Il presidente tunisino è riuscito a far approvare, in nome del popolo ma senza il popolo, il suo progetto di Costituzione. La nuova Carta apre la strada a un sistema autoritario che sembra strutturalmente incapace di risolvere i problemi del Paese

Ultimo aggiornamento: 03/08/2022 10:11:25

Commentando l’esito delle elezioni presidenziali tunisine del 2019, il politologo francese Michel Camau, coautore tra le altre cose di un’opera di riferimento sull’autoritarismo in Tunisia, scriveva che dietro al neoeletto «costituzionalista populista» Kais Saied, «sembrava profilarsi la silhouette, più inquietante, di un populista costituzionalista». Cioè di un «populista determinato a far prevalere, contro venti e maree, la propria idea di costituzione, come accade generalmente ai populisti una volta arrivati al potere».

 

Lo stesso Saied non aveva mai fatto mistero dei suoi progetti. In un’intervista rilasciata durante la campagna elettorale, l’allora aspirante presidente aveva affermato chiaramente che il suo obiettivo era la rifondazione del sistema politico tunisino attraverso un nuovo testo costituzionale. Il piano è entrato in azione il 25 luglio del 2021. Da allora, nel giro di un anno il capo dello Stato ha congelato e poi sciolto il Parlamento votato nel 2019, destituito il governo in carica, epurato la magistratura e sospeso la Costituzione promulgata dopo la rivoluzione del 2011, sostituendola con un testo che gli attribuisce ampi poteri. La nuova Carta, approvata il 25 luglio di quest’anno da un referendum al quale, complice il boicottaggio dell’opposizione, ha partecipato meno di un terzo degli elettori tunisini, riflette a tal punto la visione personale di Saied da essere stata sconfessata anche dai membri della commissione consultiva incaricata di prepararne una bozza, risultata poi piuttosto diversa dal documento finale. Il presidente di quest’organo, Sadek Beleid, ha anche dichiarato a Le Monde che la nuova Costituzione tende alla «tirannizzazione del potere», mentre il regime presidenzialista che istituisce apre la strada a «una sorta di dittatura senza fine a vantaggio del presidente attuale».

 

In effetti, la nuova Legge fondamentale delinea un nuovo assetto istituzionale in cui il potere legislativo, quello esecutivo e quello giudiziario diventano semplici “funzioni” di un sistema dominato dal capo dello Stato. Quest’ultimo non è responsabile politicamente, può sciogliere il parlamento e destituire o censurare il governo, ha il diritto di indire referendum legislativi o addirittura costituzionali, scavalcando il potere legislativo, e di dichiarare lo stato di emergenza per un periodo indeterminato. Il parlamento diventa bicamerale: al Consiglio dei Rappresentati del popolo si aggiunge infatti un Consiglio nazionale delle province e delle regioni, in linea con l’idea di Saied di dar voce alle comunità locali. I magistrati, che sono esplicitamente esclusi dal diritto di sciopero, vengono nominati dal presidente su proposta del Consiglio Superiore della Magistratura.

 

Importanti novità riguardano il rapporto tra Stato e religione. Già prima della pubblicazione del progetto di Costituzione, Saied aveva fatto sapere che, a differenza della Carta del 2014, il nuovo testo non avrebbe contenuto riferimenti all’Islam come religione di Stato. Così è avvenuto, ma in direzione opposta a quella della laicità. L’articolo 5 stabilisce infatti che «la Tunisia è parte della umma islamica» e che «solo allo Stato spetta di operare, sotto l’egida del sistema democratico, per l’applicazione degli obiettivi dell’Islam: la preservazione della vita, dell’onore, della religione e della libertà». Tale formulazione fa riferimento a una dottrina medievale, rilanciata con forza in epoca moderna, secondo la quale la legge islamica è ultimamente guidata da cinque finalità: la preservazione della religione, della vita, dell’intelletto, del lignaggio e della proprietà. A queste, il giurista tunisino Tahar bin ‘Ashur (1879-1973), al quale evidentemente si rifà Saied, aggiunse la libertà. È difficile stabilire a priori le implicazioni concrete di tale riferimento. Gli obiettivi della sharī‘a sono infatti invocati da diversi attori, dai fondamentalisti ai modernisti, che li declinano a seconda della loro visione dell’Islam. È però significativo il ruolo che Saied assegna allo Stato quale unico interprete e gestore autorizzato della religione, secondo una visione verticistica della politica che ingloba anche la fede e il culto. In questo senso, l’avversione del presidente per il principio della religione di Stato, fondata sull’idea che un “ente come lo Stato non può avere una religione”, si dimostra puramente formale, visto che nei fatti il vincolo tra Stato e Islam esce rafforzato dal nuovo testo costituzionale.

 

Emblematico dello spirito con cui è stata redatta la nuova Costituzione è il preambolo, a tutti gli effetti una requisitoria del presidente contro il sistema emerso dalla rivoluzione del 2011 e un’esposizione sintetica delle sue convinzioni. Saied vi denuncia i «falsi slogan», la «corruzione» e la «depredazione delle ricchezze» che hanno fatto seguito alla sollevazione del 14 dicembre 2010, e afferma che la nuova Carta punta a instaurare un «ordine fondato non soltanto sullo Stato di diritto, ma sulla società di diritto», un leitmotiv della sua retorica. Il tutto è introdotto dall’altisonante formula «Noi, il popolo tunisino, detentore della sovranità», che contrasta clamorosamente con il percorso seguito dal capo dello Stato per instaurare la “nuova repubblica” tunisina. La Costituzione del 2014, aspramente criticata dal presidente come strumento di affermazione del potere di una classe dirigente predatrice, era stata il risultato di una lunga e articolata discussione in seno all’Assemblea Costituente, seguita dalla nazione in diretta televisiva e accompagnata da un intenso dibattito mediatico, cui peraltro aveva partecipato lo stesso Saied ottenendovi una certa visibilità. La Costituzione del 2022, che dichiara di voler restituire al popolo tunisino i suoi diritti legittimi, è stata redatta a porte chiuse in meno di un mese dopo una consultazione elettronica pressoché disertata dai cittadini, ed è stata approvata da una minoranza della popolazione. Al netto delle imprecisioni, se non delle irregolarità, commesse dall’organo incaricato di organizzare e supervisionare la procedura referendaria, si tratta all’incirca dello stesso numero di persone che avevano espresso la loro preferenza per Saied (2.700.000) al secondo turno delle elezioni del 2019. Un numero sufficiente a eleggere un presidente, non a rifondare un sistema politico. Come ha scritto la ricercatrice tunisina Malek Lakhal, ci troviamo di fronte a una chiaro esempio di “populismo dall’alto” in cui i riferimenti retorici al popolo vanno di pari passo con una gestione fortemente autoritaria del potere.

 

Ma oltre che per le disposizioni che contiene, la nuova Costituzione colpisce anche per ciò che non contiene. La vittoria elettorale di Saied e la sua popolarità devono infatti molto al disagio socioeconomico di ampi settori della popolazione, ampiamente trascurato dal sistema emerso dopo la rivoluzione del 2011. In Tunisia, la democrazia è coincisa con «un oblio organizzato della questione sociale», per usare le parole di Béatrice Hibou e Hamza Meddeb, sostituita nel dibattito pubblico da infinite discussioni sull’identità del Paese e sul suo rapporto con la religione. Saied, che si rivolge agli scontenti della transizione democratica, non sembra aver soluzioni più credibili della classe politica alla quale intende sostituirsi. Nel preambolo, la nuova Costituzione afferma che «la vera democrazia si realizza solo se accompagnata da una democrazia economico-sociale». Dopodiché la parola economia e i suoi derivati scompaiono dal testo, né vi si trovano termini come agricoltura, industria, impresa, artigianato. Tale assenza non può essere imputata soltanto al carattere non-programmatico della Carta costituzionale. Analizzando più in generale il linguaggio politico di Saied si nota infatti un significativo disinteresse per la dimensione economico-sociale. Un’indagine realizzata da Inkyfada, un’innovativa piattaforma giornalistica tunisina, su 167 discorsi pronunciati dal presidente della Repubblica dal luglio 2021 al 30 giugno 2022 ha messo in luce che le parole più utilizzate da Saied sono Stato, Legge, Costituzione, Dio e naturalmente Popolo. Il termine riforma è pressoché assente dal suo vocabolario. Il presidente si riferisce spesso al denaro, ma per lo più per indicare le risorse sottratte al “popolo” da una classe dirigente rapace. Nelle occasioni in cui si è rivolto a imprenditori, commercianti, associazioni di categoria e ministri che si occupano dell’economia o delle infrastrutture tunisine, Saied ha invitato a tenere bassi i prezzi, a non speculare, a garantire la puntualità degli aerei, a far funzionare le cose, ma non si è mai espresso sulle condizioni necessarie a raggiungere questi obiettivi o più in generale sui cambiamenti che potrebbero creare un sistema economico più giusto ed efficiente. Il presidente-giurista è infatti dominato dall’idea che la chiave per il riscatto della Tunisia sia la rifondazione costituzionale del suo ordine politico. Ma nella filigrana del suo atteggiamento s’intravede anche la figura, attinta all’immaginario arabo-islamico, del despota giusto.

 

Una chimera, come ha notato in un’intervista il politologo tunisino Hamadi Redissi, che non risolverà i problemi del Paese.

 

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