Il ritardo italiano può rappresentare un’opportunità per capire gli errori da evitare

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:06:57

Nel 2001 a Milano fondammo i Giovani musulmani d’Italia. Allora parlavamo di “musulmani europei”, ma oggi forse è il caso di riflettere su quella definizione. In alcuni casi era una scelta d’identità che assicurava l’appartenenza religiosa, guardando a un percorso per diventare pienamente europei, in altri casi era anche un’etichetta, in cui in qualche modo era temporaneamente rinchiusa una realtà di musulmani che non potevano riconoscersi in una piena cittadinanza. Oggi, la mia esperienza personale dice che dovremmo iniziare a pararle di italiani ed europei di religione musulmana. Si tratta di una sfida molto più alta e profonda: il tentativo di condivisione di una civiltà europea occidentale, mediterranea, e di uno sforzo teologico che riguarda poi l’impegno individuale. Per questo ringrazio davvero per l’opportunità ed è un onore essere qui con il Cardinale Scola e l’Imam Oubrou, tassello importante della mia formazione personale da diversi anni, ancora prima di essere una figura nota anche in Italia. Qual è il modello italiano? È proprio il caso di dire, per come sono andate le cose, che non tutto il male vien per nuocere. Il ritardo italiano può rappresentare anche un’opportunità per capire, in particolare rispetto al tema dell’inclusione dei cittadini musulmani, quali errori avvenuti in altri contesti occorre evitare. Il primo errore di alcuni Paesi europei – sarò molto schietto a costo di apparire superficiale – è l’idea che il dialogo con i musulmani passi solo attraverso le comunità. Occorre invece aprire e immaginare la realtà della società laica e della dimensione di cittadinanza presentandola come un ombrello grande che può accogliere nella libertà la possibilità di un confronto e di un dialogo che sia anzitutto intra-musulmano. Questo è il primo aspetto da tenere a mente: concepire nel nostro modello di rappresentanza pubblica la possibilità per i cittadini di religione musulmana di organizzarsi e interloquire tra di loro e con la società in un quadro di uguaglianza per tutti i cittadini. Occorre quindi non giudicare chi è più o meno musulmano a seconda del livello di appartenenza a una o l’altra organizzazione musulmana, ma riconoscere la specificità religiosa a prescindere dalla dinamica organizzativa. Spesse volte, invece, nelle nostre discussioni abbiamo immaginato come unica possibilità di dialogo con l’Islam europeo o italiano il dialogo esclusivo con le dinamiche comunitarie. Questo in alcuni casi è una grande opportunità, perché permette il confronto teologico, il dialogo interreligioso e il diritto di culto; in altri casi, però, può rappresentare anche un limite alla possibilità di rappresentanza di cittadini che possono porsi anche alla luce di interpretazioni diverse, che non sempre passano attraverso organizzazioni, che non possono essere le uniche riconosciute. È la stessa cosa che diceva l’Imam Oubrou quando parlava della confusione che spesso si verifica tra la dimensione teologica e la struttura politica costruita. C’è un prerequisito: garantire i diritti di culto minimi, e questo è un problema serio che abbiamo. Non parlo dell’intesa con i musulmani d’Italia, che è un’utopia e dipende dalla capacità della presenza islamica italiana di riuscire a rappresentarsi meglio nei confronti delle istituzioni, ma almeno della legge sulla libertà religiosa. Su questo prerequisito scontiamo un ritardo fondamentale. Però, immediatamente dopo, guai a immaginare il dialogo con i musulmani solo dalla piccola finestra delle organizzazioni religiose. Il secondo elemento al quale dovremmo prestare attenzione, nel confronto con quanto avvenuto in altri Paesi, è l’importanza di concepire lo spazio in cui si sviluppa la concezione di cittadinanza non solo come spazio nazionale, non direi nemmeno europeo, ma in una dinamica che è sempre più regionale, specialmente per quel che riguarda i più giovani:a connessione psicologica, etnica e culturale tra le nuove generazioni europee musulmane e quello che è avvenuto nel quadro regionale che conosciamo, le cosiddette primavere arabe, il quadro mediorientale, il conflitto israelo-palestinese e ovviamente la guerra in Siria. Da qui si origina il fenomeno dei foreign fighters, che non può essere legato solo a una questione di reazione a un disagio psicologico: è anche una ricerca di una chance ulteriore di riconnessione con una ideale di comunità di appartenenza che né l’Europa né le leadership islamiche europee hanno saputo offrire nelle modalità giuste e che perciò ha trovato una risposta in un modello di violenza inaudita, legittimata da una particolare interpretazione religiosa, che ovviamente nessuno dei presenti gli riconosce. Questa dimensione transnazionale e transregionale è una dimensione che va presa in considerazione e in questo noi dobbiamo guardare oltre i confini europei anche per ritrovare alleanze importanti nell’affrontare il dibattito interno al mondo musulmano, che arriva poco sulle nostre televisioni, ma potrebbe esserci di aiuto. Cito la Carta di Marrakech come documento che, all’interno di una società musulmana come quella marocchina, grazie al lavoro di centinaia di imam e autorità religiose, ha rilanciato la necessità di concepire l’idea di cittadinanza nella pluralità delle religioni. L’iniziativa non è partita dall’Europa, ma dal Marocco, Paese che può presentare qualche esperienza positiva riguardo la cittadinanza plurale. Possiamo raccontare tante altre esperienze, come la nascita della nuova Costituzione tunisina ad esempio: il confronto che l’ha creata e come appunto si è mischiato la dimensione religiosa con l’ambizione di porre un elemento di valore comune a partire da una cittadinanza in nome della Tunisia. Abbiamo bisogno di riconoscere i diritti minimi ai cittadini di religione diversa a partire da quella musulmana: è un’urgenza che non può più essere trascurata almeno a partire dal concetto di libertà religiosa, per poi ragionare eventualmente sull’intesa. Abbiamo bisogno di lavorare di più sulle buone pratiche, su una contro-narrativa efficace che provi a offrire un modello possibile che magari abbiamo ma non vediamo. Le responsabilità sono sicuramente di una classe dirigente europea, che a oggi non ha ancora aperto un dibattito vero sul dramma che mi perseguita dei miei coetanei europei diventati i nostri nemici più acerrimi. Questa è una domanda a cui non abbiamo ancora dato risposte profonde, né a livello europeo, né nel contesto intra musulmano. Ringrazio l’Imam Oubrou per il coraggio avuto nel cercare di spingere la presenza islamica europea ad agire a tutela di se stessa, per il rischio di perdere i nostri giovani. Dobbiamo farlo con le leggi come la libertà religiosa, ma anche con un dialogo più strutturato nel bacino mediterraneo, accogliendo le luci che continuano a emergere anche da Paesi che eravamo abituati a non guardare. Lo dobbiamo fare anche valorizzando esperienze positive di cui hanno bisogno le nostre società europee, che rischiano di rimanere ostaggio delle paure continuamente alimentate dai populismi. La speranza per le nuove generazioni europee di origine musulmana è poter vedere la possibilità di costruire una convivenza che rispetti le loro specificità e le garantisca in un quadro di uguaglianza tra tutti i cittadini. L'intervento è stato pronunciato durante la conferenza Islam in Europa: la sfida della cittadinanza, nell'ambito del progetto "Non un'epoca di cambiamento, ma un cambiamento d'epoca".