L’autoproclamatosi Stato islamico ha pubblicato un dettagliato listino prezzi per le prigioniere ridotte in schiavitù e un regolamento su come trattarle anche supportato da alcuni riferimenti al Corano. Pratica condannata da molti Paesi arabi e da istituti come l’Osservatorio delle fatwe takfiriste del Consiglio dei Muftì (dâr al-ifta’) in Egitto.

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:11:09

Con un listino prezzi dettagliato il 16 ottobre scorso (21 Dhu al-hijja 1435) Daesh ha ufficializzato il mercato delle schiave (sûq al-nikhâsah): 50.000 dinari per una donna tra i 40 e i 50 anni, 75.000 per una tra i 30 e i 40 anni, 100.000 per una tra i 20 e i 30 anni, 150.000 per una ragazza tra i 10 e i 20. Il valore più alto? 200.000 dinari, attribuito alle bambine di età compresa tra 1 e 9 anni. Vietato invece l’acquisto di più di 3 donne, divieto dal quale tuttavia sono esclusi turchi, siriani e chi proviene dai Paesi del Golfo. Al listino è seguito pochi giorni dopo un secondo testo del Dipartimento di ricerca e delle fatwe dello Stato islamico, pubblicato dalla casa editrice di Daesh, la Maktabat al-Himma, e divulgato da numerosi siti jihadisti e da alcune testate arabe: s’intitola “Domande e risposte sulle prigioniere di guerra e sulle schiave” (Su’âl wa-jawâb fî al-sabî wa al-riqâb). Il pamphlet di cinque pagine regolamenta la condizione delle donne fatte prigioniere e schiave, e stabilisce ciò che è lecito e non nel rapporto con il loro padrone, in modo che chi compra una schiava sappia esattamente quali diritti può vantare su di essa. Tali diritti sono dedotti da alcuni versetti coranici e da alcune tradizioni, estrapolati dal loro contesto e citati per accreditare la pratica della schiavitù. Un metodo pericoloso, quello di Daesh, che testimonia la crisi ermeneutica in corso e la pericolosità di un atteggiamento sempre più diffuso negli ambienti fondamentalisti, che mira a giustificare qualunque azione, anche la più turpe, “a colpi di versetti”. Per uscirne, sembra ormai ineludibile anche nel mondo musulmano l’adozione di un approccio ermeneutico storico, ovvero l’interpretazione dei contenuti coranici alla luce del contesto in cui videro la luce. Altrimenti sarà sempre l’utilità politica del momento a farla da padrone. Per esemplificare il problema, basti citare alcuni passaggi del pamphlet a titolo di esempio: «la prigioniera di guerra è una donna degli ahl al-harb, la gente della guerra, e ciò che la rende lecita è la sua miscredenza (kufr)». Ma non tutte le miscredenti possono essere catturate e portate nella dâr al-islâm, la casa dell’Islam, si legge nel documento. Lo Stato islamico infatti conviene sull’idea che solo le donne del Libro – dunque le ebree e le cristiane – e le politeiste possano essere fatte schiave lecitamente, mentre una donna apostata (murtadda) non può essere ridotta in stato di schiavitù per quanto si trovi in una posizione ritenuta molto grave. Ad acquisto effettuato, il padrone è autorizzato ad avere rapporti sessuali con la sua schiava sulla base del versetto coranico che recita: «[prospereranno i credenti] che si mantengono casti, eccetto con le loro spose e con schiave che possiedono» (Cor. 23,5-6). A condizione però che l’uomo ne abbia la proprietà esclusiva. Ciò significa che se due o più persone compartecipano all’acquisto di una prigioniera, chi vuole unirsi alla donna deve prima acquistare la quota degli altri proprietari oppure questi possono donargliela. Il pamphlet spiega infatti che è possibile «vendere, acquistare e regalare le prigioniere essendo esse una mera proprietà (mahdh mâl)», cosa che significa che alla morte del proprietario le schiave, insieme a tutti gli altri beni, sono parte dell’eredità, regolata con cura dal documento. È consentito picchiare la propria schiava «a fini educativi, ma è proibito picchiarla causandole fratture per soddisfare un proprio desiderio o per torturarla, così com’è proibito colpirla sul viso». Alla donna ovviamente non è consentito ribellarsi, dato che uno dei crimini più gravi che può commettere uno schiavo è fuggire dal suo padrone. In questo caso – spiega il Dipartimento di ricerca e delle fatwe dello Stato islamico – «anche se la legge di Dio non prevede una pena, è bene infliggere alla donna una punizione esemplare per dissuadere le altre schiave dalla fuga». Quanto al matrimonio, il pamphlet dichiara l’inopportunità per un uomo libero di sposare una schiava, sia essa musulmana o una donna del Libro (kitâbiyya), perciò ebrea o cristiana, a meno che l’uomo non tema di commettere il peccato di fornicazione (zinâ). In questo caso il matrimonio sarebbe consentito sulla base del versetto coranico che recita: «E chi di voi non avesse i mezzi per sposare donne credenti libere, scelga moglie tra le schiave nubili e credenti» (Cor. 4,25). Facendo sempre riferimento al Corano, il Dipartimento di ricerca e delle fatwe contempla la possibilità di affrancare gli schiavi. Affrancare una schiava infatti è considerata un’azione meritoria sulla base di quanto si legge nella sura della Contrada: «E chi ti farà comprendere cos'è la via ascendente? È riscattare uno schiavo» (Cor. 90,12-13), e di un detto del Profeta che promette il Paradiso a chi libera uno schiavo: «A chi affranca una schiava credente Dio affranca le membra dal Fuoco» (detto tramandato da Muslim). Senza dimenticare, peraltro, che nella sharî‘a è prevista la possibilità di espiare un peccato liberando uno schiavo, come ricorda la parte finale del documento. La sharî‘a ha previsto questo tipo di espiazione (kaffâra) per tre reati: il falso giuramento (al-hinth fî al-yamîn), l’uccisione ingiusta (qatl khata’) e la minaccia di zihâr, una forma di divorzio in voga nel periodo preislamico che consisteva nel dire alla propria moglie “tu sei per me come il dorso di mia madre (zihâr)”, sancendo così il divorzio immediato dalla donna. Il documento in questione ha suscitato molte polemiche in quasi tutti i Paesi arabi, in particolare in Egitto. Partendo dall’assunto che «Iddio l’Altissimo ha nobilitato l’uomo, l’ha fatto Suo vicario sulla terra e l’ha creato libero perché serva unicamente Lui», l’ex-vice Ministro degli Affari religiosi egiziano, Sâlim ‘Abd al-Jalîl, ha precisato che la schiavitù (al-raqq) è un fenomeno di vecchia data, proprio dell’epoca preislamica della jâhiliyya, e che avrebbe dovuto essere superato già da molto tempo, precisamente da quando Dio ha inviato Muhammad e la sharî‘a per abolirla. Il ministro prende le distanze da questa pratica, ricordando anche un detto del Profeta, monito per gli uomini che ricorrono a essa: «Nel giorno della resurrezione (yawm al-qiyâma) io contesterò tre [tipologie] di uomo: l’uomo che è venuto a me e poi mi ha rinnegato, l’uomo che ha venduto una persona libera e si è arricchito illegalmente col denaro ricavato da tale vendita, l’uomo che ha assunto al proprio servizio un servo, ha beneficiato dei suoi servizi e non gli ha corrisposto la paga». Una condanna decisa è stata espressa anche dall’Osservatorio delle fatwe takfiriste, istituito di recente dal mufti egiziano per monitorare le fatwe che contengono accuse di miscredenza (takfîr, per l’appunto), nell’ambito del programma volto a combattere il terrorismo. In un dossier diffuso il 7 dicembre l’osservatorio elencava i crimini commessi da Daesh, tra cui quelli che ledono i diritti della donna avanzando come pretesto i precetti dell’Islam e rileva le conseguenze dell’azione di Daesh a livello internazionale. Nello specifico il rapporto afferma che: 1) i terroristi disprezzano la donna e la sfruttano nei peggiori modi per conseguire i propri fini abbietti che non hanno nulla a che vedere con l’Islam, 2) l’offerta di donne costituisce una parte importante delle organizzazioni terroristiche perché consentono di attrarre persone e favorisce nuove affiliazioni, 3) i separatisti da al-Qaida [Daesh] hanno creato una fondazione, la Fondazione al-Zawrâ’, riservata alle donne per prepararle alla guerra, insegnare loro a portare le armi e guadagnare altre ragazze all’organizzazione, 4) l’affiliazione di ragazze occidentali alle organizzazioni terroristiche ha prodotto in Europa l’aumento dell’islamofobia e l’ascesa dei partiti di destra, 5) i leader di Daesh sfruttano le donne staccatesi da al-Qaida per conseguire i loro obiettivi, 6) le violazioni dei diritti della donna da parte dell’organizzazione terroristica non hanno nulla a che vedere con alcuna religione. È puro sfruttamento della donna nel nome dell’Islam. L’osservatorio inoltre mette in luce l’entità dei cambiamenti che stanno avvenendo all’interno delle organizzazioni terroristiche rispetto al ruolo delle donne. Consentendo loro di svolgere mansioni esecutive, diversamente da al-Qaeda, Daesh riesce ad attrarre un numero consistente di donne che all’interno di questa organizzazione trovano una forma di “emancipazione” negativa. A suo avviso si è innescata una spirale di violenza al femminile su due piani: le partigiane (munâsirât) che combattono contro altre donne e le militanti dei social network che combattono la loro guerra sul web. A ogni modo, e nonostante l’importanza, teorica e pratica, delle considerazioni dell’Osservatorio, il nodo ermeneutico sollevato da Daesh sembra rimanere irrisolto.