Fondato su un’interpretazione intransigente del monoteismo, nel corso dei secoli il wahhabismo ha ceduto a compromessi con il potere politico, senza però rinunciare ai suoi principi essenziali

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:59:33

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«Non c’è dio all’infuori di Dio e Muhammad è il Suo profeta». Per secoli, questa professione di fede ha costituito il fondamento dell’unità musulmana in presenza di una varietà di usanze religiose popolari, come la richiesta di intercessione di uomini santi, l’omaggio reso alle tombe di antenati illustri e l’invocazione dei santi sufi per ricevere benedizioni spirituali. I teologi musulmani criticavano le usanze popolari in quanto deviazioni dalle preghiere canoniche prescritte, ma sostenevano anche che fin quando una persona professava la fede ed eseguiva gli obblighi rituali – preghiera, elemosina, digiuno e pellegrinaggio alla Mecca – era considerata musulmana. Nel 1740, un teologo arabo chiamato Muhammad Ibn ‘Abd al-Wahhāb (1702-1792) ha clamorosamente preso le distanze dall’opinione consolidata, affermando che le usanze popolari rappresentavano espressioni imperdonabili di idolatria e scatenando un dibattito che da allora divide i musulmani.

 

Le radici del dissenso di Ibn ‘Abd al-Wahhāb risiedono nell’audace affermazione secondo la quale i musulmani hanno dimenticato il vero significato dell’espressione «non c’è dio all’infuori di Dio»: non soltanto a Dio si deve completa adorazione, come credono tutti i musulmani, ma ogni parola o azione che implichi un atto di culto rivolto a un’altra creatura fa di una persona un idolatra. Altri teologi hanno negato che la richiesta di intercessione e azioni simili fossero forme d’adorazione, ma Ibn ‘Abd al-Wahhāb ha insistito nel dire che lo erano. Si è pertanto sentito in dovere di esortare alla purificazione della vita religiosa, dopo averla dichiarata caduta nella stessa “ignoranza spirituale” idolatra che il profeta Muhammad aveva combattuto un migliaio di anni prima.

 

In termini pratici, il credo di Ibn ‘Abd al-Wahhāb implicava la scomunica di altri musulmani. Il termine arabo per scomunica, takfīr, è diventato familiare in Occidente a causa della sua associazione con la violenza estremista perpetrata in Iraq e in Siria dallo Stato Islamico, i cui teologi attingono ampiamente dalla dottrina wahhabita. I critici di Ibn ‘Abd al-Wahhāb lo accusavano di scomunicare i musulmani in modo sconsiderato e ingiusto. Lui respingeva le accuse, affermando di aver accuratamente limitato la scomunica ai casi in cui gli individui avevano ricevuto una spiegazione chiara del significato del monoteismo e l’avevano rifiutata.

 

Ibn ‘Abd al-Wahhāb ha intrapreso la missione di stabilire un regno dell’adorazione perfetta, con l’eliminazione delle usanze pagane, l’obbedienza alla legge divina e l’esclusione degli idolatri. All’inizio, si è dedicato a questa missione attraverso il proselitismo, in linea con la tradizionale via musulmana di invito (daʻwa) alla vera fede. Ma gli altri esperti religiosi lo hanno perlopiù condannato e i suoi critici hanno coniato il termine “wahhabismo” per marginalizzare il suo messaggio come concezione falsa di un rozzo predicatore sviato. Lui ha ovviamente rifiutato l’etichetta di wahhabita, insistendo sul fatto che stava ridando vita al vero monoteismo dell’Islam.

 

L’alleanza con i sauditi

I critici riuscirono a farlo espellere da due città della penisola araba prima che lui trovasse il sostegno del governante di un’oasi – Muhammad Ibn Sa‘ūd –, dando vita all’alleanza tra il wahhabismo e il clan saudita. Tale collaborazione ha fornito a Ibn ‘Abd al-Wahhāb il supporto politico di cui aveva bisogno per creare un regno purificato dall’idolatria e per ampliarlo attraverso una guerra d’espansione. Dopo la sua morte nel 1792, la leadership religiosa è passata al figlio e poi agli altri discendenti, che hanno conservato la teologia wahhabita e mantenuto forti legami con i governanti sauditi.

 

Dagli anni ’40 del Settecento ai primi anni del Novecento, le vicende politiche saudite hanno avuto alti e bassi. Nei periodi di forza politica, i chierici wahhabiti hanno utilizzato il loro monopolio dell’autorità religiosa per costruire una cultura religiosa puritana, soffocando il dissenso ed escludendo i musulmani non wahhabiti. Appellandosi all’obbligo religioso di ostilità verso gli infedeli e amicizia verso i credenti, i chierici wahhabiti hanno persino cercato di vietare i viaggi verso i Paesi limitrofi, come l’Iraq, la Siria e l’Egitto, per paura che l’interazione con musulmani non wahhabiti, che essi consideravano infedeli, potesse suscitare simpatia verso di loro e verso le loro idee religiose.

 

La dipendenza del wahhabismo dal potere saudita ha significato che la purezza religiosa aveva bisogno di un governante forte. Di conseguenza, i chierici wahhabiti hanno fatto dell’obbedienza al sovrano un obbligo religioso, in linea con la tradizione sunnita secondo cui i credenti devono obbedire al governante che difende l’Islam fintantoché egli non ordina loro di violare la legge islamica. Ma il wahhabismo ha inteso in maniera estremamente impegnativa l’idea di “difesa dell’Islam”, richiedendo al governante di proibire le deviazioni da una definizione rigida del “culto corretto”. Esso esige infatti che il governante adempia rigorosamente il dovere di “comandare il bene e proibire il male”, una formula che prevede una società conforme alla visione wahhabita di ciò giusto e ciò che è sbagliato. A partire dal 1920, tale conformità è stata controllata da una polizia religiosa che aveva l’autorità di imporre la segregazione di genere, la chiusura dei negozi e degli uffici negli orari di preghiera e la moralità pubblica in generale.

 

La dipendenza da un governante forte nella preservazione della purezza religiosa ha l’effetto paradossale di obbligare i chierici wahhabiti a cedere quando questo governante decide per ragioni di convenienza di rompere con la loro idea di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. In una situazione del genere, solitamente i chierici resistono prima di raggiungere un compromesso. È stato questo lo schema messo in atto quando negli anni ’30 i governanti accolsero per la prima volta degli occidentali infedeli per sviluppare le risorse petrolifere e quando negli anni ’60 introdussero la televisione e le scuole per le ragazze. I chierici hanno fatto il possibile per limitare l’impatto di questi cambiamenti. Quando il sovrano ha abolito il divieto di vivere in Arabia Saudita per gli infedeli, questi ultimi sono stati confinati all’interno di enclave residenziali, così da ridurre al minimo un’interazione che avrebbe potuto corrompere il modello saudita. Quando il sovrano ha insistito per permettere la televisione, i chierici hanno ottenuto il potere di censura sulla programmazione. E quando il sovrano ha aperto le scuole per ragazze, i chierici ne sono diventati responsabili.

 

Il rapporto con lo sciismo

La questione di come trattare con la minoranza sciita dell’Arabia Saudita mette in conflitto convenienza politica e purezza religiosa. E la realizzazione di un compromesso duraturo tra le due esigenze si è rivelata illusoria a causa delle complessità insite nella storia, nella teologia, nella geografia e nella politica.

La divisione tra sunniti e sciiti risale ai primordi della storia musulmana. Dopo la morte del Profeta, i musulmani non sono riusciti a mettersi d’accordo su come scegliere la propria guida. Secondo il credo sciita, il Profeta ha chiarito che la leadership sarebbe passata al suo consanguineo Ali e ai suoi discendenti maschi, noti come “imam”. Nel credo sunnita, invece, la leadership è decisa in modo consensuale. Nel corso del tempo, le differenze teologiche hanno aumentato il divario tra sciiti e sunniti. Gli sciiti sono arrivati a credere che gli imam possedessero una comprensione unica del significato della rivelazione, trasformandoli in guide infallibili nel capire e seguire la volontà di Dio.

 

Lo sciismo attribuisce agli imam qualcosa di simile all’autorità apostolica. Al contrario, i sunniti hanno conferito l’autorità di discernere il significato della rivelazione alla saggezza collettiva degli esperti religiosi, considerati gli “eredi del Profeta”. Inoltre, gli sciiti credono che gli imam abbiano una posizione speciale agli occhi di Dio, che permette loro di intercedere presso di Lui per conto dei credenti devoti. Pertanto, la vita religiosa sciita prevede preghiere per chiedere l’intercessione degli imam e celebrazioni che li onorano. Agli occhi dei wahhabiti, si tratta di pura idolatria.

 

A parte l’ostilità dottrinale wahhabita verso lo sciismo, sono la geografia e la politica a definire la gestione della minoranza sciita da parte del governo saudita. La maggior parte degli sciiti vive nella provincia orientale affacciata sul Golfo persico, esattamente dove si trovano gli enormi giacimenti petroliferi del Paese. Considerato che l’estrazione e l’esportazione del petrolio è essenziale per la prosperità saudita, le episodiche agitazioni sciite comportano un enorme rischio per l’economia nazionale.

Inoltre, gli sciiti dell’Arabia Saudita fanno parte di una zona sciita nella regione del Golfo persico che include correligionari in Bahrain, Kuwait, Iraq e Iran. L’ascesa in tutti questi Paesi, tranne che in Iran, di moderni governi nazionali guidati da sovrani sunniti ha rafforzato un comune sentimento di ingiustizia tra gli sciiti che sono vittime di discriminazione confessionale, e questi ultimi hanno risposto dando origine a movimenti transnazionali per la difesa dei loro interessi.

 

Davanti a questo complesso scenario, i governanti sauditi hanno generalmente cercato un compromesso tra la dottrina wahhabita, che sopprimerebbe lo sciismo, e la necessità di stabilità, che sarebbe minacciata dall’applicazione di tale dottrina. Il compromesso permette agli sciiti di pregare nelle loro moschee, ma vieta le celebrazioni pubbliche delle loro festività. Al contempo, esso dà all’establishment wahhabita carta bianca nei sermoni in moschea e all’interno delle scuole per condannare gli sciiti come infedeli che complottano segretamente per indebolire l’Islam.

 

Questo clima religioso oppressivo si traduce in una discriminazione pervasiva. Gli sciiti si trovano in una posizione svantaggiata quando cercano lavori statali in un’economia in cui il settore pubblico è la principale fonte di impiego per i cittadini sauditi. Dal boom petrolifero degli anni ’70, il governo ha investito ingenti somme di denaro per elevare il tenore di vita materiale in tutto il Paese, tranne che nei quartieri, città e villaggi sciiti. Come se non bastasse, dopo che la rivoluzione iraniana del 1979 ha portato al potere un governo ufficialmente sciita, gli sciiti sauditi sono stati sospettati di lealtà verso una potenza straniera ostile. Di conseguenza, le proteste sciite del 1979 e del 2001 sono state liquidate come una ribellione ispirata dal governo iraniano. La prima serie di proteste ha spinto il governo saudita a promettere di rispondere alle rivendicazioni degli sciiti, ma l’agitazione più recente ha incontrato la repressione più pura.

 

Il proselitismo

Ciò che i critici occidentali e musulmani chiamano “esportazione del wahhabismo” è un termine peggiorativo per “proselitismo”. Nel Settecento, Ibn ‘Abd al-Wahhāb ha inviato lettere a esperti religiosi in Arabia, Siria, Egitto, Tunisia e Marocco, esortandoli a sostenere la sua missione, ma ha incontrato un rifiuto quasi unanime. Il proselitismo wahhabita non ha trovato un pubblico ricettivo fino agli anni ’20 del Novecento, quando il fondatore del moderno Stato saudita, ‘Abd al-‘Azīz Ibn Sa‘ūd, ha sovvenzionato la diffusione di trattati wahhabiti da parte di una casa editrice egiziana.

È solo negli anni ’60 che ha preso forma il proselitismo nella sua forma attuale, principalmente in ragione della convenienza politica. In reazione alla popolarità e al dinamismo dei regimi nazionalisti arabi laici, l’Arabia Saudita ha infatti messo insieme una coalizione internazionale di governi musulmani con la pretesa di rappresentare la fedeltà all’Islam. I chierici wahhabiti vi hanno visto l’opportunità di difendere la loro dottrina, contribuendo a dar vita a organizzazioni panislamiche come la Lega Musulmana Mondiale e l’Assemblea Mondiale della Gioventù Musulmana. Queste organizzazioni hanno trasformato i proventi petroliferi dell’Arabia Saudita in influenza religiosa, fondando scuole, moschee, enti benefici e cliniche mediche sotto la supervisione dei chierici sauditi e dei loro alleati religiosi in tutto il mondo musulmano e nella diaspora musulmana in Occidente. L’effetto della diffusione del wahhabismo è stato quello di creare tensioni tra i musulmani, a causa di una dottrina che genera un clima di intolleranza dove aveva a lungo prevalso uno spirito pluralista.

 

La campagna di proselitismo è stata amplificata dalla cooperazione con organizzazioni e attivisti musulmani che non aderiscono alla dottrina wahhabita, ma condividono la sua ostilità verso la diffusione dei costumi occidentali e il suo invito alla solidarietà per difendere le comunità musulmane a rischio in luoghi come la Palestina e il Kashmir. La cooperazione musulmana transnazionale ha raggiunto il culmine quando l’Unione Sovietica ha invaso l’Afghanistan nel 1979 allo scopo di stabilizzare un vacillante regime marxista.

 

I governi dell’Arabia Saudita e del Pakistan hanno collaborato con gruppi di attivisti per organizzare, finanziare ed equipaggiare ribelli afghani e volontari musulmani per resistere alle forze sovietiche. Gli Stati Uniti vedevano l’Afghanistan attraverso le lenti della Guerra Fredda e dell’ostilità con l’Unione Sovietica, dando il loro contributo alla causa. Il periodo successivo alla guerra afghana, tuttavia, è stato segnato dall’apertura di nuovi fronti del jihad in Bosnia, Cecenia, Tajikistan e altri luoghi più allarmanti per l’Occidente. Gli anni ’90 hanno visto la comparsa di un nuovo tipo di militanza islamica che mescola il proselitismo wahhabita con la resistenza armata alle minacce contro le comunità musulmane. Questa nuova militanza diventerà nota come jihadismo salafita

 

Il Salafismo

I wahhabiti generalmente si definiscono come “salafiti”, cioè musulmani dediti alla rinascita delle credenze e delle pratiche originarie dell’Islam. L’abbandono dell’etichetta “wahhabita” e l’acquisizione di quella “salafita” facilitano la risonanza del messaggio religioso saudita nel mondo musulmano: l’aggettivo “wahhabita” richiama alla mente una controversa dottrina apparsa nel Settecento, e per questo sembra essere un’invenzione recente, mentre “salafita” rimanda alla comunità musulmana originaria (salaf significa infatti “antenati”).

 

Analizzare i termini “salafita” e “wahhabita” è complicato, ma alla fin fine si riduce a una questione di teologia e diritto. Le due dottrine condividono, infatti, la stessa definizione di monoteismo, che mira a purificare il culto e condanna lo sciismo, il sufismo e così via. I salafiti, tuttavia, considerano i wahhabiti in errore per quel che riguarda il diritto islamico. Il disaccordo deriva dall’affiliazione del wahhabismo all’hanbalismo, una delle quattro tradizioni giuridiche storiche dell’Islam sunnita. I salafiti rifiutano l’affiliazione a qualsiasi scuola giuridica sulla base del fatto che esse rappresentano sviluppi storici avvenuti molto tempo dopo la prima generazione musulmana. Il disaccordo sul diritto religioso non impedisce la collaborazione per la diffusione della teologia salafita/wahhabita. Ma gli stessi ranghi salafiti sono divisi sulle condizioni per invocare il jihad, con i chierici sauditi schierati a favore di una visione restrittiva in linea con la loro posizione secondo la quale solo un sovrano può dichiarare il jihad.

 

Il jihad

Il wahhabismo segue infatti la concezione condivisa nel diritto islamico sunnita secondo la quale esistono due tipi di jihad (c’è anche una tradizione sufi che definisce il jihad militare come una forma minore e quello spirituale come una forma maggiore, ma il wahhabismo non riconosce il jihad spirituale). Nel jihad offensivo, il governante invita gli idolatri ad abbracciare l’Islam e se questi rifiutano deve lanciare una campagna militare per sottometterli al governo islamico. Nel jihad difensivo, il governante conduce una campagna militare per proteggere i musulmani dagli attacchi ostili. Che sia offensivo o difensivo, secondo il diritto islamico sunnita solo il governante può autorizzare una campagna militare. Il sostegno dell’Arabia Saudita ai ribelli anti-sovietici in Afghanistan negli anni ’80 fu giustificato come jihad difensivo perché un nemico non-musulmano, l’Unione Sovietica, aveva invaso un Paese musulmano.

 

Il wahhabismo non ammette invece tre innovazioni introdotte nel jihad dal jihadismo salafita. Innanzitutto, secondo quest’ultimo, quando i musulmani si ritrovano sotto il dominio di un apostata devono muovere il jihad per rovesciare il governo. Per esempio, nell’Algeria degli anni ’90 il Gruppo Islamico Armato (GIA) ha lanciato il jihad per rovesciare il governo perché questo non seguiva la legge islamica. In secondo luogo, secondo i salafiti jihadisti il jihad difensivo dovrebbe essere esteso dalla lotta contro un invasore straniero alla lotta contro la dominazione straniera. Per esempio, al-Qaeda ha dichiarato il jihad contro gli Stati Uniti a causa del sostegno fornito da Washington a Israele e ai regimi laici che opprimono i musulmani. Infine, l’autorità per ordinare il jihad non è limitata al governante quando ci sono le condizioni che lo giustificano ma il governante non fa la sua parte. In questo tale autorità può essere assunta dai musulmani comuni.

 

Il movimento del risveglio

Negli anni ’50 e ’60, durante la Guerra Fredda araba, l’Arabia Saudita strinse un’alleanza con i Fratelli musulmani contro le forze laiche e di sinistra guidate dal presidente egiziano Gamal Abdel Nasser. Per consolidare il proprio potere, Nasser mise al bando la Fratellanza, incarcerò centinaia dei suoi membri e ne condannò altri all’esilio. L’Arabia Saudita diede rifugio ad alcuni Fratelli musulmani che scappavano dalle persecuzioni in Egitto e in altri Paesi, come il Sudan e la Siria. I Sauditi non permisero loro di creare un ramo ufficiale della Fratellanza, ma i Fratelli musulmani furono in grado di diffondere uno spirito di attivismo politico in contrasto con la dottrina wahhabita di obbedienza al governante. Negli anni ’60 e ’70, emersero giovani sauditi che univano l’ethos attivista della Fratellanza alla teologia wahhabita per contrastare una piccola ma molto attiva corrente liberale.

 

Negli anni ’80, la sintesi tra wahhabismo e Fratellanza divenne un vero e proprio movimento, chiamato il “Risveglio” (sahwa). Esso faceva appello ai chierici sauditi più giovani allarmati dagli avanzamenti della cultura occidentale. Sfociò poi in un massiccio movimento di protesta nel 1990-1991, quando il governo invitò migliaia di truppe occidentali per difendere il Paese dal possibile attacco dell’Iraq dopo che quest’ultimo aveva invaso il vicino Kuwait. Il governo soffocò la protesta arrestando i chierici del Risveglio più in vista e fornendo rapporti clientelari e risorse ai chierici lealisti.

 

Il principe ereditario

Nel 2017, il Re Salman ha modificato la linea di successione elevando il giovane figlio Muhammad (n. 1985) al ruolo di principe ereditario. Per rafforzare la sua posizione in vista della successione al trono, Muhammad bin Salman (noto come MBS, NdR) si è adoperato per ottenere il sostegno popolare da parte dei giovani sauditi. La sua pretesa di essere un nuovo tipo di leader in sintonia con le prospettive e i bisogni della gioventù saudita potrebbe riflettere semplicemente un’affinità generazionale. Ma con quasi il 60% della popolazione sotto i 30 anni, il corteggiamento di questo vasto elettorato sembra rispondere anche a una convenienza politica.

 

Che sia guidato dall’affinità o dalla convenienza, il principe ereditario Muhammad ha mostrato simpatia nei confronti dei giovani sauditi insoddisfatti delle restrizioni legate al wahhabismo. Affermando che il Paese si è allontanato dalla moderazione religiosa negli anni ’80, ha proclamato che era tempo di allentare le restrizioni sui cinema e di revocare il divieto alle donne di guidare veicoli a motore. Resta da vedere fino a che punto andrà o potrà andare nella liberalizzazione del clima sociale.

Nel 2019, il governo ha revocato i provvedimenti che costringevano le donne ad avere il permesso di un tutore maschio per viaggiare all’estero, ma non ha modificato le altre norme che pongono le donne sotto l’autorità di parenti maschi e rimangono in vigore le leggi patriarcali che regolano il matrimonio, il divorzio e la custodia.

 

Convenienza e dottrina wahhabita si sono sovrapposte nella promozione da parte del principe ereditario di una crociata contro lo sciismo. Muhammad Bin Salman ha abbracciato l’idea che l’Iran stia guidando un complotto sciita per distruggere l’Islam sunnita con l’aiuto degli sciiti dello Yemen, della Siria e dell’Iraq e, sì, di membri della stessa minoranza sciita saudita. Questa narrazione ignora la diversità interna allo stesso sciismo, che affonda le sue radici in divisioni risalenti ai primi tempi dell’Islam. Gli sciiti zaiditi dello Yemen (il movimento Houthi) e gli alawiti di Siria (che si suppongono rappresentati dal regime di Bashar al-Assad) non condividono né teologia, né diritto, né leadership religiosa con gli sciiti duodecimani dell’Iran. Nonostante ciò, la narrazione si è rivelata efficace nel generare sostegno tra i regimi sunniti della regione e in patria, dove lo spettro di una cospirazione sciita è usato per giustificare la repressione del dissenso e della protesta. Nell’aprile del 2019, più di trenta sciiti sono stati condannati a morte, accusati tra le altre cose di spionaggio a favore dell’Iran.

 

La resilienza del wahhabismo

In un certo senso, il wahhabismo esige che l’adorazione sia riservata a Dio, contro l’allettante illusione che le creature mortali abbiano la capacità di intercedere presso Dio per offrire sollievo dalla sofferenza in questa vita e salvezza nell’altra. Si potrebbe immaginare questa illusione come un segno della generosa misericordia di Dio, il quale benedice il mondo con uomini esemplari, dotati di poteri spirituali che aprono una via d’accesso al Creatore. Ma la dottrina wahhabita insiste nell’affermare che la professione di fede, «non c’è dio all’infuori di Dio», mette fine all’illusione e pone tra i miscredenti ogni persona che vi si rifugia. Se la dipendenza dai governanti sauditi ha posto dei limiti a ciò che i chierici wahhabiti possono ordinare o proibire, nel corso del tempo i chierici sono stati in grado di salvaguardare e diffondere il cuore dottrinale del wahhabismo.

 

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