Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:38:06

L’Arabia Saudita gioca oggi un ruolo geopolitico strategico, in quanto primo produttore di petrolio al mondo; monarchia assoluta basata su una rigida interpretazione della sharī‘a, è spesso oggetto di critiche per le sue politiche interne ed estere. Essa però è anche la sede del più importante luogo sacro dell’Islam, la Pietra Nera alla Mecca, al centro di un rito dalle valenze spirituali per tutti i fedeli musulmani, quello del pellegrinaggio. Proprio su questo rito e sul valore che esso riveste è incentrato il documentario Hajj: il viaggio di una vita, girato dal regista veneziano Alberto Castellani. Partendo dal versetto coranico che invita al pellegrinaggio (Cor. 22, 27-28), il regista mostra come un viaggio un tempo impervio e irto di pericoli sia diventato oggi agevole e sicuro. Immutato è però lo spirito che lo caratterizza, giacché costituisce un appuntamento irrinunciabile per ogni musulmano, da compiersi almeno una volta nella vita. Il perché della centralità del rito si dispiega attraverso la ricostruzione dei momenti salienti della vita del profeta dell’Islam e le preziose spiegazioni di due islamologi: Ida Zilio-Grandi dell’Università Ca’ Foscari di Venezia e Marcello Di Tora della Pontificia Facoltà Teologica di Sicilia. Parallelamente alla descrizione dei rituali compiuti dai pellegrini, viene sottolineato il valore dei luoghi sacri che ne sono il teatro, primo tra tutti la Ka‘ba che, secondo la tradizione islamica, risale all’epoca di Adamo, quando Dio la fece discendere dal Paradiso in forma di tenda, per poi venire ricostruita in seguito al diluvio universale da Abramo. Essa rappresenta dunque per i musulmani il primo santuario monoteista della storia, restituito al suo culto originario da Muhammad, dopo che gli arabi, dimentichi del messaggio di Abramo, ne avevano fatto un tempio politeista. Come tale è il fulcro del pellegrinaggio, il luogo in cui sovrabbonda la potenza divina, attorno al quale i pellegrini girano per sette volte in senso antiorario, tentando di sfiorare la pietra nera. Quest’ultima, secondo la versione più accreditata, era una pietra bianca che Adamo portò con sé dopo essere stato scacciato dal giardino paradisiaco, divenuta poi nera perché dotata della capacità di assorbire i peccati dei pellegrini. Dopo i giri intorno alla Ka‘ba, viene descritta la marcia tra due vicine colline, Safâ e Marwa, che serve a ricordare il tormento di Agar mentre cercava acqua nel deserto dopo essere stata abbandonata da Abramo insieme al figlio Ismaele, fino a quando l’angelo Gabriele non fece apparire la fonte di Zamzam. Dalla Mecca si passa poi a Mina, ‘Arafât e Muzdalifa, ove si chiudono, con la festa del sacrificio, il complesso dei riti del hajj. Pur essendo divulgativo, il documentario non si limita a fornirne descrizioni basilari, ma tenta di illustrarne anche alcune interpretazioni raffinate, come nel caso della marcia tra le due colline di Safâ e Marwa, di cui vengono presentate, attraverso le parole di Ida Zilio-Grandi, alcune letture mistiche, come quella che vede nel movimento veloce tra le due colline una fuga da se stessi nella ricerca della contemplazione divina, o quella del famoso sufi andaluso Ibn ‘Arabî, di sapore in qualche modo “femminista”, secondo cui il fatto che Dio abbia inserito tra i riti da compiere un’azione femminile rileva che la donna ha accesso alla perfezione spirituale. In questo modo il documentario restituisce il senso e l’atmosfera di quella che, come evoca il titolo, è per i musulmani «l’esperienza di una vita».