Il documento sulla Fratellanza Umana e i suoi frutti, la figura di Abramo, la Chiesa nella penisola araba: una conversazione con Mons. Paolo Martinelli, Vicario apostolico dell’Arabia Meridionale, nel decimo anniversario dell’elezione dell’Arcivescovo di Buenos Aires al soglio pontificio

Ultimo aggiornamento: 14/03/2024 14:47:08

Dieci anni di pontificato di Papa Francesco sono l’occasione per gettare un primo sguardo sul cammino percorso. Lo abbiamo fatto con Mons. Paolo Martinelli, Vicario apostolico dell’Arabia Meridionale, soffermandoci con lui sulla relazione con l’Islam e con i musulmani, un ambito a cui Francesco ha dedicato molte energie, sia in termini di documenti che di incontri e viaggi apostolici.

 

A cura di Martino Diez

 

Eccellenza, quali sono secondo Lei i principi ispiratori del rapporto del Papa con i musulmani? Quali gli aspetti positivi e quali i rischi di questo cammino, anche alla luce del documento sulla Fratellanza Umana sottoscritto proprio nella Sua attuale diocesi il 4 febbraio 2019?

 

Il principio ispiratore sul piano storico è per me l’incontro tra San Francesco e il Sultano al-Malik al-Kāmil a Damietta, in Egitto. Di fatto, la firma del documento sulla Fratellanza Umana è avvenuta anche in memoria di quell’incontro, di quell’antecedente francescano. Dal punto di vista più magisteriale, penso che l’enciclica Fratelli tutti chiarisca la prospettiva di Papa Francesco. È vero che il testo è stato scritto dopo Abu Dhabi, ma in realtà leggendolo si capisce che il Papa vi fa emergere alcuni dei criteri che hanno ispirato la firma del documento sulla Fratellanza.

 

Per Papa Francesco la fratellanza umana ha un chiaro fondamento cristologico: nella Fratelli tutti si dice che la fonte della fraternità universale è la paternità di Dio manifestata in Cristo e resa possibile dal dono dello Spirito Santo. E tuttavia questa fraternità può essere condivisa anche dalle altre esperienze religiose, e in particolare dall’Islam.

 

Credo che il documento abbia innanzitutto un grande valore come evento: per la prima volta il capo della Chiesa cattolica e una personalità autorevole come il Grande Imam di al-Azhar firmano insieme un documento di questa portata, che va a toccare temi molto delicati del rapporto tra religione e società. Poi mi sembra molto lodevole l’affermazione, contenuta nel testo, che le religioni siano chiamate oggi a collaborare per promuovere il bene comune, che viene dettagliato nei temi della pace, della giustizia, della custodia del creato, soprattutto nella necessità di combattere le guerre e la violenza. Ci sono affermazioni inequivocabili sul fatto che la religione non possa essere usata come strumento per esercitare violenza sugli altri, al punto che, quando questo avviene, l’esperienza religiosa viene piegata a interessi di altra natura. Infine, questo testo mostra l’essenzialità dell’esperienza religiosa. Rispetto alla vicenda europea, in cui il conflitto tra cristiani è stato all’origine della separazione tra religione e società, qui c’è un chiaro invito a intraprendere un altro tipo di percorso, nella convinzione che le religioni possono anche mettersi insieme per promuovere il bene comune. L’uomo è fatto per essere in rapporto con Dio e questo è anche il fondamento di una vita buona con tutti.

 

D’altra parte, nell’interpretazione di questo e altri documenti il rischio potrebbe essere quello di assestarsi solo sulle conseguenze, su alcune cose positive che le religioni possono fare insieme, dimenticandosi di mettere a tema l’esperienza religiosa in quanto tale. Se non si richiama la concretezza delle esperienze religiose, si rischia l’astrazione. Non basta perciò guardare alle conseguenze affermate, occorre richiamare sempre anche il valore in sé dell’esperienza religiosa.

 

Così facendo, non si perde però la dimensione di critica delle religioni da parte della fede? Si tratta certo di un aspetto tipico di una parte del pensiero protestante, ma che, anche senza arrivare a una separazione radicale, sembra avere qualche elemento dalla sua. Ad esempio, i lavori di René Girard mostrano che purtroppo non è così pacifico affermare che la violenza sia estranea alla dimensione sacrale.

 

Qui bisognerebbe fare, credo, una serie di distinzioni. La prima è quella tra sacro e religione. Il potenziale esplosivo è soprattutto in relazione all’esperienza del sacro. Le religioni tendono a regolamentare il rapporto con il sacro, a evitare il cosiddetto sacro selvaggio; la religione ha quindi già una capacità critica nei confronti dell’esperienza del sacro. Ovviamente, a propria volta la fede può esercitare un’ulteriore critica rispetto al rapporto tra sacro e religione. Tuttavia, personalmente non riuscirei a sposare una posizione come quella di Barth, di opposizione tra fede e religione. Se la si priva del suo rapporto con l’esperienza religiosa, la fede alla fine non mantiene il rapporto con la realtà, rischia di diventare a sua volta un principio astratto, che interviene dall’esterno. Personalmente ritengo perciò che la stessa esperienza della fede non possa essere recisa dalla concreta esperienza religiosa che gli uomini fanno.

 

Sulla scia della visita di Papa Francesco negli Emirati è stata costruita e recentemente inaugurata la Casa della famiglia abramitica. Come valuta questo progetto di costruire una moschea, una sinagoga e una chiesa una accanto all’altra? Il luogo di culto cristiano funziona proprio come una chiesa in più per la Sua diocesi o ha uno statuto un po’ diverso?

 

L’edificio è stato costruito dagli Emirati, bisogna dare atto del loro grande impegno, ed è stato donato a Papa Francesco. Nella tradizione islamica, le moschee sono dedicate anche a persone viventi

 

che magari sostengono le spese di costruzione…

 

Esatto. Per questo, si è parlato di “chiesa di Papa Francesco”. Per noi invece dedicare una chiesa a un uomo in vita non è possibile. Pertanto, la chiesa è un dono fatto a Papa Francesco, ma è dedicata a San Francesco d’Assisi, come c’è scritto nell’intitolazione araba. Non a caso, vi sono simboli francescani all’interno, per dire proprio alla porta d’ingresso c’è il tau francescano.

 

E lo statuto dell’edificio?

 

In sostanza l’idea è che il Papa, destinatario del dono, lo dia da gestire alla chiesa locale, al Vicariato. Non è quindi una parrocchia, ma è una chiesa che si riferisce alla nostra parrocchia, che tra l’altro dista appena un quarto d’ora. È chiaro che ha uno statuto suo proprio perché è situata all’interno del complesso dei tre luoghi di culto della Famiglia Abramitica. Comunque noi al momento abbiamo iniziato a celebrare la Messa. L’imam è arrivato, il rabbino anche, e noi abbiamo individuato un sacerdote che celebra la Messa alla domenica, sta lì, incontra la gente che viene in visita, perché questo diventerà un luogo a cui affluiranno molti turisti, di tutte le fedi. Quando abbiamo celebrato la prima Messa, la chiesa era strapiena e tutto questo è avvenuto dando pochissimi avvisi, una notizia sul sito del nostro Vicariato e poco più. C’erano diversi europei, probabilmente perché il complesso sorge in una zona di un certo prestigio. Così almeno mi hanno riferito come impressione, perché io in realtà quel giorno ero in Oman in visita pastorale.

 

E Lei come vede l’idea di mettere i tre luoghi di culto uno di fianco all’altro? Tra l’altro da fuori sono identici. È praticamente la traduzione architettonica della novella dei tre anelli di Boccaccio, no?

 

È vero che l’apparenza esteriore della forma del cubo è identica, però in realtà gli edifici hanno architetture diverse già dall’esterno. Per noi, ad esempio, c’è il campanile e per la prima volta è stato possibile mettervi in cima una croce illuminata. Di notte la si vede anche da lontano, come si vede la Mezzaluna vicino alla moschea e la Menorah vicino alla sinagoga. Non era mai successo prima qui, per quel che ci riguarda. Poi a maggior ragione anche all’interno ogni edificio ha la propria architettura specifica, in relazione alle necessità liturgiche e di preghiera.

 

Il complesso è dedicato alla figura di Abramo. Da un lato questo si capisce perché Abramo è l’amico di Dio per cristiani, musulmani ed ebrei, è chiamato con questo bellissimo titolo nell’Antico e nel Nuovo Testamento e nel Corano. D’altra parte però, Abramo è anche una figura che è compresa in modo molto diverso dalle tre religioni. Louis Massignon, ad esempio, che è forse il pensatore che ha più diffuso la categoria di religioni abramitiche, in una sua celebre meditazione presentava l’Islam come “quasi uno scisma abramitico”. Questa nozione quindi può avere un senso teologico forte? Oppure è imposta dall’esterno? Il grande imam di al-Azhar, ad esempio, ha messo più volte in guardia dalla tentazione di creare una super-religione abramitica che sostituisca le fedi storiche.

 

Mi sembra che la categoria abbia per noi cristiani un fondamento teologico, anzi meglio spirituale. È un dato di fatto che noi registriamo: parlando di Abramo, ci accorgiamo che tutte e tre le religioni si concepiscono in relazione con la sua persona. È chiaro però che lo intendono in modo differente. Il fatto che lo stesso riferimento sia interpretato in modo diverso mostra che l’obbiettivo non è qui il superamento delle differenze. Tutte e tre le religioni sentono Abramo come una figura propria. D’altra parte, però, non è una figura che possa assimilare le tre religioni perché ognuna di esse la interpreta in modo differente, all’interno della propria tradizione. Questo da una parte garantisce l’esistenza di una relazione originaria, ma dall’altra impedisce assolutamente l’idea di una super-religione che oltrepassi il carattere storico delle religioni concrete.

 

Ha detto che Abramo è una categoria spirituale. Perché? Intende che l’aspetto in comune è soprattutto quello dell’uomo di fede che si fida di Dio e accetta la prova?

 

Sì, mi riferisco al vissuto concreto all’interno delle religioni. Facciamo un esempio. Un cristiano che viva la sua fede sa necessariamente chi è Abramo, fa parte della sua esperienza spirituale. Allo stesso modo, un ebreo non può non conoscere Abramo e lo stesso vale per un musulmano. In altre parole, nel vissuto spirituale, credente, delle tre religioni, è impossibile avvertire questa figura come estranea. In questo senso dico che è un dato di fatto che tutte e tre le religioni si sentano in rapporto profondo con la figura di Abramo. Questo non significa fare di Abramo una figura teologica in grado di rileggere le tre religioni. Non per caso in Nostra Aetate non si trova l’espressione astratta “religioni abramitiche”, ma un riferimento concreto ad «Abramo, a cui la fede islamica volentieri si riferisce».

 

Un altro elemento del pontificato di Francesco è l’attenzione alle periferie. Gli Emirati da questo punto di vista sono in una situazione paradossale. Non sono certo una periferia, anzi sono un grande hub della globalizzazione. Se però guardiamo alla provenienza dei cristiani che vi abitano, molti di loro vengono da terre tutto sommato periferiche (Sri Lanka, ad esempio, alcune regioni dell’India…). E in fondo lo stesso vale anche per i numerosi immigrati musulmani, ad esempio dal Pakistan. Come stanno insieme periferia e centralità nella Sua esperienza di Chiesa?

 

La maggioranza dei nostri fedeli fa decisamente parte delle periferie. Sono immigrati che svolgono lavori piuttosto pesanti e umili. Partecipano alla liturgia anche persone più titolate, in genere (ma non solo) occidentali, ma chi viene a condividere una competenza in qualche ambito specifico come la sanità o l’architettura resta in genere pochi anni, mentre le persone più semplici sono quelle che stanno qui più a lungo, perché il loro lavoro mantiene le famiglie nel Paese d’origine. Di questa presenza avevo sentito parlare anche in Italia, ma quando la si vede in atto stupisce sempre. Per fare solo un esempio, qui abbiamo la chiesa piena tutte le mattine per la Messa delle 6:30, sono lavoratori e studenti. Li sto conoscendo un po’ alla volta e in questo mi è di grande aiuto la presenza e l’amicizia del mio predecessore, Mons. Paul Hinder, che continua a risiedere negli Emirati. Lavoriamo molto bene insieme.

 

Tornando al tema della domanda, con una frase forse un po’ scontata ma vera, direi che il centro lo si capisce meglio dalle periferie. Noi qui come Chiesa abbiamo una forte radice popolare. Oltre ai Paesi che ha nominato ci sono tantissimi filippini, che formano la maggior parte dei nostri fedeli. Ovviamente alti e bassi si registrano anche qui, ci sono quelli che vengono solo a Natale o a Pasqua, però la nostra è una realtà molto viva. Ho davanti agli occhi l’imponenza di centinaia di migliaia di persone che frequentano le nostre chiese con grande semplicità e forse questi sono anche gli occhi migliori per guardare al resto del Paese.

 

Perché poi naturalmente c’è anche molta disuguaglianza sociale, le Mercedes d’oro, i grattacieli futuristici, il lusso più stravagante…

 

Questo è soprattutto il caso di Dubai, che è una città iper-moderna, anche nella sua proposta di vita. Abu Dhabi ha un tratto più tradizionale, è molto più sobria. È vero che anche qui ci sono dei grattacieli, ma niente in paragone a Dubai. Non c’è la stessa frenesia. E poi c’è Sharjah, caratterizzata da un’attenzione culturale molto forte, penso alla fiera annuale del libro che si svolge in novembre. Recentemente, Mons. Hinder e io siamo stati ricevuti dall’Emiro, una persona molto colta e che crede nel valore culturale dell’esperienza religiosa. Abbiamo parlato più di un’ora e lui ci ha raccontato come vede la vita.

 

Insomma, la Sua città preferita non è Dubai…

 

Amo lo stile di Abu Dhabi, ma Dubai è certamente una città impressionante e la nostra chiesa a Dubai è molto frequentata. Un’esperienza che mi ha davvero colpito è stata quella del Simbang Gabi, una novena in preparazione al Natale tipica dei filippini. C’erano tutti i giorni 20.000 persone, forse anche di più. Oltre all’area della chiesa, si è riempito anche il campo da calcio, era la prima volta dopo la pandemia. Naturalmente non è che poi tutti i 20.000 filippini frequentino con regolarità lungo il resto dell’anno liturgico, però è impressionante che sentano il bisogno di vivere la loro novena nel centro di Dubai. Negli Emirati colpisce l’idea di coniugare l’elemento tradizionale e quello iper-moderno. È significativo che la religione possa giocare un ruolo così forte in società molto modernizzate, soprattutto se si fa il paragone con l’Occidente, in cui queste due dimensioni sono spesso in contrasto. Vedere un Paese in cui l’elemento religioso è assolutamente dominante ma l’esperienza della modernità viaggia a velocità molto alte potrebbe spingere noi occidentali a ripensare alcune idee che ci siamo fatti sul rapporto tra religione e società, tra religione e modernità.

 

Del Suo Vicariato fa parte anche un Paese più tradizionale come l’Oman.

 

Ero lì proprio nei giorni in cui è stato annunciato che la Santa Sede e l’Oman hanno stabilito pieni rapporti diplomatici. Ho incontrato il Ministro degli Affari religiosi e lui stesso mi ha evocato la firma del documento come un passo estremamente positivo. Confidiamo che possa aiutare l’esperienza della Chiesa locale a proporzionarsi adeguatamente rispetto ai bisogni che abbiamo. In Oman ci sono solo quattro parrocchie al momento. Non c’è tanto il problema del rapporto con la Chiesa cattolica, piuttosto con alcune comunità evangeliche che a volte si muovono in un modo un po’ disordinato, il che produce una certa rigidità. Però la nostra speranza è che con l’apertura dei rapporti diplomatici pieni si possa arrivare a rispondere meglio ai bisogni dei cattolici presenti nell’Oman, in modo che anche noi possiamo dare il nostro contributo alla crescita del Paese.

 

Una parola per concludere sullo Yemen e la sua interminabile tragedia.

 

Questo è il grande punto doloroso. In questo momento a noi è sostanzialmente impedito di andarci. A Sanaa e Hodeida ci sono però due comunità di Missionarie della Carità, le suore di Madre Teresa di Calcutta, accompagnate da un sacerdote che celebra la Messa per loro. Fanno un lavoro bellissimo, accudiscono più di un centinaio di malati mentali e fisici. C’è una grande stima per loro. Certo, è molto difficile muoversi. È stato appena nominato il Nunzio apostolico, che non è solo per gli Emirati ma anche per lo Yemen, e speriamo che abbia la possibilità di sviluppare ulteriormente i rapporti.

 

I cristiani rimasti sono certamente pochi, però abbiamo alcuni nativi e questa è la differenza rispetto agli Emirati, dove la Chiesa è sostanzialmente fatta di migranti. Anche se il numero esatto non lo sappiamo, si tratta di qualche centinaio di persone, perché la maggior parte è scappata con lo scoppio della guerra civile nel 2015. Riescono a trovarsi, a pregare insieme. La situazione politica è ancora molto complessa, nel senso che oltre alla divisione tra governo internazionalmente riconosciuto e zone controllate dagli Houthi, ci sono molte altre tensioni locali. In questo momento la situazione è abbastanza tranquilla, ma occorre riconciliare le fazioni interne, altrimenti gli eventuali accordi internazionali resteranno lettera morta.

 

Dal punto di vista umanitario sono presenti delle ONG e agisce anche la Caritas. Restano però ancora molte criticità, per esempio molte zone sono state minate. Per il futuro, il tema dell’educazione sarà decisivo, perché dopo sette-otto anni di guerra devastante occorre ridare fiducia e speranza al popolo yemenita. Credo che su questo anche la Chiesa dovrà giocare un ruolo, o almeno lo spero.

 

Certo è impressionante pensare quanto antica sia la presenza cristiana in Yemen. Anche nel nostro calendario romano si venerano i Santi Areta e Ruma (tra l’altro due sposi) e i loro 340 compagni, martiri di Najran nel VI secolo. Quelli furono i cristiani “più strutturati” che Muhammad abbia probabilmente incontrato, secondo la Sira li avrebbe addirittura ammessi a pregare nella moschea di Medina, un fatto impensabile oggi. Però è come se tutto questo fosse scomparso.

 

Sì, c’è una tradizione che risale molto indietro nel tempo. E anche più recentemente, la prima sede del Vicariato dell’Arabia non fu ad Abu Dhabi ma ad Aden, dove tra l’altro c’è ancora la chiesa, anche se al momento è tutto chiuso. Soprattutto, però, non ci sono solo i martiri del VI secolo. La terra yemenita è stata insanguinata anche recentemente da figure che sono da considerare un po’ come dei martiri, senza per questo voler anticipare il giudizio che la Chiesa si farà al loro riguardo. Sono le suore di Madre Teresa uccise nel 2016 all’interno di un regolamento di conti tra varie fazioni. Tra l’altro insieme a loro sono stati assassinati anche dai musulmani che lavoravano con loro. Questo fa pensare che il Signore può portare avanti il bene anche in questa terra, segnata dal martirio nell’antichità ma anche in tempi recenti. È per segni come questi che penso che il Signore non farà mancare la Sua grazia anche in Yemen.

 

 

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