Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:41:14

Ho appena trascorso dieci giorni in Afghanistan nel quadro della preparazione di un’opera su padre Serge de Beaurecueil (1917-2005), domenicano, ex membro dell’Istituto Domenicano di Studi Orientali del Cairo (IDEO) e specialista di Ansâri (1006-1089), il grande mistico di Herat di cui i musulmani di lingua persiana conoscono ancora a memoria le Grida del cuore (Munâjât). Viaggio un po’ complicato a causa dell’insicurezza del Paese, ma comunque possibile con qualche precauzione. Serge de Beaurecueil ha trascorso vent’anni a Kabul, dal 1963 al 1983, e ha lasciato l’Afghanistan solo perché costretto dai sovietici che lo consideravano una spia. Oltre al lavoro scientifico all’Università di Kabul e poi al liceo franco-afgano Esteqlal, de Beaurecueil ha accolto a casa sua decine di bambini diseredati (orfani, portatori di handicap, bambini di strada), dei quali ha raccontato la storia nella sua bella opera Mes enfants de Kaboul.

È in particolare grazie a loro che è stato possibile un soggiorno nel Paese: essi infatti hanno creato una ONG, Afghanistan demain, che prosegue l’opera del Padre nell’accoglienza dei bambini di strada (http://www.afghanistan-demain.org). Dire che l’Afganistan è un paese complicato è riduttivo: una geografia molto irregolare con quell’alta barriera montagnosa che lo attraversa da Ovest a Est, l’Hindu Kush, l’ha reso sempre molto difficile da conquistare. Ne sanno qualcosa gli inglesi, poi i russi e ora la Forza internazionale d’assistenza e sicurezza (ISAF). La complessità della geografia umana è pari alla diversità di montagne e vallate: un’etnia dominante, certo, i pashtun, presenti soprattutto a Sud, a cavallo della frontiera con il Pakistan (ciò che spiega alcune difficoltà attuali), ma la lingua dominante è il persiano, lingua di altre etnie: gli hazara e i tajiki. Senza dimenticare gli uzbeki, i turkmeni e i nuristani. Come fare di questo mosaico di etnie uno Stato-nazione? In realtà, nessuno lo sa. Ho capito in loco che la frontiera Mortimer Durand negoziata nel 1893 dagli inglesi per assicurare all’Impero britannico delle frontiere sicure contro l’espansionismo russo spiega in parte l’attuale impossibilità di stabilizzare la frontiera sud del Paese, dato che di fatto taglia in due il Paese pashtun. Da qui l’impossibilità di gestire le famose “zone tribali” e la complessità dei rapporti con il vicino Pakistan. Kabul non è lontana da Peshawar. Il visitatore è colpito dalla povertà del Paese (PIL inferiore a 1000 $ per abitante) di un Paese incastrato, devastato da 30 anni di guerra e da un’instabilità politica endemica. Situata a 1800 metri s.l.m. tra montagne abbastanza alte, Kabul è una città bassa nella quale spiccano rari edifici moderni. Bisogna dire che la riconquista di Kabul da parte dei mujahidin di Massoud nel 1992 ha lasciato una città distrutta per il 60%. Come a Bagdad, numerosi check-point e imponenti protezioni in cemento degli edifici pubblici rendono la circolazione molto problematica. Diplomatici e autorità vivono murati ed escono solo accompagnati dalla scorta dato che i rapimenti non sono rari.

Il frequente sorvolo degli elicotteri Chinook ricorda che questo paese è in guerra. Come tutti sanno, gli osservatori sono sempre più perplessi sulla capacità dell’ISAF (International Security Assistance Force) di riprendere il controllo del Paese. Non si esce più da Kabul, neppure per andare al matrimonio di un cugino nel vicino Logar. L’economia del papavero da oppio al contrario è fiorente e alimenta il mercato delle armi. Ciò nonostante, l’aereo mi ha permesso di recarmi a Herat, splendida città nel Nord-Ovest dell’Afghanistan. Fondata da Alessandro Magno, la città era una delle tappe della Via della seta e una delle grandi città del Khorasan storico. Questo splendore culturale passato è ancora percepibile nei monumenti: la cittadella di Ikhtiyâr al-Dîn, un enorme complesso architettonico costruito verso la fine del XIII secolo, distrutto da Tamerlano un secolo dopo e ricostruito nel XV secolo; i minareti d’angolo della madrasa Ni’matiye, scuola superiore di teologia di epoca timuride (XV secolo): 75 m di altezza, in mattoni di terra cotta; la tomba del grande filosofo e teologo Fakhr al-Dîn al-Râzî (1150-1210) e quella di Nur al-Dîn al-Rahmân Jâmî, il grande poeta persiano del XV secolo.

Che contrasto tra il passato brillante e raffinato e lo stato di povertà e di guerra nel quale è caduto oggi il Paese. Il vero obiettivo del mio viaggio era recarmi alla tomba di Ansâri, situata a Gazergah, ad alcuni chilometri da Herat. Il luogo mi ricorda il nord dell’Iraq, i primi contrafforti della montagna curda. L’imponente mausoleo, costruito nel 1425 da un architetto di Shiraz, domina un grande cimitero in cui molte persone pie o celebri si fanno seppellire. Steli di marmo bianco, alberi pieni di uccelli che cantano: in questo luogo regna una pace eccezionale. Uomini e donne con bambini si ritrovano ai piedi della tomba di Ansâri per chiedere la sua protezione.

Più in basso c’è un grande parco (takht-e safar, il trono del viaggio) dell’epoca timuride che permette ai pellegrini di riposare. Ogni giovedì sera ha luogo una serata di dhikr. Qui tutto ispira pace e tornano alla mente i testi di Ansâri: «Mio Dio, una brezza ha soffiato dal giardino dell’amore e abbiamo offerto il cuore in sacrificio. Abbiamo scoperto un profumo proveniente dal tesoro dell’amore e ci siamo proclamati re fino all’estremità del mondo… Un solo sguardo Tu hai gettato su di noi e in questo unico sguardo noi siamo arsi, siamo stati disciolti. Guardaci ancora, cura l’ustionato e salva lo smarrito! Non si dice forse che è col vino che si cura l’ebbro?» (Munâjât n° 7); «Mio Dio! Solo agisce chi agisce insieme a te! Solo possiede un amico chi possiede un amico come te! Colui che Ti possiede in questo mondo e nell’altro, come potrà mai abbandonarTi? Ciò che sorprende è che colui che Ti possiede più di ogni altro si lamenta! Colui che nulla ha trovato piange per non aver trovato nulla; ma una volta che Ti ha trovato, perché si lamenta?» (Munâjât n° 8). Il mullah addetto al mausoleo ci accoglie con calore. Siamo al cospetto di un vero uomo spirituale, gentile e accogliente. Sono confortanti anche le visite ai gesuiti del Jesuit Refugee Service e ad Alberto Cairo, un italiano fuori dal comune che da oltre 20 anni lavora al centro ortopedico della Croce Rossa internazionale per dotare di protesi gli innumerevoli mutilati di questo paese. Nelle situazioni peggiori vi sono sempre uomini e donne che impediscono all’umanità di disperare.