Il mondiale è stato l’occasione per il Qatar di dare attuazione alla sua politica estera e rafforzare i legami con i Paesi vicini. Nei confronti dell’Occidente, Arabia Saudita ed Emirati stanno iniziando a seguire la strategia che Doha ha messo in atto dalla metà degli anni ‘90

Ultimo aggiornamento: 15/03/2024 11:50:36

Lo svolgimento del mondiale è stato il coronamento di anni di politica estera qatarina. La coppa del mondo ha posto Doha, nel bene e nel male, sotto i riflettori. Abbiamo chiesto a Mehran Kamrava, professore alla Georgetown University in Qatar e direttore della Iranian Studies Unit presso l’Arab Center for Research and Policy Studies, di tentare un bilancio dell’evento e di aiutarci a decifrare lo stato delle relazioni tra i Paesi del Golfo.

 

Intervista a cura di Claudio Fontana

 

Il 18 dicembre i qatarini hanno celebrato la loro festa nazionale e la sera hanno guardato la finale della Coppa del Mondo. Considerando l’importanza che il Qatar ha attribuito all’organizzazione di questa competizione, non mi sembra una coincidenza il fatto che questi due eventi si siano sovrapposti. In che modo l’organizzazione della Coppa del Mondo rientra nella più ampia agenda politica fissata dall’emiro Tamim bin Hamad Al Thani?

 

Uno dei principi della politica estera del Qatar è il branding, e una delle dimensioni di questa strategia di branding è ospitare grandi eventi sportivi. Oltre ai mondiali di calcio di quest’anno, a Doha si è tenuto il campionato mondiale di pallamano, e il Paese si è candidato per l’assegnazione delle Olimpiadi. Tutto ciò fa parte di un tentativo molto più ampio di fornire al Qatar una piattaforma sulla base della quale farsi riconoscere dal resto del mondo. Cercare di specializzarsi in un settore, che sia quello sportivo, ambientale, bancario o tecnologico, è una caratteristica dei piccoli Stati. Per il Qatar, lo sport è un ottimo settore in cui il governo sta provando a specializzarsi: ospitare i mondiali fa dunque parte di una strategia di politica estera di cui il branding costituisce uno dei pilastri.

 

Ciò non è però avvenuto senza costi per il Qatar: soprattutto sui media occidentali le polemiche, prima in merito ai diritti dei lavoratori, poi a quelli delle persone LGBT e infine per i recenti casi di corruzione al Parlamento europeo, l’hanno fatta da padrone. In che modo le autorità del Qatar hanno affrontato questo tipo di accuse? Sono una fonte di preoccupazione per Doha?

 

Anzitutto va chiarito che non dobbiamo necessariamente assumere che i media occidentali contino qualcosa o che le loro motivazioni siano nobili. La mia impressione è che più l’Occidente critica il Qatar, più rivela la sua stessa ipocrisia. È un atteggiamento non lontano dal razzismo. Forse i media europei e americani si rivolgono alle proprie popolazioni, magari rinforzano pregiudizi preesistenti, ma ai qatarini importa? Il Paese più critico del Qatar è stato la Germania, che poi ha firmato un importante accordo sul gas, proprio mentre Jürgen Klinsmann, per esempio, faceva tutti quei commenti razzisti sulla BBC, uno dei maggiori canali di comunicazione dell’Occidente! Ecco perché mi pare che le critiche occidentali danneggino più l’Occidente stesso che il Qatar: esse svelano l’Occidente per quello che è veramente. Dobbiamo tenerlo a mente. Ciò non toglie che i qatarini siano stati sensibili alle critiche dei media. In particolare, non penso si aspettassero né questo grado di diffusione delle critiche, e nemmeno che arrivassero a tanto. Immaginavano che, una volta iniziate le partite, il calcio avrebbe preso il centro della scena.

 

In effetti lo immaginavamo anche noi, ma non è stato così.

 

No. Questo evidenzia che lo sport è stato non solo politicizzato ma anche usato come un’arma. Quindi, tornando alla domanda precedente: ai qatarini importa delle critiche occidentali? Sì e no. Doha fornisce ancora il suo gas agli europei, mentre gli italiani sono desiderosi di vendere le armi, la Germania di acquistare il gas, e gli inglesi sono disponibili a parlare. Non sono perciò sicuro di quale sia il punto delle critiche, e nemmeno del risultato che produrranno. Per ora sembrano permettere a molte persone di esprimere la loro invidia nei confronti di un torneo che è stato un notevole successo. Le critiche hanno avuto grande risonanza, ma non sono riuscite a cambiare ciò che alla fine conta nelle relazioni internazionali, ovvero la politica economica internazionale.

 

Passando allo scenario internazionale, i mondiali hanno offerto l’opportunità di organizzare diversi incontri fra le autorità della regione. Abbiamo assistito per esempio all’incontro fra Mohammed bin Salman e Sheikh Tamim, poi a quello fra Mohammed bin Zayed e lo stesso Tamim. Sappiamo che l’accordo di Al Ula ha messo fine alla crisi del 2017 tra i Paesi del Golfo, ciononostante sembra che permangano notevoli divergenze. Qual è lo stato delle relazioni fra Doha e i suoi vicini?

 

Lo stato delle relazioni tra i Paesi dell’area è molto differenziato. Sia il Qatar che l’Arabia Saudita desideravano migliorare le loro relazioni. L’intenzione era reciproca e l’occasione per dimostrarlo è stata la vittoria dell’Arabia Saudita sull’Argentina. In quella circostanza l’emiro del Qatar ha indossato la sciarpa saudita, mentre in seguito è toccato a MbS indossarne una del Qatar. È interessante notare che Mohammed bin Zayed non abbia voluto partecipare alla cerimonia d’apertura. Secondo alcune voci era volutamente assente, perché le relazioni fra Abu Dhabi e Riyad vivono un momento non semplice. L’assenza di MbZ, che ha inviato il primo ministro, Mohammed bin Rashid al-Maktoum, non aveva per forza a che fare con il Qatar. È stato molto importante che, in seguito, MbZ abbia accettato l’invito ricevuto da Tamim e si sia recato in visita di Stato a Doha. Per sintetizzare, le relazioni di Doha con Riyad sembrano essere all’apice, con Abu Dhabi i toni sono cordiali (è stato molto astuto l’emiro del Qatar a invitare MbZ), mentre le relazioni fra Doha e Manama sono pressoché inesistenti.

 

Tornando nello specifico alla Coppa del Mondo, abbiamo visto lo sfoggio di un’amicizia molto forte tra il Qatar e il Marocco. Si tratta di un sodalizio che riguarda sia le popolazioni che le sue autorità dei due Paesi?

 

Durante la Coppa del Mondo molti primi ministri o capi di Stato sono venuti a Doha a vedere le partite di apertura delle loro nazionali. Da parte del Marocco non c’è stata una visita di Stato ufficiale, ma soltanto l’invio di un ministro. Il re del Marocco non era presente nemmeno alla semifinale, a differenza di Macron, che però va ovunque. Io penso che il rapporto tra Marocco e Qatar abbia più a che fare con la nazionale marocchina e con il significato che essa ha per il mondo arabo, per l’Africa, per i musulmani, per questa particolare Coppa del Mondo, soprattutto alla luce del fatto che l’Europa è stata così scortese e infantile. Più che a una particolare relazione strategica tra Marocco e Qatar, mi pare che il sostegno riservato alla nazionale marocchina sia una reazione al comportamento occidentale.

 

Quindi se fosse stata per esempio la Tunisia a giocare la semifinale avremmo notato lo stesso coinvolgimento del pubblico?

 

Sì, assolutamente. E penso che il sostegno l’avrebbe avuto anche l’Iran.

 

Tornando allo scenario internazionale, abbiamo notato che dopo l’invasione russa dell’Ucraina c’è stato un deterioramento nei rapporti fra Abu Dhabi e Washington e, soprattutto, fra Washington e Riyad. Lo stesso vale, anche se in misura diversa, per i rapporti fra le due capitali arabe e l’Europa.

 

Il punto è che le relazioni tra Arabia Saudita ed Emirati Arabi da un lato, e Paesi europei e soprattutto Stati Uniti dall’altro, hanno assunto una natura transazionale [si negozia dunque su ogni aspetto e bisogna trovare sempre un punto d’accordo in cui entrambe le parti guadagnano qualcosa, NdR]. In precedenza invece tale rapporto si basava sui principi: qualsiasi cosa accadesse, c’era un legame speciale. Le cose sono cambiate anche per via dell’avvento delle nuove leadership in entrambe le capitali arabe, con MbS, MbZ e le nuove generazioni, che sono molto più sicure di sé e molto più assertive in politica estera. Oggi sia Abu Dhabi che Riyad cercano di realizzare l’autonomia strategica. Se fossi in John Mearsheimer starei sorridendo, perché sembra che la sua teoria sul mondo anarchico e sul realismo sia confermata mentre parliamo: queste leadership affermano di voler seguire i propri interessi strategici, indipendentemente da tutto il resto.

 

Al contrario di quanto avvenuto con Emirati e Arabia Saudita, mi pare che l’alleanza tra Paesi occidentali e Qatar esca rafforzata dagli ultimi mesi, scandalo al parlamento europeo escluso.

 

È importante comprendere che la politica estera del Qatar è stata differente da quella saudita ed emiratina. Un piccolo Stato ha due opzioni di politica estera: il bandwagoning [l’allineamento pressoché assoluto con un partner più potente, NdR], e l’hedging [la diversificazione, NdR]. Entrambi hanno vantaggi e svantaggi. I vantaggi del bandwagoning consistono nel fatto che il Paese più potente garantisce la sicurezza dello Stato debole e se ne prende cura e in cambio la nazione “protetta” segue la guida della nazione più potente. Ci sono però anche due svantaggi: il primo è il rischio che il protettore abbandoni il protetto, magari per fare un accordo con il nemico. Lo si è visto per esempio quando gli Stati Uniti hanno firmato l’accordo del 2015 con l’Iran: ad Abu Dhabi e Riyad è cresciuto il nervosismo perché si sono sentite abbandonate. L’altro rischio del bandwagoning è quello di rimanere intrappolati se lo Stato più potente inizia uno scontro con un nemico. Per restare sull’esempio precedente, se scoppiasse una guerra tra Iran e Stati Uniti, Teheran probabilmente bombarderebbe Riyad e le basi americane nella regione, non il Kansas o lo Utah. L’altra opzione è il cosiddetto hedging: lo Stato piccolo persegue politiche estere multiple nel tentativo di massimizzare il numero di amici e minimizzare quello dei nemici. Fino al 2015 Arabia Saudita ed Emirati Arabi hanno optato per il bandwagoning, mentre dalla metà degli anni ’90 il Qatar ha scelto la strategia di hedging. La politica di Doha non è cambiata, cosa che è invece successa per Abu Dhabi e Riyad, che hanno iniziato a perseguire strategie di hedging e balancing. Lo si vede per esempio nei rapporti che intrattengono con Cina e Russia. Per me questo illustra meglio di tante altre spiegazioni la differenza di politica estera tra questi tre Stati del Golfo.

 

 

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