e attivista politico sciita libanese Moustafa Fahs ha definito l’esito delle elezioni una «rivoluzione nella rivoluzione», una sorta di «colpo di palazzo» finalizzato a compiere quel «secondo passo della rivoluzione» di cui aveva parlato l’ayatollah Khamenei nel febbraio 2019 in occasione del quarantesimo anniversario della Rivoluzione. La decisione di imporre Raisi alla presidenza – una figura priva di legittimità popolare ma sostenuta dall’establishment – sarebbe sintomatica delle preoccupazioni con cui il regime guarda al futuro. Secondo Fahs non si può comunque escludere che la rivoluzione nella rivoluzione possa provocare una contro-rivoluzione.

 

Il quotidiano saudita filo-governativo al-Riyadh ha pubblicato una vignetta che rappresenta un Khomeini diabolico e titola “Teocrazia”… il nemico degli iraniani. Secondo l’autore dell’articolo, il più grande ostacolo dell’Iran è il regime teocratico. L’articolo 113 della Costituzione iraniana stipula infatti che il presidente detiene il potere esecutivo e forma il governo, ma l’ultima parola su tutti i fronti spetta alla Guida suprema. Dal punto di vista politico, spiega l’autore, questo significa che il nuovo governo privilegerà le relazioni con la Russia e la Cina in quanto alleati che tradizionalmente non interferiscono negli affari interni del Paese, continuerà a destabilizzare l’area mediorientale perseguendo le stesse «politiche sovversive» del passato, e andrà avanti nei negoziati di Vienna sull’accordo nucleare, che dal 2018 si trova «in stato di terapia intensiva», per riprendere un’espressione usata dalla già citata giornalista libanese Huda al-Husseini.

 

Questa peraltro è anche la posizione del quotidiano londinese al-Quds al-Arabī che, in merito ai negoziati sul nucleare, scrive «niente di nuovo sotto il cielo di Vienna». Nell’editoriale firmato dalla redazione viene infatti esclusa la possibilità di un cambio di rotta, dal momento che il destino del regime è in parte legato alla revoca delle sanzioni che stanno soffocando l’economia iraniana e causando ondate di protesta. Compito di Raisi, conclude la redazione, è agire nell’interesse degli iraniani anziché «vantarsi di appartenere al club del nucleare».

Sulla stessa lunghezza d’onda si colloca il quotidiano qatarino al-Sharq, che scrive: «il mondo attorno all’Iran cambia, ma la vittoria di Raisi non cambia nulla nelle politiche del Paese». Con una piccola eccezione (forse): a differenza del suo predecessore, Raisi potrebbe decidere di focalizzarsi maggiormente sull’«economia della resistenza», che prevede il rafforzamento del settore agricolo, essenziale per far fronte alle sanzioni, a discapito del commercio, che invece finisce per sostenere i marchi stranieri. In ogni caso, per al-Sharq la difficoltà più grande del neoeletto presidente sarà conquistare il consenso popolare, oggi quasi inesistente se si considerano i dati relativi al tasso di affluenza alle elezioni (meno del 49% degli aventi diritto al voto).

 

Al-Arabī al-Jadīd s’interroga su che cosa accadrà dopo il ritorno all’accordo sul nucleare. Raisi infatti ha già dichiarato che non sarà disponibile a negoziare sul programma missilistico iraniano e sulle politiche regionali del Paese. Ciò pone un grande problema agli Stati Uniti e ai suoi alleati perché, spiega il giornalista, le armi nucleari sono un deterrente mentre il programma missilistico è un’arma offensiva. Come risolvere questo dilemma? Secondo il giornalista organizzando una conferenza di pace regionale che riunisca gli arabi, i persiani e i turchi con l’obiettivo di mettere fine al processo di autodistruzione in corso ormai da anni.

 

La crisi dell’esercito libanese

 

La crisi economica in Libano e la carenza di carburante, dovuta principalmente alla difficoltà di importarlo a causa della scarsità di riserve di valuta estera, continuano a peggiorare, scrive al-Monitor. La settimana scorsa il ministro della Difesa francese Florence Parly ha coordinato una riunione virtuale alla quale hanno partecipato Stati Uniti, diversi Paesi europei, le monarchie del Golfo, Russia e Cina per parlare della crisi nel Paese dei Cedri. Al centro dell’attenzione è finita in particolare la situazione delle Forze Armate libanesi. Parly ha affermato che la gravità della crisi richiede un impegno ancora maggiore dei Paesi stranieri per il sostegno alle Forze armate libanesi, ritenute un pilastro fondamentale per la stabilità del Libano. Ciò che è necessario, specifica Ahram non è, come ci si potrebbe aspettare, l’invio di armamenti, ma un aiuto a pagare i salari dei soldati, e poi latte, farina, medicinali, pezzi di ricambio e combustibili. Come ha scritto Zvi Bar’el su Haaretz è stato il generale Joseph Aoun a compilare la lista di aiuti necessari, una lista che secondo Bar’el assomiglia più alla richiesta di aiuto fatta da un’organizzazione umanitaria. Haaretz ha anche specificato che gli aiuti promessi dai Paesi esteri non sono destinati al governo libanese, ma direttamente alle sue forze armate, che il mese scorso hanno deciso di ridurre anche le razioni alimentari. Inoltre, più di 3000 soldati hanno abbandonato l’esercito a causa della riduzione dei salari, che non permetteva loro il sostentamento delle rispettive famiglie.

 

A partire dalla guerra civile libanese l’esercito è stato a lungo ritenuto una delle poche istituzioni in grado di porsi al di sopra delle divisioni del Paese, una forza unificante anche nel momento in cui l’aumento delle tensioni settarie e dei crimini commessi va di pari passo con l’impoverimento della popolazione, ha scritto AP News. Il declino dell’esercito libanese, ha affermato Aram Nerguizian, può essere il presagio di un’instabilità simile a quella che si era verificata nei cinque anni precedenti alla guerra civile.

 

Il generale Aoun non si è però limitato a porre l’attenzione sulla crisi in cui versa l’esercito, ma ha anche accusato la classe dirigente libanese, ritenuta responsabile della situazione. È su questo che si è concentrato anche il Financial Times. Le élite libanesi, i gruppi politici e le milizie sembrano preoccupati solo dalla preservazione del proprio potere. Come fare dunque? L’opinione di David Gardner è che fino a quando i conti correnti e le proprietà di queste élite, per gran pare al sicuro all’estero, saranno intoccabili, verranno meno gli incentivi ad agire per una riforma del sistema. Ecco perché secondo Gardner gli Stati Uniti e i Paesi europei devono imporre sanzioni, come il blocco ai viaggi, sulle figure che in Libano stanno sfruttando a proprio favore lo stallo politico.

 

Elezioni in Etiopia, altro sangue nel Tigray

 

Dopo due rinvii, lunedì in Etiopia si sono svolte le elezioni parlamentari. Non tutti i 547 seggi del Parlamento saranno attribuiti perché per problemi logistici nelle regioni di Somali e Harar il voto è rinviato a settembre, mentre in Tigray infiamma la guerra e quindi non si voterà del tutto.

 

Come ha sottolineato World Politics Review, è la prima volta che Abiy Ahmed si confronta con gli elettori dopo l’ascesa al potere nel 2018. Anche in questo caso osserviamo il dato sull’affluenza: la Commissione elettorale etiope ha comunicato tramite la sua pagina Facebook che sono 37 milioni gli elettori che hanno espresso un voto, a fronte dei 50 milioni attesi. Il dato è influenzato anche dal fatto che le elezioni si sono tenute durante la stagione delle piogge, in un Paese che manca delle infrastrutture necessarie per recarsi alle urne, ha spiegato Abel Abate Demissie al Washington Post.

 

Le previsioni danno il “Partito della Prosperità” di Abiy Ahmed in vantaggio sulla dozzina di partiti di opposizione, strutturati principalmente su linee di divisione etnica (Reuters). Alle ultime elezioni prima dell’ascesa di Abiy Ahmed il partito di governo e i suoi affiliati avevano ottenuto il 100 percento dei seggi e – spiega The Interpreter – se da un lato i numeri di quest’anno saranno meno «assurdi», dall’altro non ci sono comunque mai stati reali dubbi su chi potesse uscire vincitore dalle urne, in particolare nei tre Stati più popolosi (Oromia, Ahmara e Regione delle Nazioni, delle Nazionalità e dei Popoli del Sud).

 

Su The National Interest Birtukan Midekssa, responsabile della commissione elettorale etiope, ha riconosciuto i problemi del Paese, ma nonostante questo ha affermato che le elezioni rappresentano il «progresso verso un’autentica democrazia [che è] la migliore speranza per la stabilità e la pace» del Paese e di tutto il Corno d’Africa. Secondo Midekssa «l’accountability attraverso elezioni periodiche, inclusive e credibili » è necessaria per risolvere le «sfide dell’Etiopia, inclusa la tragica crisi in Tigray».

 

Una crisi che secondo Foreign Policy, avrebbe dovuto risolversi in una rapida vittoria delle forze lealiste, e invece si è trasformata in una insurrezione a bassa intensità a causa della resistenza delle forze del Fronte popolare di Liberazione del Tigray. Come scritto in precedenza, la situazione è ulteriormente complicata dalla presenza – nonostante le assicurazioni in senso contrariodell’esercito eritreo. Mark Lowcock, responsabile umanitario delle Nazioni Unite ha sottolineato invece che ampie parte del Tigray sono in una situazione di carestia a causa della deliberata distruzione delle colture e degli allevamenti da parte delle forze etiopi ed eritree.

 

Questa settimana si è purtroppo avuta una nuova prova della brutalità di quanto avviene nella regione: è di mercoledì infatti la notizia di un attacco aereo su un mercato a circa 25 km dalla capitale del Tigray, Macallè che ha provocato un numero imprecisato di vittime civili (AP parla di 80 morti, il Guardian di almeno 64 a cui si sommano 180 feriti), a seguito del quale sono stati anche bloccati i soccorsi che cercavano di raggiungere il luogo dell’attacco. Fonti ufficiali dell’esercito etiope hanno affermato che l’operazione è stata condotta contro dei ribelli, che si è trattato di un “attacco di precisione” e che nessun civile è coinvolto. Una ricostruzione smentita da tutti i presenti interpellati dalle agenzie di stampa.

Sono passati solo tre anni dalla concessione del premio Nobel ad Abiy Ahmed e il presidente è passato dall’essere un eroe a una fonte di instabilità, secondo la parabola descritta da Declan Walsh sul New York Times.

 

In breve

 

L’attivista palestinese Nizar Banat è deceduto nei pressi di Hebron dopo essere stato prelevato dalle forze di sicurezza dell’Autorità Palestinese. Centinaia di persone hanno protestato contro Abu Mazen (AsiaNews).

 

Il ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry ha confermato che Il Cairo e Doha stanno lavorando proficuamente per ristabilire buone relazioni tra Egitto e Qatar (Al-Monitor).

 

Secondo quanto riporta Jason Burke per il Guardian lo Stato Islamico e i gruppi ad esso affiliati si stanno espandendo nell’Africa subsahariana.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
 
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