Dopo il crollo dei prezzi del petrolio del 2020, l’invasione russa ha avuto l’effetto di rilanciare rendita da idrocarburi e rilevanza geopolitica dei Paesi esportatori di combustibili fossili. Ma le sfide poste dalla transizione energetica rimangono

Ultimo aggiornamento: 15/03/2024 11:48:39

La guerra in Ucraina ha rappresentato uno spartiacque per il mercato energetico. Dopo oltre 50 anni, essa ha infatti causato la fine del ponte energetico tra Russia ed Europa, generato un cambiamento dei flussi energetici mondiali ed esasperato la crisi energetica iniziata nel 2021. Tuttavia, l’inizio dell’attuale fase di profonda trasformazione dei mercati energetici globali può essere fatta risalire già al 2020 ed è stata dettata dal susseguirsi di numerose crisi (sanitaria, economica, energetica, climatica e geopolitica) e dalle relative risposte politiche.

 

Gli effetti del cambiamento in atto, e delle numerose crisi, sono particolarmente visibili in Medio Oriente e in Nord Africa, per via del connubio tra ricchezze naturali, produzione di idrocarburi e dipendenza dalle rendite petrolifere dei Paesi di questa regione (rentier state). Nell’arco degli ultimi due anni, nella regione MENA si è verificato un considerevole cambio di rotta dal punto di vista economico-politico proprio a causa della forte volatilità dei mercati energetici.

 

 

2020: l’annus horribilis

 

Il 2020 ha rappresentato un annus horribilis per i Paesi produttori di idrocarburi a causa del ridotto consumo di energia a livello mondiale conseguente dalle politiche anti-Covid. Tale situazione si è ripercossa sui prezzi di gas e petrolio, il cui crollo tra il febbraio e l’aprile del 2020 ha messo sotto forte pressione le economie regionali che dipendono dalla rendite da idrocarburi. La condizione economico-fiscale nella regione è stata aggravata dal fatto che molti dei settori maggiormente colpiti dalla pandemia, come turismo e logistica, rivestono un ruolo chiave nelle strategie di diversificazione economica dei Paesi mediorientali. Allo stesso tempo, nel 2020 si è registrato a livello globale un crescente impegno politico a promuovere la lotta al cambiamento climatico e a favorire la transizione energetica. Un numero crescente di Paesi, tra cui la Cina, ha annunciato obiettivi climatici sempre più ambiziosi. A oggi, 133 Paesi su 198 – corrispondenti all’80% della popolazione del pianeta, al’83% delle emissioni globali e al 90% del PIL mondiale – hanno annunciato obiettivi net-zero entro circa la metà del secolo. Numerosi piani di ripresa economica post-COVID, a partire dal piano europeo NextGenerationEU, sono stati elaborati con l’obiettivo di favorire la transizione energetica e uno sviluppo più sostenibile. Alla luce di questi sviluppi, si pensava che il 2020 potesse rappresentare un antipasto di quello che un futuro net-zero avrebbe significato per i Paesi di Medio Oriente e Nord Africa – specialmente quelli esportatori: crescente impegno politico per la decarbonizzazione, bassa domanda di fonti fossili a livello globale, riduzione delle rendite, difficoltà macroeconomiche e ridotta rilevanza (geo)politica.

 

 

From bust to boom

 

A partire dal 2021 il sistema dell’energia ha dovuto affrontare “la prima vera crisi energetica globale”. Se con le riaperture dell’economia dopo la pandemia la domanda energetica è ripartita, sollecitata anche dai piani di ripresa economica, l’offerta di energia ha incontrato numerosi problemi, ciò che ha causato uno squilibrio tra domanda e offerta e provocato il primo innalzamento dei prezzi, avvenuto nell’estate del 2021. La guerra in Ucraina ha aggravato le difficoltà energetiche, generando un ulteriore aumento dei prezzi, col petrolio che ha superato i 100$ al barile a marzo 2022 e il gas che in Europa ha raggiunto i 339 € per megawatt ora (MWh) nell’agosto 2022. Benché i prezzi siano scesi, specialmente quello del gas, che ora si aggira intorno ai 40-50€/MWh, essi rimangono ben al di sopra dei livelli pre-crisi.

 

L’impennata dei prezzi ha permesso ai Paesi esportatori di godere di rendite ingenti. La sola Arabia Saudita ha guadagnato 1 miliardo di dollari al giorno grazie alle esportazioni petrolifere nel marzo del 2022 e secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale (FMI) l’anno scorso ha registrato la più pronunciata crescita economica a livello mondiale (+8.7%). In breve tempo, i Paesi esportatori si sono lasciati alle spalle gli anni – quelli seguiti al crollo dei prezzi del 2014 – nei quali avevano dovuto utilizzare le proprie riserve finanziarie per preservare il loro modello socioeconomico e la pace sociale. In quel periodo, per esempio, l’Algeria ha visto ridursi le proprie riserve dai 200 miliardi di dollari del 2014 a 47 miliardi nel 2020. D’altro canto, i Paesi importatori e poveri di idrocarburi si sono ulteriormente indeboliti a causa delle difficoltà generate dalla crescita dell’inflazione e dei tassi di interesse, dalla fragilità alimentare e dall’aumento della spesa per mantenere i sussidi pre-crisi.

 

 

Una ritrovata centralità geopolitica

 

Oltre alle rendite petrolifere, la regione ha anche beneficiato di una ritrovata centralità grazie al ritorno della sicurezza energetica nel dibattito politico e della necessità europea di diversificare le forniture energetiche dopo lo scoppio della guerra in Ucraina. Molti Paesi europei hanno incrementato la propria attività diplomatica coi Paesi del Mediterraneo allargato per assicurarsi i volumi necessari a sostituire le importazioni russe. Una delle conseguenze di questo processo è stata la riconfigurazione dei flussi energetici mondiali. Grazie alle vaste risorse di idrocarburi a basso costo e alle relazioni già esistenti, la regione MENA è una delle più idonee a sostituire le forniture energetiche russe nel mercato europeo. Il Mediterraneo è così tornato a essere un’area di interesse per l’Europa vista la sua vicinanza e le infrastrutture esistenti, come certificato dalla rinsaldata e rafforzata cooperazione energetica tra Italia e Algeria. Anche i Paesi del Golfo, tradizionalmente più legati ai mercati energetici asiatici, hanno acquisito una rilevanza particolare per l’Europa, sia per quanto riguarda il petrolio che per il gas. Il documento “Strategic Partnership with the Gulf”, pubblicato nel maggio del 2022, certifica che l’UE ambisce a intensificare la cooperazione con gli Stati del Gulf Cooperation Council (GCC). Alle richieste di cooperazione provenienti dall’Europa, i Paesi del GCC hanno risposto con approcci diversi. Se il Qatar ha espresso la sua disponibilità ad aiutare i Paesi europei, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti sono stati più titubanti di fronte alle richieste di aumentare la produzione petrolifera. Anzi, nell’ottobre 2022 i Paesi dell’OPEC+ hanno annunciato il taglio di 2 milioni di barili al giorno. La scelta, ufficialmente motivata da ragioni di mercato, è stata fatta nonostante la forte pressione delle economie importatrici, Stati Uniti in primis, per aumentare la produzione e ridurre i prezzi[1]. La decisione dell’OPEC+ ha così esasperato le tensioni tra Washington e Riyad anche in ragione della prossimità delle elezioni di midterm americane e del precedente viaggio di Biden in Arabia Saudita, durante il quale il presidente americano aveva cercato di avere rassicurazioni sul prezzo del petrolio. Il nuovo approccio dei Paesi produttori del Golfo Persico testimonia come essi perseguano sempre più i propri interessi ed evidenzia il cambio di strategia di Arabia Saudita ed Emirati, con il passaggio dal bandwagoning all’hedging (a differenza del Qatar che dal 1990 persegue una strategia di hedging).

 

 

Transizione energetica e riforme: strategie, opportunità e rischi

 

Questi numerosi cambiamenti e sviluppi politici ed energetici sollevano diverse domande sulle opportunità e i rischi che esistono per i Paesi della regione, oltre che sulle strategie che essi potrebbero perseguire.

 

Nonostante l’impennata della loro rendita da idrocarburi, i Paesi produttori si trovano ad affrontare alcune sfide. Innanzitutto, i petrostati non possono pensare di basare il proprio sviluppo sullo stesso livello di rendite registrate nel 2022. Quella energetica è un’industria ciclica e lo stesso vale per l’andamento degli investimenti (booms and busts). Nonostante la crisi attuale abbia una natura strutturale, i prezzi sono destinati a scendere nei prossimi anni in seguito all’avvio di nuovi progetti di produzione e alla riduzione della domanda – anche se un certo grado di volatilità rimarrà. Storicamente i Paesi dell’area MENA hanno perseguito politiche fiscali pro-cicliche incorrendo in numerose difficoltà quando crollavano i prezzi del petrolio (come dal 2014 al 2020). È importante che questi Paesi non replichino gli errori del passato bensì cerchino di utilizzare le rendite per accelerare la trasformazione e adattare la propria economia al contesto energetico mondiale del futuro. Difatti, nonostante la sicurezza energetica sia tornata in auge, l’ambizione di decarbonizzare l’economia e le società è rimasta centrale, come testimoniato sia dal piano REPowerEU che dall’Inflation Reduction Act americano. Dunque, la transizione energetica, e la sua rapidità, pongono una sfida alla possibilità di monetizzare le riserve di idrocarburi da parte dei Paesi produttori della regione, che godono di un rapporto riserve-produzione che si estende per molti decenni.

 

La speranza dei Paesi produttori è che la crisi energetica porti a un approccio più “pragmatico” alla transizione energetica da parte dei Paesi consumatori. La COP27 tenutasi in Egitto nel 2022 e il fatto che gli Emirati ospiteranno quest’anno la COP28 confermano il ruolo crescente giocato dai Paesi produttori nei negoziati climatici. Inoltre, la decarbonizzazione è diventata sempre più rilevante anche per i Paesi della regione, per molteplici ragioni. La transizione energetica è un elemento decisivo delle Vision lanciate dagli Stati del Golfo specialmente dopo il crollo dei prezzi del 2014 per diversificare l’economia e creare posti di lavoro per i giovani. Inoltre, le rinnovabili possono giocare un ruolo decisivo nel rispondere alla crescente domanda energetica interna, permettendo ai Paesi produttori di liberare volumi aggiuntivi di petrolio e gas per i mercati globali, e ai Paesi importatori di ridurre il costo delle importazioni di petrolio e gas. Infine, esse sono necessarie per ridurre le emissioni di CO2 in una regione che è particolarmente esposta agli effetti negativi del cambiamento climatico. Per questi motivi, molti governi (sia produttori che non) hanno annunciato obiettivi climatici-energetici: mentre quasi tutti i Paesi si sono dati obiettivi riguardo alle fonti rinnovabili, ben cinque paesi del Golfo (EAU, Arabia Saudita, Bahrain, Oman e Kuwait) hanno reso noti target net-zero entro, o attorno, il 2050.

 

Per raggiungere questi obiettivi, i Paesi della regione dovranno accelerare lo sviluppo delle rinnovabili, sfruttando un grande potenziale – specialmente nell’ambito dell’energia solare – finora largamente inutilizzato. È dunque necessario che essi dedichino importanti risorse economiche e attuino numerose riforme strutturali per raggiungere il target net-zero. Ma questo implica anche che non sarà possibile rinunciare completamente a petrolio e gas. Infatti, nonostante rimanga vigente l’obiettivo mondiale fissato al 2050, petrolio e gas resteranno elementi del sistema energetico mondiale durante la transizione. Inoltre, il settore oil & gas garantisce una reddittività per i Paesi produttori difficilmente sostituibile con quella di altri settori: basti considerare che l’Arabia Saudita ha visto le sue rendite da esportazioni superare i $400 miliardi nel 2022. Per questo motivo, i Paesi produttori rafforzeranno la propria industria petrolifera, sfruttando i numerosi vantaggi competitivi di cui godono rispetto ai concorrenti (basso costo della produzione, bassa intensità carbonica, caratteristiche geologiche per stoccaggio di CO2), per mantenere un ruolo determinante nelle forniture di petrolio e gas, come illustrato dall’approccio saudita di Circular Carbon Economy (CCE). In quest’ottica, molti Paesi stanno attuando progetti per la cattura e lo stoccaggio della CO2, da un lato per minimizzare l’impatto della loro produzione di idrocarburi e dall’altro per sviluppare la produzione del cosiddetto idrogeno blu (quello prodotto da gas naturale accoppiato con un impianto di cattura e stoccaggio della CO2). I Paesi del Golfo, a differenza di molti Stati nordafricani e mediorientali, hanno a loro disposizione gli strumenti e gli attori che svolgeranno un ruolo fondamentale in questa trasformazione, potendo contare sulle compagnie petrolifere nazionali e sui fondi sovrani. Le compagnie petrolifere nazionali saranno decisive non solo per la transizione interna ma anche a livello globale, visto che producono oltre 3/5 del greggio mondiale, metà del gas, e possiedono 2/3 delle riserve di entrambi. Nella regione del Golfo, le compagnie nazionali hanno l’ambizione di rafforzare i propri vantaggi competitivi anche nell’ambito della transizione energetica. Le rendite petrolifere saranno cruciali anche per ridurre le difficoltà derivanti dalle riforme strutturali che questi Paesi si avviano a mettere in atto. E anche in questo caso i Paesi del Golfo sono posizionati meglio di quelli del Nord Africa: Riyad, Abu Dhabi, Doha e i loro vicini possono infatti usare i fondi sovrani, che sono tra i più grandi al mondo, per investire nella trasformazione e ridurre i costi delle riforme che i cittadini devono sostenere. Con il solito obiettivo: mantenere la stabilità socioeconomica.

 

 

Dinamiche regionali ed internazionali

 

Il perdurare della crisi e l’impegno per la transizione energetica plasmeranno le dinamiche regionali e internazionali. Sarà decisivo vedere come le rendite petrolifere verranno distribuite anche a livello regionale (considerando che la quasi totalità dei Paesi dell’area ha sviluppato una mentalità rentier), un fattore cruciale per la stabilità della regione stessa. Ciò permetterebbe ai Paesi produttori di accrescere la loro influenza incentivando anche una qualche trasformazione per il Medio Oriente – come annunciato dall’Arabia Saudita a inizio 2023.

 

Tuttavia, anche gli sviluppi energetici mondiali avranno conseguenze importanti sull’area. Le diverse velocità di realizzazione della transizione energetica nel mondo modificheranno le relazioni di dipendenza: alcuni Paesi, principalmente quelli asiatici, intensificheranno le proprie relazioni energetiche con i Paesi produttori di Medio Oriente e Nord Africa in ragione della loro crescente domanda energetica. Questo potrebbe portare anche a una maggiore cooperazione economica e politica, come testimoniato dall’inaspettato accordo tra sauditi ed iraniani mediato dalla Cina.

 

Al contrario, i Paesi occidentali dovrebbero ridurre le importazioni alla luce di una domanda energetica minore e di una più rapida transizione. Nel breve periodo, la necessità europea di assicurarsi forniture energetiche alternative a quelle russe può creare le condizioni di una maggiore cooperazione non solo coi Paesi nordafricani ma anche con quelli del Golfo. Per preservare le relazioni nel lungo periodo, invece, l’UE dovrebbe promuovere una nuova cooperazione energetico-climatica che favorisca lo sviluppo di forniture energetiche green, come idrogeno ed elettricità pulita. Ciò garantirebbe la futura domanda per questi prodotti, e quindi incentiverebbe gli investimenti, promuovendo una strategia per l’intera regione che, al tempo stesso, riconosca le diverse necessità.

 

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[1] I prezzi non sono risaliti nei mesi successivi della decisione dei paesi OPEC+.