Una guida ai fatti della settimana in Medio Oriente e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale e quella araba

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 15:36:50

Le violenze in Nigeria non sono purtroppo una novità, specie quando le vittime sono i cristiani. Tuttavia, la strage avvenuta domenica scorsa nello Stato di Ondo, da molti ritenuto «uno dei più sicuri e pacifici» Stati nigeriani, segnala un aggravamento della crisi securitaria nel più popoloso Paese africano. Sorprende molto, perciò, la scarsa attenzione che giornali e persino alcune riviste specializzate, come Jeune Afrique o The Africa Report, hanno prestato a questo attacco. 


Proviamo, per quanto possibile, a ricostruire fatti, motivazioni e conseguenze.

Domenica scorsa, durante la messa di Pentecoste, almeno quattro uomini armati hanno fatto irruzione nella parrocchia cattolica di San Francesco Saverio a Owo, nello Stato di Ondo. Sebbene, come ha scritto il Wall Street Journal, non ci sia un conteggio ufficiale delle persone che hanno perso la vita nell’attacco, gli spari e le esplosioni avrebbero provocato più di 50 vittime, inclusi diversi bambini. Le stime effettuate da alcuni testimoni oculari e riportate da al-Jazeera sono ancora più cupe e parlano di 80 vittime. Adelegbe Timileyin, un deputato locale, aveva diffuso la notizia secondo cui i terroristi avrebbero anche rapito il sacerdote che stava celebrando la messa, ma Augustine Ikwu, portavoce della Diocesi di Ondo, ha smentito. 

 

A oggi, nessuno ha rivendicato l’attentato. Da diversi anni la Nigeria è teatro di violenti attacchi contro i cristiani a opera di gruppi jihadisti come Boko Haram, ma finora queste azioni erano rimaste confinate soprattutto nella parte settentrionale del Paese. Per avere un’idea di quanto “sicura” fosse questa zona è utile un confronto con lo Stato nordorientale di Borno, epicentro dell’insorgenza di Boko Haram. Secondo le rilevazioni del progetto “Nigeria Security Tracker” del Council on Foreign Relations, che prendono in considerazioni tutte le vittime di violenze, sia quelle causate dal jihadismo o dall’attività delle forze di sicurezza che quelle avvenute per mano di ribelli con rivendicazioni autonomiste, nello Stato di Borno da inizio anno sono state registrate 794 vittime. Nello stesso periodo a Ondo le vittime sono state 10 (dato precedente all’attentato).

 

Un attentato così grave nel sud della Nigeria segna quindi un incremento significativo delle capacità di penetrazione dei gruppi terroristici. Come hanno fatto notare in molti, violenti scontri attorno all’utilizzo di risorse sempre più scarse si verificano tra le comunità Fulani dedite alla pastorizia e quelle di contadini e agricoltori. Questi scontri sono però esacerbati dalle differenze etno-religiose. I fulani sono infatti musulmani, mentre i contadini sono principalmente cristiani. Non è tuttavia l’unica spiegazione possibile. Lo Stato di Ondo confina infatti con quello di Kogi, dove è attiva (la settimana scorsa un attentato ha provocato due morti) la Provincia dell’Africa Sud Occidentale dello Stato Islamico (ISWAP), organizzazione nata da una scissione all’interno di Boko Haram, con cui ha una violenta contrapposizione, tanto che l’ex capo di Boko Haram, Abubakar Shekau, è morto proprio durante uno scontro militare con la branca locale di ISIS. Secondo Confidence MacHarry, esperto di sicurezza che opera a Lagos citato da al-Jazeera, ISWAP sta cercando di espandersi nello Stato di Ondo, e ora anche il governo nigeriano avanza l’ipotesi – comunque da prendere con il beneficio del dubbio – che sia proprio ISWAP l’organizzazione responsabile dell’attacco a Owo. Negli ultimi tre o quattro anni, ha affermato MacHarry, le forze di intelligence nigeriane erano riuscite a sventare i piani dello Stato Islamico di compiere attentati su larga scala, mentre ora «hanno abbassato la guardia», ciò che ha reso possibile l’attacco. Non sembra quindi essere Boko Haram – “naturale” primo indiziato per le violenze di questo tipo in Nigeria – il responsabile dell’accaduto. Tuttavia, ciò non significa che l’attentato non abbia una connotazione religiosa, ha sostenuto Ebenezer Obadare, senior fellow al Council on Foreign Relations. È anzi preoccupante che non sia più soltanto Boko Haram a utilizzare queste tattiche per terrorizzare la comunità cristiana locale.  

 

Inoltre, come ha ricordato sul Wall Street Journal David Curry, presidente e CEO di Open Doors, la comunità cristiana locale stava cercando di riprendersi dallo shock causato dal pestaggio a morte di Deborah Samuel, giovane cristiana “colpevole” di aver condiviso in un gruppo WhatsApp il messaggio «Gesù Cristo è il più grande. Mi ha aiutato a passare gli esami». O, per citare un altro caso recente, dal rapimento del sacerdote Stephen Ojapa e del suo assistente, le cui sorti sono ancora ignote. Per questo, afferma Curry, è importante che il presidente Biden rimetta la Nigeria nella lista dei Paesi particolarmente critici per le persecuzioni religiose, anche se non è affatto chiaro quali conseguenze (probabilmente nessuna) avrebbe tale decisione. 

 

Mentre l’Africa muore di fame, Mosca cerca l’oro

 

L’Unicef ha lanciato l’allarme: se il mondo resta concentrato solo sulla guerra in Ucraina e non fa nulla per sbloccare il grano che dovrebbe lasciare i porti del Mar Nero, in zone come il Corno d’Africa moriranno migliaia di bambini. In Somalia qualcosa del genere sta già avvenendo: come riportato dall’Associated Press, sono numerosi i casi simili a quello di Owliyo Hassan Salaad, che quest’anno ha visto quattro figli morire di fame. Non è solo la guerra in Ucraina ad aver provocato questa situazione: le ultime quattro stagioni delle piogge si sono rivelate incredibilmente secche (la quinta si annuncia simile), ciò che ha provocato la morte del bestiame su cui facevano affidamento molte famiglie. L’aumento dei prezzi dei beni alimentari fa il resto, mentre i centri per il trattamento della malnutrizione estrema sono sempre più affollati. Complicano ulteriormente la situazione le stime dell’UNICEF, che parlano di un aumento del 16% a livello globale del prezzo dei cibi speciali utilizzati per curare i casi di malnutrizione più grave. 

 

Mentre molti Paesi africani fanno i conti con le conseguenze dell’aggressione russa in Ucraina, altri cercano di beneficiare della presenza di Mosca nel continente. Come abbiamo già indicato in altre occasioni, spesso la presenza russa in Africa si manifesta attraverso il gruppo paramilitare Wagner. Il dettaglio emerso questa settimana riguarda il Sudan. Ne ha parlato Declan Walsh sul New York Times, in un approfondimento che mostra come Wagner sia in realtà molto più di un gruppo paramilitare diffuso in Africa. In Sudan, infatti, l’obiettivo principale della compagnia guidata dall’oligarca Ievgeny Prigozhin non è militare ma politico-economico, ovvero diffondere l’influenza russa nel Paese e soprattutto avere accesso alle miniere d’oro, così da poter rafforzare le riserve russe, fondamentali per reggere il peso delle sanzioni nel lungo periodo. Wagner sarebbe presente in particolare nella miniera di al-Ibediyya, a nord di Khartoum e, ufficialmente, i russi lavorerebbero per la compagnia locale Meroe Gold, attraverso cui acquistano l’oro, lo fanno transitare negli Emirati Arabi e da lì verso la Russia. Tutto si svolge con il favore delle autorità locali, tanto che spesso, si legge sul New York Times, i russi girano per le città sudanesi scortati dalle Forze di Supporto Rapido del generale Mohammed Hamdan, i famigerati janjaweed, noti per le brutalità compiute nel Darfur.

 

Un altro Paese dove l’influenza russa è crescente è il Mali. Secondo quanto scritto dall’Atlantic Council persino Mosca potrebbe essere sorpresa da quanto sia stato facile inserirsi a Bamako dopo anni di profonda presenza europea: è bastato approfittare del risentimento locale e aggiungere un pizzico di disinformazione per ottenere risultati importanti per Mosca. Anche in Mali la Russia conta di ottenere «concessioni per l’estrazione delle ricchezze minerarie» e la firma di contratti per la vendita di armamenti. 


E se dopo la fine dell’operazione Barkhane il centro delle operazioni antiterrorismo francesi ed europee si sposta in Niger, occorre tenere presente che anche in questo Paese gli europei devono fare i conti con una presenza che potrebbe ostacolarne i piani. Si tratta in particolare del ruolo della Turchia, verso cui Niamey guarda in cerca di armamenti
 
L’India e i Paesi musulmani

 

Due esponenti del partito nazionalista indù Bharatiya Janata Party, di cui fa parte il primo ministro indiano Narendra Modi, hanno provocato un incidente diplomatico. Nel corso di un dibattito televisivo la portavoce del BJP Nupur Sharma ha rilasciato dichiarazioni offensive sul profeta dell’Islam Muhammad e sua moglie Aisha, poi riprese e aggravate da una serie di tweet di Naveen Jindal, responsabile della comunicazione del partito di Modi. Immediata la reazione di Qatar e Kuwait, che hanno convocato l’ambasciatore indiano e condannato fermamente l’accaduto. A seguire sono arrivate le condanne da parte di Arabia Saudita, Iran, Pakistan, Emirati Arabi Uniti, oltre che dell’Organizzazione per la Cooperazione Islamica (OIC), di al-Azhar, del gran Mufti dell’Oman, dei Talebani e di altre realtà islamiche. Nel tentativo di contenere i danni il BJP ha licenziato Sharma e Jindal, affermato che il partito rispetta ogni religione e «denuncia fermamente gli insulti rivolti a ogni personalità religiosa». Il BJP ha inoltre intimato ai suoi esponenti di essere estremamente cauti quando appaiono in televisione e il discorso verte attorno a questioni religiose.

 

Tuttavia, come ha ricordato NPR, le dichiarazioni di Sharma e Jindal non sono un fulmine a ciel sereno. Tutt’altro. In India, infatti, aumentano sempre più le violenze nei confronti della “minoranza” musulmana (parliamo di circa 200.000 milioni di persone) per mano dei nazionalisti indù, che sono «incoraggiati dal costante silenzio di Modi» al riguardo. Tuttavia, per l’India le discriminazioni e gli attacchi contro i musulmani non sono solamente una questione di politica interna. Al contrario, come evidenziato dalla richiesta di boicottaggio dei beni indiani avanzata in questi giorni, sono anche i rapporti economici dell’India con i Paesi islamici a essere messi in discussione. Come ha notato Dipavali Hazra sul sito indiano Times Now, sebbene New Delhi abbia respinto le critiche avanzate dall’OIC e dal rivale Pakistan, le autorità indiane stanno facendo il possibile per ristabilire un clima positivo nelle relazioni con i Paesi arabi del Golfo Persico. Sorprende, ha notato Hazra, la differenza tra il modo con cui l’India sta gestendo questa delicata situazione diplomatica e quello con cui aveva rispedito al mittente le critiche avanzate dal Segretario di Stato americano Antony Blinken riguardo al rispetto dei diritti umani da parte di New Delhi. Gli interessi economici in ballo sono molti, e il rapporto tra i Paesi del Golfo e l’India si basa sul commercio, non sulla religione, ha scritto Hazra. Per avere un’idea, basti pensare che l’Arabia Saudita è il quarto partner commerciale dell’India, che le rimesse degli indiani che lavorano nei Paesi del Golfo valgono il 2% del PIL indiano (2019), e che è in fase di negoziazione un accordo di libero scambio tra il Gulf Cooperation Council e l’India. Anche i legami con Abu Dhabi sono più che cordiali, tanto che gli Emirati Arabi Uniti hanno accordato a Narendra Modi la più alta onorificenza civile del Paese, l’Order of Zayed

 

Ecco perché la protesta dei Paesi a maggioranza islamica ha portato al licenziamento di Sharma e Jindal. Tutta questa vicenda lascia tuttavia la sensazione che le voci degli oltre 200 milioni di musulmani indiani non saranno ascoltate da Modi fino a quando le discriminazioni nei loro confronti non metteranno a rischio gli interessi economici e diplomatici di New Delhi. 

 

Arabia Saudita necessaria, a cura di Mauro Primavera

 

In un periodo segnato da inflazione, rialzo dei prezzi e tensioni geopolitiche legate all’invasione russa dell’Ucraina, i Paesi del Golfo si confermano – o, meglio, desiderano confermarsi – colonne portanti dell’economia mondiale, avanguardie della tecnologia e attori di primo piano nel contesto mediorientale. La strategia adottata per raggiungere questi ambiziosi obiettivi è piuttosto chiara e si fonda su due principi: diversificazione di mercati e partner commerciali da una parte, politiche di distensione e di buon vicinato dall’altra. 

 

Il caso dell’Arabia Saudita è emblematico. Secondo il giornalista del Wall Street Journal Dion Nissenbaum Riyad sta portando avanti da tempo, nella maniera più discreta possibile, colloqui con esponenti del governo israeliano per stabilire relazioni ufficiali tra i due Stati, a completamento del processo inaugurato dall’amministrazione Trump con gli “Accordi di Abramo”. «La domanda non è più “se”, ma “quando” l’Arabia Saudita riconoscerà Israele come (legittimo) vicino» scrive senza mezzi termini Nissenbaum.

 

L’iniziativa non deve essere letta solo alla luce dei possibili (e consistenti) benefici economici che otterrebbero le parti, ma anche di quelli politici, tra cui figura la riconciliazione tra Washington e Riyad. L’onta del delitto Khashoggi avvenuto nel 2017 impressiona ancora oggi l’opinione pubblica americana e buona parte dell’establishment presidenziale, anche se qualcosa sta cambiando: come osserva Steven Cook su Foreign Policy, l’ostilità di Biden verso il principe ereditario Mohammed bin Salman è considerata da molti analisti retaggio di un idealismo sterile, se non proprio deleterio per gli interessi nazionali. La monarchia wahhabita è infatti troppo ricca e importante per essere isolata, soprattutto perché, nell’attuale clima di incertezza e volatilità economica, continua a essere un prezioso alleato degli Stati Uniti in Medio Oriente. Idea condivisa anche dalla stampa israeliana, che ricorda anche come la mediazione americana per l’accordo sulle isole di Tiran e Sanafir possa essere un’opportunità per riavvicinare Biden e MbS. 

 

In attesa della normalizzazione, il Regno prosegue nella sua opera di diversificazione economica e trasformazione digitale. Il 5 giugno la neonata Saudi Cloud Computing Company, joint venture tra il colosso cinese Alibaba e alcune compagnie nazionali, tra cui Saudi Telecom e Saudi Company for Artificial Intelligence, ha annunciato l’aperura di due centri di raccolta dati nella capitale. Ciò permetterà a enti pubblici, aziende e privati cittadini di sfruttare a pieno le potenzialità offerte dai nuovi strumenti informatici, come lo stoccaggio dei dati nelle “nuvole digitali” (cloud), i servizi basati sulla blockchain e i prodotti della tecnofinanza. 

 

Riyad sta inoltre rilanciando il settore della cultura e dell’intrattenimento dopo l’interruzione causata dalla pandemia di Covid-19. Per citare due appuntamenti tra i tanti, il “Red Sea Film Festival”, esibizione cinematografica inaugurata nel 2019, è stata riconfermata anche per quest’anno, come riporta Forbes; nel mondo dei motori, nel circuito di Jedda si è disputato lo scorso marzo il Gran Premio di Formula Uno. L’organizzazione di numerosi eventi sportivi, musicali e artistici rientra tra gli impegni della Vision 2030, precisamente nella sezione chiamata “Quality Life Program”, che si pone l’obiettivo di “aumentare la felicità” della popolazione promuovendo eventi socioculturali e salvaguardando l’ambiente e gli habitat del Paese, come dimostrato dall’organizzazione della conferenza sulla biodiversità del Mar Rosso tenutasi a Riyadh l’8 giugno, in occasione della giornata internazionale degli Oceani. 

 

È tuttavia difficile valutare l’efficacia di queste iniziative: secondo l’ultimo World Happiness Report, commissionato dalle Nazioni Unite e che ogni anno misura il grado di felicità delle nazioni, il Regno occupa il venticinquesimo posto nella classifica mondiale: un risultato molto buono, ma che non registra miglioramenti negli ultimi dieci anni. Per contro, una ricerca (KSA Reputation: How Vision 2030 is Rebranding the Nation) dell’agenzia di consulenza CARMA segnala che nel solo biennio 2020-21 tra la popolazione locale vi è stato un incremento di “sentimenti positivi” del 9%. Questo, unito alla percezione dell’opinione pubblica, mostra quanto profondi e rapidi siano i cambiamenti a cui il Regno sta andando incontro.   

 

Rassegna della stampa araba, a cura di Chiara Pellegrino
L’India di Modi attacca Muhammad, il mondo islamico s’indigna

 

Questa settimana apriamo la rassegna con le reazioni scatenate dai commenti antislamici dei due portavoce del partito nazionalista indù Bharatiya Janata. 

 

Sul quotidiano londinese al-‘Arabī al-Jadīd, Yaser Abu Hilala ha accusato il primo ministro indiano Narendra Modi di aver trasformato l’India da Paese «sostenitore delle nostre cause […] e della Palestina in un alleato dello Stato sionista, che condivide le idee di quest’ultimo di trasformare la religione in un nazionalismo». Secondo il giornalista giordano, la separazione del Pakistan e del Bangladesh dall’India è stato un grande errore storico perché ha reso minoritari i musulmani indiani, mentre se i tre Paesi fossero rimasti un unico Stato oggi i musulmani sarebbero circa la metà della popolazione. Il discorso separatista – conclude Abu Hilala – ha incoraggiato l’estremismo indù e la promulgazione di leggi razziste. 

 

Anche al-Quds al-‘Arabī ha posto sotto la lente d’ingrandimento i rapporti tra l’India e Israele. Un editoriale rileva il graduale avvicinamento tra i due Stati avvenuto nel corso degli ultimi anni. Fino a qualche anno fa, si legge, l’India era uno dei principali Paesi non arabi a sostenere la causa palestinese. Con l’ascesa di Modi, nel 2014, le cose sono cambiate. Quest’ultimo è stato il primo leader indiano a visitare Israele e a sancire una serie di accordi militari con lo «Stato dei coloni»: l’India è diventato il maggior acquirente di armi israeliane (42,2% delle esportazioni totali di Israele) con una spesa di un miliardo di dollari l’anno, e dal 2017 è diventato un «partner strategico» nella produzione di armi israeliane. Inoltre, la politica di odio adottata dagli estremisti indù contro i musulmani ricorderebbe quella applicata dai coloni ebrei nei confronti dei palestinesi.

 

Il quotidiano filo-islamista ‘Arabī21 ha pubblicato una serie di articoli “religiosamente impegnati” in difesa dell’Islam e del suo Profeta. Shaykh Essam Talima, esponente dei Fratelli musulmani egiziani, ritiene che i portavoce del partito nazionalista indù non siano nella posizione di accusare Muhammad di aver sposato ‘Aisha giovanissima, visto che l’India era, fino a pochi anni fa, uno dei Paesi con il più alto tasso di matrimoni precoci al mondo (il 47% di questi riguardava ragazzine tra i 10 e i 14 anni). Talima ritiene inoltre lodevoli, ma non sufficienti, le prese di posizione di alcuni governi arabi contro l’India e invita ad assumere misure più drastiche, come il boicottaggio economico. Secondo lo shaykh, infine, l’assenza di proteste popolari contro il governo indiano nelle piazze arabe si spiega alla luce delle controrivoluzioni, che «hanno portato al potere autorità che opprimono i popoli. […] La vitalità delle piazze, che tanto spaventa queste autorità, è il grande assente di oggi tanto nelle questioni religiose legate agli elementi costitutivi dell’Islam, quanto nelle questioni che riguardano la umma, come la questione palestinese».

 

Significativa è anche la vignetta con cui lo stesso quotidiano denuncia «il discorso di odio e razzismo» indiano: Modi seduto per terra, gambe incrociate, incanta un serpente con un cinguettio di Larry, l’uccellino simbolo di Twitter. 

Nel frattempo, gli ulema della Mauritania hanno invitato a «interrompere qualsiasi tipo di collaborazione con il governo indiano boicottando a livello istituzionale e popolare le merci indiane, soprattutto l’importazione di medicinali, e sospendendo l’assunzione di lavoratori indiani non musulmani nei Paesi islamici». 

 

Il Gran muftì dell’Oman, Ahmad bin Hamad al-Khalili, ha definito i commenti dei due portavoce del partito Bharatiya Janata «una guerra a tutti i musulmani d’Oriente e d’Occidente, una questione che chiama a una sollevazione di tutti i musulmani».   

 

Tunisia: chi non vuole l’Islam nella Costituzione

 

In Tunisia continuano a far discutere le dichiarazioni rilasciate dal capo della Commissione incaricata di redigere la nuova Costituzione, Sadiq Belaid, il quale ha annunciato che il testo costituzionale non conterrà riferimenti all’Islam quale religione di Stato. 

 

Al-‘Arabī al-Jadīd ha pubblicato una breve biografia (critica) di Sadiq Belaid in cui vengono messi in luce i rapporti che legano il giurista all’attuale presidente della Repubblica Kais Saied. Quella tra Saied e Belaid, scrive Walid Tlili, è una conoscenza di vecchia data risalente ai tempi dell’università, quando il presidente era uno studente di Belaid. 83 anni, quest’ultimo è accusato dall’opposizione di aver contribuito «con la sua esperienza giuridica a mantenere al potere il regime anti-democratico» e di essere l’artefice di «costituzioni su misura», che variano secondo le richieste dei committenti. Un aneddoto farebbe capire la disponibilità di Belaid a scendere a patti con l’interlocutore del momento: nel progetto di costituzione che propose nel 2012, Belaid aveva mantenuto invariato l’articolo 1, mentre ora propone di emendarlo eliminando il riferimento all’Islam quale religione di Stato su richiesta dell’amico e presidente Saied. 

 

Il quotidiano giordano Ra’y al-Youm apre con due domande: se l’Islam sia la religione della umma o dello Stato, e se l’eliminazione del riferimento all’Islam sia un passo per combattere l’estremismo o un modo per eliminare gli oppositori islamisti di Saied. Ufficialmente, spiega il giornalista, la scelta di emendare l’articolo 1 è giustificata dalla necessità di «combattere l’estremismo ed evitare che la religione venga usata per fini politici»; per i detrattori del progetto, invece, questa decisione è finalizzata a «cancellare l’identità dello Stato» ed «eliminare l’Islam politico in Tunisia». L’autore dell’articolo sembra parteggiare per Saied, a cui viene riconosciuto il merito di «lasciare al singolo la libertà di scegliere, senza imporre la sharia per legge» e di cui riporta il punto di vista per cui «l’Islam è la religione della umma [la comunità islamica], non dello Stato; noi non preghiamo e digiuniamo sulla base dell’articolo 1 della Costituzione, ma per ordine di Dio». 

 

Il quotidiano emiratino al-Khalīj, ostile all’islamismo, come del resto tutti i giornali pubblicati negli Emirati, ha titolato “La Tunisia si avvia verso la limitazione dell’Islam politico nella nuova Costituzione” e ha pubblicato alcuni stralci di un’intervista a Imad al-Hamami, ex ministro dell’Impiego in Tunisia ed ex membro di Ennahda, che nel 2021 ha abbandonato il partito islamista tunisino per avvicinarsi a Saied. Secondo al-Hamami, in Tunisia «l’Islam non è in pericolo, ma è importante che la prossima Costituzione prenda le distanze dall’ideologia e mantenga il focus sulle questioni economiche e sociali. Basta con i conflitti e con gli scontri; chi ha soluzioni vantaggiose per la Tunisia, le presenti». Giudizio severo, invece, quello espresso da Hamami sulle sorti dell’Islam politico nel Paese dei gelsomini: «In Tunisia, i partiti islamisti non hanno futuro e io non consiglio di votarli». 

 

Il quotidiano tunisino Hespress ha intervistato Mountassir Hamada, ricercatore del Centro marocchino per gli Studi e le Ricerche, per il quale è difficile presentare una Costituzione che non contenga alcun riferimento all’Islam visto che la Tunisia ha dato i natali a molti ulema e giuristi. Secondo Hamada, ciò che sta accadendo in Tunisia è rivoluzionario visto che «né durante l’epoca di Habib Bourguiba, soprannominato l’“Ataturk arabo”, né durante l’epoca di Zine El Abidine Ben Ali, artefice di un approccio sicuritario intransigente verso l’islamismo, il legislatore tunisino è mai arrivato a eliminare la componente islamica dalla Costituzione». Resta il fatto, però, spiega ancora Hamada, che l’opinione pubblica tunisina è tendenzialmente conservatrice: i sostenitori delle posizioni estreme – il riferimento islamista da un lato, il riferimento laico dall’altra – sono una minoranza. È vero che «il discorso laico è presente nell’arena tunisina da decenni, ma si tratta di un secolarismo relativo o parziale, non certo della laicità in stile francese». 

 

Al-Quds al-‘Arabī ha riportato le opinioni di alcuni attivisti dell’Islam politico tunisino, tra cui quella di Rafik Abdessalem, ex ministro degli Esteri e membro di Ennahda, secondo il quale Saied e il suo gruppo «nutrono un odio profondo per l’Islam e vogliono saldare i conti usando lo Stato. La Costituzione del 2014 è frutto della rivoluzione della libertà e della dignità e appartiene interamente al popolo tunisino. Analogamente, la questione dell’Islam e dell’identità riguarda tutto il popolo, non è proprietà esclusiva di Ennahda né di nessun altro partito». Secondo l’attivista Burhan Bessis, la decisione di eliminare il riferimento all’Islam dalla Costituzione si ritorcerà contro il presidente della Repubblica: «Il bacino [elettorale] di Kais Saied è per lo più conservatore. L’abolizione del riferimento all’Islam si rifletterà negativamente sulla credibilità di cui gode, nella sua base, il presidente».

 

Normalizzazione ad alta velocità tra Marocco e Israele 

 

Concludiamo la nostra rassegna con un breve articolo sullo stato di avanzamento dei rapporti bilaterali tra Rabat e Tel Aviv a un anno e mezzo dalla firma degli accordi di normalizzazione tra i due Paesi o, per usare un’espressione del giornalista, «dallo tsunami». Dall’autunno 2020 a oggi, scrive ‘Ali Anuzla, quasi non passa settimana che non ci sia un incontro, una telefonata o un accordo tra le autorità marocchine e israeliane. Soltanto nelle ultime settimane i due Stati hanno stipulato un accordo nell’ambito del monitoraggio e della protezione dei dati personali, un accordo tra le università e i centri di ricerca dei due Paesi volto a creare delle sinergie tra studenti e ricercatori, e sono stati aperti in Marocco i primi studi di un «canale sionista», nell’ambito di quella che viene definita «normalizzazione mediatica». Il processo di normalizzazione procede dunque ad alta velocità, scrive ‘Ali Anuzla, nonostante il disappunto della maggioranza dei marocchini, ostili a Israele, e di cui il governo non si cura minimamente. Anuzla conclude definendo la normalizzazione «uno sport provocatorio, che sfida la maggioranza silenziosa dei figli e delle figlie del popolo marocchino». 

 

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