La tradizione cristiana /3. Un’attenta considerazione della Bibbia permette di approfondire la correlazione tra l’evento unico della Rivelazione e la parola che vuole dirlo. La Scrittura è infatti il principale referente normativo della Chiesa.

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:36:57

Il concetto e la categoria di tradizione abbraccia l’intera problematica fondamentale e coinvolge molteplici livelli di riflessione, poiché interviene come decisiva sia nella questione della rivelazione, della sua singolarità e delle sue “fonti”, dove acquista un significato specifico, sia sul piano antropologico e culturale di una comprensione autentica della storicità e dell’esperienza dell’uomo. Le due problematiche si distinguono e si implicano reciprocamente: l’aspetto teologico può concorrere a chiarire che cosa sia tradizione sotto il profilo simbolico e antropologico; e – correlativamente – il chiarimento a riguardo di che cosa si debba intendere criticamente per tradizione è rilevante per mettere in luce la specificità del concetto teologico di tradizione, cioè la singolarità della tradizione cristiana. Le diverse questioni che riguardano il rapporto tra Tradizione e Scrittura, tra la Tradizione e le tradizioni, tra tradizione e trasmissione della fede, non possono essere chiarite se non facendo intervenire un punto di vista fondamentale che, da un lato, produca una teoria dell’atto che restituisca la qualità teologale della coscienza implicata nella rivelazione e nella fede, dall’altro, giustifichi l’unicità della Scrittura per rapporto all’esperienza di ogni uomo. A questo scopo, non è inutile avvicinarsi al problema riferendosi alle molte polarizzazioni che emergono nella costituzione biblica della rivelazione, cioè laddove la reciprocità tra Scrittura e Tradizione si produce effettivamente: la considerazione specifica della Bibbia fa emergere il concetto cristiano di Tradizione come paradigma di tutte le tradizioni; questo esige una teoria che ritrovi la pertinenza vera della categoria di tradizione, atta a correggere la tendenziale risoluzione della rivelazione nella o nelle tradizioni, che si può registrare oggi, ritrovando piuttosto la loro vera consistenza e il loro autentico significato teologico. Una Dialettica Insuperabile Come nella coppia più fondamentale di parola e scrittura, anche per la tradizione si constata sempre una dialettica tra diversi livelli della stessa polarizzazione, che devono essere mantenuti nella loro unità e nella loro distinzione, in quanto articolano la correlazione tra le parole/tradizioni umane e l’evento unico della Rivelazione. La dialettica della parola e della scrittura fa intervenire innanzitutto la distinzione/correlazione tra la voce e l’iscrizione del discorso in un codice determinato, tra la presenza di colui che parla nel discorso e l’assenza dell’autore al suo scritto, tra la vicinanza dell’interlocutore nel discorso e la distanza del lettore nel testo. Alla polarizzazione tra oralità e scrittura, che mantiene, nel registro antropologico, i tratti di una reciproca interdipendenza, si connette poi il rapporto tra Parola e Scrittura che identifica teologicamente la prima come Parola di Dio e la seconda come Sacra Scrittura. La Scrittura è importante perché la Tradizione della Chiesa ha in essa il suo referente normativo principale, che riguarda tutti i suoi molteplici livelli – il magistero, la teologia e la vita dei credenti [DV 8]. La mediazione simbolico/letteraria, che apre sulle infinite interpretazioni che essa stessa istituisce, coinvolge la questione fondamentale in quanto tematizza il nesso antropologico/teologico sia al livello del rapporto tra le tradizioni e la Tradizione, sia al livello più specificamente teologico o cristologico dell’unicità della rivelazione e delle sue molteplici mediazioni. È noto che il Vaticano II, con la Dei Verbum, mentre rifiuta o supera la tendenziale separazione o la contrapposizione indotta dalla teoria delle due fonti, si preclude e non accede all’affermazione dell’unica fonte, ma rivendica l’unità e la distinzione cioè la singolare articolazione della Scrittura e della tradizione favorendo la riformulazione del loro rapporto. La rivelazione non è solo la tradizione, ma include a monte la/le tradizione/i come momento di sé, allo stesso modo e insieme diversamente da come, a valle, istituisce la propria interpretazione, di cui si deve chiedere e giustificare la necessità e la legittimità. È interpretando tali Scritture che la comunità s’interpreta essa stessa. Si produce qui una sorta di mutua elezione tra i testi ritenuti fondatori e la comunità che volutamente abbiamo chiamato “comunità di lettura e d’interpretazione”. Da questo punto di vista, come il testo, la tradizione «esiste, in ultima analisi, grazie alla comunità, per l’uso della comunità e in vista di dar forma alla comunità». La comunità è essenziale perché indica l’atto; e l’atto non ha altro referente che la Parola, la quale, mentre e proprio perché è teologica, è anche un atto storico. Il significato di un testo è ogni volta un evento che nasce al punto d’intersezione tra, da una parte, alcune costanti che il testo porta con sé [...] e, d’altra parte, le diverse attese di una serie di comunità di lettura e d’interpretazione che gli autori del testo considerato non potevano anticipare. Gli aspetti rapidamente citati servono ad istruire il problema, ma essi esigono che si elabori o si suggerisca una teoria capace di evitare la risoluzione di un aspetto o di un polo della correlazione nell’altro; allo scopo cioè di correggere la tendenziale estenuazione del concetto di tradizione che si può registrare oggi. Un tempo la prospettiva dottrinalista non riconosceva un carattere veritativo alla tradizione, ma, risolvendo la rivelazione in una dottrina, non poteva che comprendere la tradizione come sua applicazione. Con questa prospettiva mantengono una certa affinità tentativi filosofici più recenti e maggiormente avvertiti, che elaborano una concezione antropologica del simbolico e/o della tradizione rispetto alla quale la rivelazione si aggiunge come un successivo passaggio concettuale alla componente teologica, che avviene all’insegna dell’esteriorità. Oggi la tendenza è piuttosto quella di livellare la rivelazione sulle tradizioni e sulle sue molteplici e libere interpretazioni: in tal modo, per significare il carattere non secondario o successivo, cioè puramente derivato, della tradizione rispetto alla rivelazione, si finisce con il relativizzare la rivelazione. Per correggere questo orientamento e conformare la riflessione al modello biblico si deve ricondurre la tematica della tradizione al suo fondamento cristologico e perciò (e solo così) anche al suo significato autenticamente antropologico. La tradizione, infatti, può rappresentare la mediazione storico-culturale della rivelazione solamente se l’antropologico è riconosciuto nella sua portata veritativa, ossia nella sua relativa autonomia, senza confondersi con la verità. In altre parole, vi è una reciprocità e nello stesso tempo una dissimmetria dell’evento e della sua trasmissione o della sua ripresa, che deve essere restituita per illustrare il ruolo decisivo del cristologico e come esso assume e ha bisogno dell’antropologico. Il carattere di unicità dell’evento appare dal fatto che esso mantiene un debito nei confronti dell’anticipazione e che rende possibile e fa appello ad un diverso tipo di “anticipazione”, che ha un regime o uno statuto nuovo: quello della ripresa. Esso non si risolve né nell’anticipazione, né nella ripresa, ma le istituisce entrambe. È l’evento a istituire tempo e durata per altro che sé stesso soltanto. La sua storicità è essenziale, altrimenti non si dà né anticipazione, né ripresa. L’evento, di fatto, diviene criterio anche della differenza tra l’anticipazione e la ripresa, poiché costituisce il criterio delle diverse modalità effettive dell’umano. Già la struttura dell’Antico Testamento è una continua ripresa interna alla sua costituzione; ma nella tradizione cristiana si dà l’attualizzazione di Cristo: vi è una dissimmetria tra l’anticipazione costituita dalle diverse riprese inverate dell’evento, che esse non possiedono se non così, cioè come anticipazioni, e le riprese o la ripresa, che consiste nell’attualizzazione dell’evento da parte della Chiesa. Ecco che cos’è la tradizione in entrambi i momenti. La Storicità della Testimonianza Per chiarire meglio la questione, può essere utile accostare la tradizione al tema, per certi aspetti più ampio, ma per altri più indeterminato, della testimonianza. I due temi, in prima approssimazione, possono apparire assimilabili e la teologia fondamentale ha potuto talora ritrascrivere la tradizione, nella sua accezione più generale, in termini di testimonianza. Ma non è possibile comprendere la tradizione come testimonianza della fede cristiana se non a condizione di vedere sia la novità che la categoria di testimonianza rappresenta rispetto a quella di tradizione, sia l’insuperabilità della tradizione per la stessa testimonianza. Non si può dire che cosa sia tradizione se non facendo intervenire la testimonianza, cioè l’atto, come dimensione insieme terza e non terza rispetto al nesso fondamentale di rivelazione e di fede; e – reciprocamente – non si può significare il carattere vero della testimonianza della rivelazione, nella quale consiste la fede, se non a procedere dalla qualità radicalmente storica cioè dal rilievo specifico ed effettivo della tradizione. Se la testimonianza è l’atto, la tradizione indica, per un aspetto, le sue condizioni, per un altro, la sua trascendenza; e proprio perché la testimonianza ha uno spessore antropologico essa deve essere “normata” dalla tradizione. Non si può consegnare – tradere – la verità se non da implicati; e non ci si può implicare compiutamente che nella verità. Ma questo lo dice non il rimando immediato alla verità, bensì solamente il riferimento alla questione del senso, nel suo specifico rilievo o nella sua dimensione veritativa, cioè un senso vero, che è l’oggetto proprio della tradizione. Tradizione equivale qui a quello che con una categoria estetica può essere definito “il classico”, il quale riguarda l’aspetto veritativo del senso, cioè il senso riconosciuto come vero e attestato in quanto tale. In un regime solamente o riduttivamente antropologico, propriamente non si dà tradizione, anche se è possibile tematizzare già sul registro antropologico il rilievo dell’attestazione, la quale riguarda l’implicazione dell’uomo nell’attestazione della verità, cioè nel senso. Il dogma, il canone, così come il magistero, che costituiscono – ciascuno diversamente e al proprio livello – i momenti tipici e salienti della Tradizione, sono atti storici, ma non in senso storicistico. Il momento specifico della tradizione dice invece il carattere secondo, ma non secondario, della ripresa e delle riprese che lo Spirito suscita; per un altro aspetto, essa costituisce anche l’anticipazione e/o le anticipazioni che è lo stesso Spirito a suscitare per rapporto all’evento attestato nella rivelazione. La verità della tradizione consiste nel fatto che essa sia fedele all’evento e propizi l’assunzione da parte dell’evento stesso dell’antropologico, cioè della storicità e dei diversi livelli di produzione del senso. Detto altrimenti: la Tradizione non equivale alla rivelazione, ma nemmeno risulta irrilevante per essa, sia a monte, sia a valle. Non c’è rivelazione senza tradizione, ma non c’è portata veritativa della tradizione senza l’evento unico che la istituisce come momento di sé. In questo senso la Scrittura è “doppiamente classica”, poiché realizza e attesta insieme l’universalità della verità e la singolarità dell’evento della sua rivelazione, che costituisce l’atto della libertà come un momento di sé. L’uomo ha una storia e la tradizione, nel suo significato più ampio, ma anche più radicale, ne attesta il rilievo in ordine all’evidenza propria di Dio. In questo senso essa risulta coestensiva all’intera problematica ermeneutica: da una parte la tradizione riguarda il momento della prefigurazione del testo, da un’altra parte rappresenta il luogo proprio della rifigurazione o dell’ermeneutica. Essa, del resto, costituisce anche la dimensione costitutiva della configurazione del testo. In sintesi, la tradizione dice il segno dell’umano o il rilievo della vicenda storica sulla rivelazione, come mostra l’aggancio del testo «in una o più tradizioni, che hanno lasciato a loro volta le loro tracce sul testo considerato». A questo radicamento storico corrisponde tuttavia il nuovo evento di «una parola nuova pronunciata a proposito del testo e a partire dal testo». Come l’ermeneutica, la tradizione ha un aspetto insieme archeologico e teleologico, retrospettivo e prospettico, che ha il suo fondamento nel carattere processuale della rivelazione e nella dimensione progressiva della sua comprensione, la quale non è puramente infinita, bensì universale, mentre è sempre determinata: per accedere al livello veritativo essa non deve rinunciare alla sua finitezza, poiché la ragione della sua determinatezza non è diversa dal fondamento per il quale essa è vera. Non è un caso che uno dei criteri divenuti tradizionali per giungere a caratterizzare la peculiarità della tradizione e del dogma sia quello elaborato da Vincenzo di Lerino, che fa riferimento a ciò che è creduto ovunque, sempre e da tutti. In questo senso, «una comunità storica si riconosce fondata e, per così dire, compresa, in tutti i sensi della parola, in e attraverso questo corpus così particolare di testi». La dimensione della trasmissione e, rispettivamente, della “recezione” non è superabile perché la tradizione/trasmissione della fede è sempre memoria/tradizione di un evento e di un atto effettivo, il quale istituisce il significato radicale della temporalità dell’uomo. E non si dà verità, sul piano cristologico e su quello propriamente antropologico, se non nell’attuazione. Non si tratta di risolvere la circolarità Parola/Tradizione «cercando altre vie a lato della Scrittura», ma di riconoscere «che qualcuno ha letto la Scrittura prima di noi e a noi propone una chiave, dichiarandoci che essa è conforme alla Scrittura». Tradizione significa allora «passaggio della verità evangelica nella Chiesa, nella forma del passaggio del Libro, non come un blocco chiuso, ma al contrario come una realtà penetrata, traversata da una voce vivente […] Essa esce e fa uscire dal circolo della Scrittura non aggiungendovi qualche cosa, ma trasmettendola, designandola come il Libro sacro, designando ciò che essa designa e che è il corpo di Cristo, aprendola infine come essa apre questo stesso corpo per renderlo accessibile a tutti». L’Azione dello Spirito La riflessione porta sulla qualità propriamente spirituale della Tradizione cristiana: «Le comunità cristiane possiedono un’espressione per designare ciò che insieme chiude e apre il Libro e le interpretazioni. Questa espressione designa il non-detto di tutta la nostra meditazione, lo Spirito: non si dovrebbe dire “Parola, Scrittura, Religione”, ma “Parola, Scrittura, Spirito”. È lo Spirito a disegnare il più ampio cerchio all’interno del quale la Parola e la Scrittura, la Scrittura e la comunità confessante si costituiscono reciprocamente. La fede, qual è professata dai credenti, ma anche quale può essere compresa con immaginazione e simpatia nella sospensione della fede, consiste dunque nel credere che la “testimonianza interiore dello Spirito Santo” – da parte delle comunità d’ascolto e d’interpretazione – e l’ispirazione attribuita alle Scritture da queste comunità sono opera di un solo e identico Spirito». Il rapporto tra la tradizione e le tradizioni, così come il rapporto tra la rivelazione e le religioni, è dunque una questione tipicamente spirituale poiché riguarda il problema dell’oggettivazione dell’evidenza teologale. Se la tradizione indica la necessità dell’oggettivazione, essa esige che se ne mostri il carattere o il momento fondativo, che non può essere livellato sulle tradizioni perché si perderebbe la rilevanza della Tradizione cristiana. Dio si rivela costituendo una storia, nella quale la componente della sua propria inconoscibilità può e deve essere compresa solo come dimensione della relazione. A questa dimensione spirituale si riconducono anche i problemi, oggi discussi, delle diverse tradizioni religiose, del pluralismo religioso e delle devozioni. Un caso o un luogo illustrativo è quello della religiosità popolare, in cui le tradizioni hanno un rilievo particolarmente consistente. Le diverse tradizioni che la religione popolare e/o la devozione concorrono a creare hanno portata realmente teologica, che perciò viene recepita e assunta dalla Tradizione cristiana, non se ritrascrivono su un piano diverso una verità generale, in ipotesi nota a monte, ma se mostrano il rilievo dell’atto e della vita effettiva dell’uomo in ordine all’attestazione di Dio; se, cioè, esprimono praticamente la novità che l’umano effettivo rappresenta per Dio e al quale Dio stesso conferisce la qualità teologica che gli è propria per il tramite dell’atto dell’uomo. Per non estenuare il significato teologico della Tradizione, cioè il suo significato cristologico, occorre comprenderla come il momento antropologico di cui il cristologico ha bisogno per attestarsi in quanto tale. Non è possibile giustificare la consistenza e la pertinenza propriamente teologica dell’atto, senza riconoscere l’istanza antropologica come costitutiva. L’atto dell’uomo costituisce il realismo dell’attualità di Cristo, come sua condizione che è Gesù stesso a istituire; esso solo realizza la reciprocità tra il credente e Gesù o il rendersi effettivo dell’evento di Gesù a me, che è il senso vero della spiritualità e della tradizione cristiana. Bibliografia Jean-Georges Boeglin, La question de la Tradition dans la théologie catholique contemporaine, Cerf, Paris 1998. Tullio Citrini, Tradizione, in Giuseppe Barbaglio, Giampiero Bof, Severino Dianich (a cura di), Teologia, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2002, 1768-1784. Wendelin Knoch, Dio alla ricerca dell’uomo. Rivelazione, Scrittura, Tradizione, Jaca Book, Milano 1999. Hans Waldenfels, Rivelazione. Bibbia, tradizione, teologia e pluralismo religioso, San Paolo, Cinisello Balsamo 1999. Elémire Zolla, Che cos’è la tradizione, Adelphi, Milano 1998.

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