Intervento di Mons. Paolo Martinelli alla conferenza internazionale “Cambiare rotta. I migranti e l’Europa”

Ultimo aggiornamento: 15/03/2024 10:50:09

L’appello islamo-cristiano che ha dato lo spunto iniziale a questo convegno affronta il tema delle migrazioni dal punto di vista europeo, quindi di una terra di arrivo, e sappiamo bene quante difficoltà questo processo ponga alle società di destinazione. Le Chiese europee danno un forte contributo nel sostenere un cammino di accoglienza. Il recente viaggio di papa Francesco a Marsiglia e le sue vibranti e accorate parole chiedono «un sussulto di coscienza per prevenire un naufragio di civiltà».

Nel mio intervento vorrei proporre un approccio diverso alla stessa questione, un approccio, per così dire, rovesciato di 180 gradi, quello cioè di una Chiesa fatta totalmente di migranti, in una regione, il Golfo, dove i cristiani, pur attestati nei primi secoli come alcune scoperte archeologiche ci stanno sempre più dettagliando, sono tornati a essere una presenza consistente attraverso quel fenomeno singolare che il Cardinal Scola, quasi vent’anni fa, chiamava già di meticciato di civiltà e di cultura. 

 

Questo mio approccio spero aiuti innanzitutto a vedere come le migrazioni non siano soltanto un problema per cui le Chiese locali devono attrezzarsi - la prospettiva prevalente in Europa - ma possono rappresentare un’opportunità, come del resto è stato alle origini del Cristianesimo; inoltre, ciò mostra come le migrazioni siano un fenomeno globale, che tocca tutto il mondo; infine, che le migrazioni sono un fatto che chiede, come ha affermato ancora il santo Padre a Marsiglia, di essere «governato con sapiente lungimiranza».

 

Un Vicariato, tre Paesi

 

Il mio punto di vista specifico è quello di un vescovo cattolico, vicario apostolico dell’Arabia meridionale che comprende gli Emirati Arabi Uniti, l’Oman e lo Yemen. Ovviamente si tratta di tre paesi molto diversi tra loro, con politiche migratorie diverse.

 

La prima cosa che vorrei osservare è che tutti i nostri fedeli – circa un milione considerando i tre paesi insieme – sono migranti. Nessuno dei cattolici presenti possiede la cittadinanza, eccetto rarissimi casi. Inoltre, devo chiarire subito che non ci è possibile parlare dei cattolici migranti nello Yemen in questo momento. La presenza della Chiesa e dei cristiani è ridotta al minimo. Dopo ormai oltre nove anni di nefasta guerra civile, moltissimi migranti cattolici hanno perso il lavoro e hanno dovuto lasciare il paese. Sono tuttavia assolutamente degne di nota le due comunità delle Missionarie della Carità di Madre Teresa di Calcutta che – nonostante quattro di loro siano state barbaramente uccise nel 2016 (il Papa le ha chiamate «martiri del nostro tempo») – sono rimaste nel paese e svolgono uno straordinario lavoro di accoglienza di anziani e disabili psicofisici in due case nel Nord dello Yemen, a Sana’a e Holdeida.

 

Negli Emirati Arabi Uniti e nell’Oman i migranti risiedono per il tempo del loro lavoro, terminato il quale rientrano nei loro paesi di origine. La loro presenza può durare alcuni o molti anni. I migranti svolgono i lavori più diversi, da quelli più umili e pesanti fino a quelli di prestigio, portando nel paese competenze qualificate. Anche la condizione dei lavoratori è diversificata. Quando è possibile, tutto il nucleo familiare viene ad abitare in questi paesi. Spesso, invece, il migrante si trova a vivere da solo o nelle abitazioni costruite appositamente per i lavoratori.

 

Gli Emirati Arabi Uniti hanno una grande tradizione di tolleranza e di ospitalità nei confronti dei migranti, delle diverse culture e religioni. È certo uno dei fattori del loro successo. Numerosissime sono le nazionalità rappresentate. Nella nostra realtà ecclesiale ne contiamo almeno cento tra i diversi fedeli. La maggior parte dei fedeli migranti è asiatica, proviene soprattutto dalle Filippine e dall’India. Ma vi sono cattolici dallo Sri Lanka, dal Pakistan, dal Libano e da altri paesi arabi, dall’Europa, dall’Africa e dall’America, perlopiù dall’America Latina.

 

Oltre alle diverse nazioni di provenienza, bisogna considerare la presenza di molti fedeli appartenenti alle diverse Chiese Orientali, con una tradizione spirituale propria e un rito proprio. Anche il clero e le suore che operano sul territorio sono provenienti da paesi diversi. Siamo tutti migranti, compreso clero, religiosi e vescovo.

 

Abbiamo una frequenza altissima nelle nostre chiese. Nei giorni festivi le nostre parrocchie sono letteralmente invase dal mattino presto fino alla sera tardi. Ma spesso anche durante la settimana le nostre chiese si riempiono. Studenti, lavoratori, perlopiù giovani vengono a Messa e poi vanno al lavoro o a scuola.

 

La lingua ufficiale della nostra Chiesa è l’inglese. Questa è la lingua che viene usata per la liturgia. Tuttavia, è interessante il ruolo svolto dalle comunità linguistiche presenti in tutte le nostre nove parrocchie negli Emirati e le quattro nell’Oman. Esse hanno il compito di esprimere la vicinanza della Chiesa alla loro vita attraverso una prossimità che facilita le relazioni soprattutto nei primi tempi dopo l’arrivo, condividendo i bisogni e offrendo sostegno nelle difficoltà. Non mancano momenti per radunarsi insieme per le celebrazioni liturgiche nella propria lingua o tradizione ecclesiale. Inoltre, queste comunità hanno il compito di introdurre i fedeli nell’unica comunità cristiana. È molto importante per i fedeli migranti sapere di appartenere non solo al proprio gruppo, ma ad una comunità più grande, ad un popolo, alla Chiesa tutta. Il pericolo più grande per un migrante è la solitudine e l’isolamento.

 

Qui troviamo l’aspetto più originale del nostro volto di Chiesa. Ossia il mescolamento dei fedeli tra di loro. Il meticciato di culture e di civiltà non è solo nella società ma anche all’interno della Chiesa. O per usare una espressione coniata dall’attuale Arcivescovo di Milano, mons. Mario Delpini, la nostra è realmente una Chiesa dalle genti. I fedeli imparano, insieme a fatiche e tensioni, a vivere insieme, condividendo spazi che sono limitati rispetto al loro numero. Si impegnano non solo a mantenere le proprie tradizioni ma anche a condividerle e a conoscere espressioni ecclesiali diverse.

 

Tra i momenti più belli, oltre alle celebrazioni liturgiche, dove si può vedere direttamente il carattere interculturale delle nostre assemblee, ci sono le manifestazioni in cui ogni comunità condivide aspetti culturali della propria tradizione. Ciascuno è chiamato a riconoscere l’altro e ad esporre se stesso al riconoscimento dell’altro.

 

Una Chiesa dalle genti

 

Particolarmente significativa è poi la formazione cristiana che viene portata avanti nelle nostre parrocchie. La pastorale familiare cerca nel modo migliore di custodire i nuclei familiari e di sostenere il cammino delle famiglie. La pastorale giovanile si esprime nell’aiutare i giovani a crescere con un profondo senso di appartenenza al popolo di Dio, scoprendo il nesso tra la fede e la vita, ossia la capacità della fede di dare senso agli affetti, al lavoro, al riposo, alla gioia e al dolore.

 

Il carattere interculturale della fede si esprime anche nella catechesi per i più giovani. Innanzitutto è commovente vedere il numero elevato di genitori che si offrono come insegnanti volontari, impegnandosi a fare i corsi di formazioni previsti per tutto il vicariato. Il cammino catechetico per i bambini della prima comunione e per la cresima permette ai ragazzi di imparare a vivere le differenze culturali ed etniche come una ricchezza. La convivenza stretta tra i giovanissimi dona a loro una immagine di Chiesa originariamente mista, meticcia, davvero una Chiesa dalle genti.  In questo senso possiamo dire che sta nascendo una nuova generazione di fedeli cattolici per i quali – speriamo - abitare la differenza sarà più facile poiché sarà sentita come una realtà familiare: la diversità vissuta nell’unita della Chiesa.

 

Questo è il contenuto che una Chiesa di migranti può offrire a tutta la Chiesa e alla società. Il carattere interculturale della fede, in questo senso, diviene anche un contributo fattivo ad una società plurale in cui le differenze imparano a stimarsi e a condividere il cammino per la vita buona di tutti.

 

In questo ambito si inserisce anche il contributo delle diverse scuole cattoliche, che non sono confessionali, ma luoghi di educazione e formazione interculturale. È significativo che le nostre scuole siano frequentate da giovani di diverse religioni, anche da cittadini emiratini. Si garantisce una formazione comune e l’approfondimento della propria religione. In tal modo i valori che stanno a cuore alla tradizione cristiana, e che i genitori vogliono trasmettere ai loro figli, vengono condivisi anche con persone che appartengono a fedi diverse. Certamente la questione educativa è decisiva per l’integrazione dei migranti a partire dalle nuove generazioni.

 

La dimensione interreligiosa

 

Infine, dobbiamo dire che questo cammino è favorito anche dalle relazioni molto buone della Santa Sede con gli Emirati Arabi Uniti, ed ultimamente anche con l’Oman. Da quest’anno entrambi i paesi hanno un proprio nunzio apostolico. Indimenticabile rimane la visita del Papa ad Abu Dhabi e la firma del Documento sulla Fratellanza Umana per la Pace Mondiale e la Convivenza Comune, firmato da Papa Francesco e dal Grande Imam di al-Azhar Ahmad al-Tayyib il 4 febbraio 2019. Questo documento è citato significativamente nell’appello islamo cristiano che oggi ricordiamo, dove si afferma che ogni credente è chiamato «a vedere nell’altro un fratello da sostenere e da amare», specialmente se si trova nel bisogno.

 

Dal documento di Abu Dhabi sono nate diverse iniziative, tra le quali la nascita della Abrahamic family House, una realtà composta da una Chiesa cattolica, data a Papa Francesco, e dedicata a San Francesco d’Assisi, una Moschea e una Sinagoga. Si tratta di una realtà significativa che invita i fedeli a pregare nei propri luoghi di culto, evitando ogni forma di sincretismo, ma anche a conoscersi vicendevolmente ed a mettere a tema come le diverse religioni, rifiutando ogni violenza in nome di Dio, possano sostenere lo sviluppo di una società accogliente e solidale, in cui si ricerchi insieme la pace e la giustizia, nella promozione del bene comune per la costruzione di un mondo più fraterno ed umano.

 

Tutto questo ci permette di sottolineare il fatto che i nostri fedeli migranti non solo sperimentino una Chiesa fatta di persone portatrici di tradizioni culturali ed ecclesiali differenti, ma siano anche invitate ad un cammino condiviso con persone di fedi diverse. Di fatto i nostri fedeli vivono a fianco a fianco ogni giorno, nel lavoro e nella scuola, con membri di altre religioni, specialmente musulmani. È decisivo poter superare i pregiudizi, conoscersi veramente, rifiutando ogni idea di fusione o di superamento delle diversità di appartenza religiosa, ma promuovendo la possibilità di contribuire insieme alla umanizzazione del mondo. Migranti, dunque, che imparano ad essere una Chiesa dalle genti e capaci di confronto positivo con membri di altre religioni, riconoscendo il bene di essere insieme.

 

Vagabondi e pellegrini

 

Essere migranti, detto teologicamente in conclusione, vuol dire allora essere sostanzialmente pellegrini, attraversare e abitare pienamente la storia, consapevoli non solo del suo carattere transitorio, ma anche del suo senso ultimo e definitivo. Contrariamente al vagabondo, il pellegrino è consapevole che il cammino ha una meta di cui già può fare anticipatamente l’esperienza nella comunione dei credenti. È la sua fede a riconoscere che il senso cristiano abita la storia, è un fatto nel tempo, che abilita al cammino e alla speranza affidabile. Infatti, come dice Th. S. Eliot: «without the meaning there is no time, and that moment of time gave the meaning». Il migrante, come pellegrino, vive di questa speranza.

 

 

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