Cristiani e musulmani devono imparare a “guardarsi negli occhi” in modo nuovo

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:09:59

Il dialogo islamo-cristiano nella sua formalizzazione recente istituita dalla Dichiarazione Nostra Aetate del Concilio Vaticano II ha ormai alle sue spalle una breve, ma significativa storia. È chiaro che relazioni tra cristiani e musulmani esistono fin dagli albori dell’Islam, ed esiste tutta una lunga storia di vissuto comune sia in Medio Oriente, sia in Africa e in Asia, sia in Europa, nella maggior parte dei casi all’interno di società a maggioranza musulmana, in alcuni casi – come in India o in Thailandia – all’interno di società a maggioranza hindu o buddista in cui sia cristiani sia musulmani rappresentano delle minoranze; talora, come nell’Africa sub-sahariana in società caratterizzate religiosamente dai culti tradizionali, rispetto ai quali sia la chiesa sia i gruppi musulmani si pongono in prospettiva missionaria e talora in competizione reciproca. Non ci dobbiamo nascondere che questo lungo vissuto storico comune non è sempre stato facile: è un dato di fatto che i cristiani nelle società caratterizzate dal predominio politico musulmano o a maggioranza musulmana hanno conosciuto situazioni di permanente marginalità giuridica, facilmente sottoposti a vessazioni di carattere economico e fiscale per un verso, per l’altro verso costretti a un ripiegamento comunitario che impediva o condizionava fortemente l’espressione pubblica della loro fede religiosa e li muoveva a dinamiche di compattazione identitaria di tipo comunitario. La relazione tra musulmani e cristiani nell’ordine politico musulmano tradizionale è infatti asimmetrica, come è espresso dalla tradizionale espressione di “protezione” che esplicita il ruolo che lo stato musulmano esercita nei confronti dei sudditi cristiani. La strumentalizzazione della differenza religiosa Soprattutto nell’Impero ottomano, dove pure i cristiani hanno conosciuto una fioritura demografica, culturale ed economica, non è mancata la strumentalizzazione della differenza religiosa per motivare tensioni conflittuali attuate nell’ambito di strategie politiche decise dal governo. Si pensi alle scorrerie e i massacri attuati dalle tribù curde sunnite nei confronti dei cristiani del sud-est della Turchia ai confini con la Siria e l’Iraq nella seconda metà del secolo XIX e nel 1915-16. Non è dunque una novità la strumentalizzazione politica della differenza religiosa ai fini conflittuali. L’affinità religiosa con le società europee ha del resto spinto gli stati europei tra il XVIII e il XIX secolo a stabilire rapporti diplomatici con l’impero ottomano in cui erano inclusi privilegi commerciali e giuridici, che comprendevano il riconoscimento di un diritto di protezione e tutela nei confronti dei cristiani orientali. D’altra parte la Reconquista spagnola, che nel tardo medioevo ha ricacciato manu militari i musulmani nel Nord Africa dopo secoli di permanenza in Spagna, costringendoli all’esilio per ricomporre uno Stato omogeneamente cristiano, mostra l’incapacità da parte cristiana di vivere la relazione con una componente musulmana interna alla medesima società. Questi pochi esempi – perché lo scopo di questa conferenza non è di ripercorrere la complessa storia delle relazioni tra cristiani e musulmani – sono solo finalizzati a mostrare come le relazioni di vissuto comune sono storicamente molteplici, ma per lo più segnate da asimmetria giuridica da cui scaturiscono tensioni ricorrenti, spesso con echi conflittuali più ampi quando vengono intercettate dalla politica internazionale di allora. Cristiani orientali e potenze europee La dimensione socio-giuridica e politica è senz’altro un fattore che ha grandemente influenzato in senso negativo le relazioni tra cristiani e musulmani. Salvo eccezioni – ad esempio in Giordania o nell’area montuosa siro-libanese e curda, in cui i rapporti tribali erano decisi in base ad alleanze locali calibrate sulla forza concreta a disposizione – generalmente i cristiani hanno letto la loro condizione come “condizionata negativamente” dal potere politico islamico, e questo ha fatto scaturire letture “difensive” nei confronti dell’Islam. D’altra parte l’esperienza della Reconquista e l’incapacità di proporre un regime di “tolleranza” nei riguardi della popolazione musulmana, così come i legami dei cristiani orientali con le potenze europee hanno portato spesso i musulmani a leggere in modo negativo e con sospetto i cristiani stessi. Non dobbiamo nasconderci anche il peso delle letture teologiche reciproche, che per un verso giustificavano le prassi giuridico-sociali, per l’altro verso ne venivano anche alimentate. Sul piano teologico vi è un’asimmetria di fondo: le fonti sacre dell’Islam – Corano e Sunna – parlano del cristianesimo di cui offrono una lettura teologica precisa; parlano anche dei rapporti con i cristiani in modo più variegato, alternando giudizi positivi sul piano etico con richiami a relazioni tolleranti, a giudizi più negativi cui conseguono prassi giuridiche di riduzione alla subalternità. Il giudizio teologico dell’islam sui dogmi fondamentali della fede cristiana è radicalmente negativo: la figliolanza divina di Gesù e la rivelazione trinitaria di Dio vengono letti come errori radicali in quanto cedimenti al politeismo (associazionismo) rispetto al monoteismo. Il giudizio teologico generale sulla religione cristiana è più flessibile perché coniuga il riconoscimento dell’istanza monoteista del cristianesimo e della sua identità di religione rivelata, con il principio della falsificazione delle Scritture cristiane, che sarebbe la causa delle derive dogmatiche negative avvenute in seno al cristianesimo. Da parte cristiana i giudizi sull’Islam non sono fondati direttamente nelle fonti scritturistiche, data la posteriorità cronologica dell’Islam rispetto al Cristianesimo, ma sono stati teologicamente elaborati nell’ambito dei rapporti nati con quella che veniva percepita come novità religiosa. Una novità tuttavia non troppo “nuova”, perché di fatto l’islam – da San Giovanni Damasceno a tutto il medioevo e all’epoca moderna – viene letto come “eresia” del cristianesimo, quindi non religione autonoma, ma derivato ereticale della rivelazione ebraico-cristiana, e come “tale” ricondotto all’interno della categoria dell’errore religioso. Questi cenni mostrano una storia complessa, ma riconducibile ad alcune costanti interpretative messe in atto da musulmani e cristiani nel “leggere” la reciproca alterità – che di fatto si coagulano attorno alla categoria di “errore religioso” – che sia falsificazione da un lato o eresia dall’altro – e alla categoria di “marginalizzazione o subalternità” per quel che riguarda il sistema giuridico-sociale di convivenza. Se a questo si aggiunge l’antagonismo politico concreto, si comprende bene perché la dichiarazione Nostra Aetate del Concilio Vaticano II, proponendo il dialogo come modalità con cui sviluppare i rapporti tra la Chiesa cattolica e le religioni non cristiane, inviti al dialogo tra cristiani e musulmani con questa prospettiva:
Se, nel corso dei secoli, non pochi dissensi e inimicizie sono sorte tra cristiani e musulmani, il sacro Concilio esorta tutti a dimenticare il passato e a esercitare sinceramente la mutua comprensione, nonché a difendere e promuovere insieme per tutti gli uomini la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà.
Superare il pregiudizio verso l'altro L’invito a dimenticare il passato non deve certo essere inteso come un oblio che annebbia la memoria e la mente, il che sarebbe impossibile e non produttivo. Ma deve essere letto come un invito a superare il “pregiudizio” verso l’altro frutto di un passato complesso e spesso conflittuale, per maturare nella reciproca “comprensione”. Il dialogo è dunque finalizzato a “conoscersi” in modo nuovo, quasi attuando una epoché fenomenologica che possa permettere a cristiani e musulmani di “guardarsi negli occhi” in modo nuovo, scevro dalla caligine del passato, per riprendere le relazioni, l’interesse reciproco, il desiderio di scoprire e conoscere la realtà religiosa, morale, spirituale dell’ “altro” nell’oggi. Questo atteggiamento di desiderio di conoscere e scoprire l’altro nel nostro oggi comune diventa la base per il successivo percorso finalizzato a promuovere insieme i valori morali condivisi. Il dialogo implica dunque un rinnovato interesse per l’altro, motivato da un atteggiamento previo di stima. La Nostra Aetate invita a fondare teologicamente tale stima dei seguaci delle altre religioni, in cui sono inclusi i musulmani, quando afferma:
La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini. Tuttavia essa annuncia, ed è tenuta ad annunciare, il Cristo che è «via, verità e vita» (Gv 14,6), in cui gli uomini devono trovare la pienezza della vita religiosa e in cui Dio ha riconciliato con se stesso tutte le cose. Essa perciò esorta i suoi figli affinché, con prudenza e carità, per mezzo del dialogo e della collaborazione con i seguaci delle altre religioni, sempre rendendo testimonianza alla fede e alla vita cristiana, riconoscano, conservino e facciano progredire i valori spirituali, morali e socio-culturali che si trovano in essi.
In questo passo non si cede certo al relativismo religioso. Cristo resta la “via, la verità e la vita”, la pienezza personale dell’esperienza religiosa, che in lui si attua come filialità divina umanamente vissuta. Nello stesso tempo il Concilio Vaticano II invita a valorizzare gli elementi di verità e santità che – in rapporto al mistero del Cristo – sono presenti nelle altre religioni. La Chiesa nella Nostra Aetate invita a cercare nell’altra religione gli elementi di verità e santità in esse presenti: in cui “verità” si riferisce soprattutto ai contenuti dottrinali, mentre la santità richiama i vissuti religiosi umani concreti – le persone religiose – nella loro disponibilità a vivere in modo integrale la relazione con Dio e con gli altri in Lui. Questi elementi identificati dalla Nostra Aetate, apriranno quella nuova stagione del dialogo interreligioso in cui noi siamo oggi inseriti. Infatti è a partire da tali intuizioni e prospettive insegnate dal Concilio che il dialogo islamo-cristiano è nato e si è sviluppato, almeno in modo iniziale. Certamente è un sentiero aperto, con diramazioni in tanti luoghi del mondo, chiamato a diffondersi e espandersi ulteriormente, anche pacificamente resistendo ai tentativi messi in atto in taluni ambienti musulmani e cristiani di discreditarlo e di considerarlo inutile, se non dannoso e addirittura incompatibile con una autentica adesione alla propria verità religiosa. Le direzioni della conoscenza Di fatto il dialogo islamo-cristiano si è sviluppato in almeno quattro direzioni: il dialogo teologico-culturale, il dialogo della cooperazione, il dialogo della vita e il dialogo della spiritualità. La prima direzione è quella del dialogo teologico o culturale: un dialogo attuato soprattutto da specialisti, che in tante occasioni si sono confrontati su temi di interesse comune, incentrati per lo più su questioni etiche e antropologiche ritenute rilevanti per il mondo odierno e su cui musulmani e cristiani possono dare un apporto comune. Non bisogna tacere come alcuni temi, tra cui si staglia per ricorrenza nella discussione e per centralità di interesse quello dei diritti universali dell’uomo, della dignità umana e della libertà religiosa, sono affrontati a partire da prospettive che possono anche essere decisamente diverse. I momenti di dialogo servono allora non solo a mettere sul tappeto le diverse posizioni e le preoccupazioni di cui si fanno eco, ma consentono anche di fare emergere spesso posizioni plurali all’interno dei diversi gruppi (o delegazioni) religiosi in dialogo, che permettono di fatto di aprire processi di evoluzione interna alle singole religioni. Il dialogo sui diritti dell’uomo e la libertà religiosa implica di fatto l’assunzione da parte di cristiani e musulmani che tali diritti siano oggi cruciali per esprimere e tutelare l’uomo nella sua dignità sul piano personale e sociale. E anche se spesso, ma non sempre, le posizioni restano distanti, è già importante l’evento dell’ascolto reciproco, che di fatto implica un mutuo riconoscimento, e all’interno della distanza possono crearsi delle tensioni positive di convergenza. È un dato di fatto che, se tale dialogo – come tassello fondamentale di un più ampio dialogo tra culture – ha favorito il sorgere di riflessioni nuove all’interno del mondo musulmano, esso ha anche motivato in ambito cristiano una riflessione che tenga conto non solo dei diritti individuali, ma anche del contesto comunitario e associato in cui essi si esprimono. In altre parole la dimensione relazionale e comunitaria della persona – che non è riducibile al puro individuo monadico – che fa pur parte della antropologia cristiana, ha trovato nel dialogo con l’islam nuove sollecitazioni a essere custodita ed espressa, rispetto anche a una concezione individualistica del soggetto umano che sta prevalendo in settori significativi della cultura europea. Senza ovviamente cadere in prospettive “comunitariste”, che reagiscono all’individualismo affermando una superiorità della comunità cultural-religiosa e dei suoi diritti rispetto al singolo soggetto, è importante tuttavia contestualizzare il riconoscimento e l’esercizio dei diritti in una relazione di tipo sociale e comunitario, che implica l’individuazione e l’esercizio di doveri. Nella trama che nasce dall’intreccio tra diritti e doveri, la libera responsabilità del soggetto viene riconosciuta e attuata in una convivenza umana pacifica, cui le religioni possono efficacemente contribuire. I musulmani in Europa In un’area secolarizzata come quella dell’Europa occidentale il dialogo “della vita” con i musulmani, ovvero l’esperienza di relazioni con loro nell’ordinario vissuto che coinvolge anche la sfera pubblica, ha comportato per la chiesa in Europa una rinnovata consapevolezza dell’importanza di esprimere la fede sul piano pubblico, sociale, comunitario. Si tratta di pratiche che la Chiesa ha sempre coltivato, custodito e nel limite del possibile difeso nel corso della sua storia. Tuttavia la fine dell’era della cristianità ha spesso dato origine a esperienze ecclesiali di marginalità, talora di insignificanza sul piano sociale. Questo declino nell’espressione comunitaria e pubblica ha spesso provocato nella chiesa processi di ripiegamento su se stessa, quasi nella persuasione che l’adattamento a un basso profilo nell’espressione pubblica fosse una realtà ineluttabile. La presenza dei musulmani in Europa, la loro diffusa volontà di interloquire con le istituzioni pubbliche per avere spazi di espressione pubblica e collettiva della fede, ha certamente indotto anche le chiese locali a riscoprire possibilità nuove, talora anche messe in atto insieme a esponenti delle comunità musulmane locali (soprattutto in Francia). A livello più intra-ecclesiale mi sembra che il dialogo con i musulmani abbia comportato nella chiesa locale una rinnovata consapevolezza dell’importanza di vivere la dimensione religiosa sul piano comunitario. Si tratta ben inteso di una dimensione tradizionale all’interno del vissuto ecclesiale, che si è però attenuata negli ultimi decenni sia per diffusi processi di individualizzazione della pratica religiosa, sia per una relativizzazione e radicale riduzioni di pratiche collettive “canoniche” cioè prescritte. Si pensi alla disciplina quaresimale, all’astinenza al venerdì: pratiche che esprimevano un ethos religioso collettivo oggi profondamente ridimensionate sul piano canonico, salvo trovare spazi di riproposta – talora eccessiva – in ambiti di religiosità popolare legati ad apparizioni o fenomeni carismatici. Certamente l’osservanza religiosa comunitaria dei musulmani costituisce un monito e un invito a dialogare sull’importanza di tali pratiche nella vita religiosa personale e comunitaria. Forse all’interno del cristianesimo, un accento molto forte sull’atto di fede libero personale – che rimane assolutamente fondamentale e irrinunciabile – ha portato però oggi a disconoscere l’importanza delle pratiche condivise, che di fatto richiamano i credenti a vivere insieme alla presenza di Dio. Infine vorrei concludere con un rimando al dialogo islamo-cristiano nella sua dimensione teologica e spirituale, ovvero a quel dialogo dell’esperienza spirituale che viene messo a tema dal documento Dialogo e Annuncio1, e di cui abbiamo esempio concreto ad esempio nello scambio attuatosi per anni tra i monaci trappisti di Tibhirine e la confraternita sufi di Medea in Algeria, di cui danno conto gli scritti del priore e di altri monaci2. Tale esempio ci permette di suggerire che il dialogo focalizzato sulla condivisione spirituale a partire dall’esperienza di Dio nella preghiera può concorrere a stimolare la parte cristiana a ricomprendere e a rivalorizzare la trascendenza di Dio, che non è mai riducibile alle forme di comprensione umana, e che ci invita a procedere oltre nella conoscenza e nell’esperienza di Colui che rimane sempre Verbo ineffabile seppur proferito. La prossimità paterna di Dio che in Cristo ci viene rivelata rimane per il cristiano l’aspetto fondante che Dio rivela della sua identità più intima e autentica. Ma non dobbiamo mai dimenticare che tale prossimità ha in sé una dinamica ascendente, nel senso che ci attrae al di fuori di noi stessi verso Colui che solo è il Santo, il trascendente. Dal dialogo con l’islam la teologia e l’esperienza di fede cristiana può trarre un’istanza purificante rispetto a possibili strumentalizzazioni o riduzioni dell’identità di Dio che in Cristo ci viene rivelata. È un’istanza apofatica – che impone il rispetto dell’alterità trascendente di Dio che invita all’adorazione – per recuperare appieno l’istanza di esodo da noi stessi in Dio, che costituisce la via in cui il Signore Gesù introduce i credenti in Lui, perché nella comunione con il Padre sperimentino la pienezza della vita. Il dialogo della spiritualità con i musulmani può dunque aiutare i cristiani a recuperare l’esperienza della trascendenza divina, che sola permette di “stupire” del mistero dell’incarnazione, e di farcene cogliere in modo rinnovato la straordinarietà, radicata nell’eccesso di amore di Dio per l’uomo (cfr. Ef 2, 4-8). 1Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso – Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, Dialogo e Annuncio, Roma 1991. 2De Chergé Christian, Più forti dell’odio, Qiqaion, Magnano 2010.