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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:52:15

Ci sono delle città nel mondo, dove un nativo sensibile alla storia culturale può impressionare facilmente gli ospiti parlando un po’ di quella realtà complessa e sorprendente della quale raccontano le pietre dei monumenti d’arte, i luoghi densi di memoria di un passato crudele e glorioso; una realtà che si rivela nei piccoli dettagli dei gesti umani e della cucina locale. Facendo un giro con amici stranieri qui intorno alla piccola residenza primaziale di Budapest, restituita alla Chiesa soltanto nel 1991 in occasione della prima visita di Giovanni Paolo II in Ungheria, non possiamo non richiamare l’attenzione alla bella chiesa “di Mattia”, originalmente gotica e che per un intermezzo di quasi 150 anni di dominazione e presenza turca ha servito come moschea, essendo stata poi ricostruita inizialmente secondo il gusto barocco, più tardi rinnovata nello stile neogotico. Seguendo le piccole strade del quartiere del castello diciamo agli amici con orgoglio: «Vedete le facciate barocche e neoclassiche delle palazzine – dentro si sono conservate le nicchie gotiche. Qualche elemento dell’identità è riuscito a sopravvivere». Quanto è commovente visitare o vedere in qualche angolo le rovine o i pezzi delle statue o dei sarcofagi che provengono dall’epoca romana, dalla metropoli dell’antica Pannonia, una città che si chiamava Aquincum e che si trova in mezzo alle case della città della Budapest attuale o sotto i nostri piedi. Quell’Aquincum che porta nel nome le tracce di un nome ancor più antico della stessa città, un nome celtico, che ricorda pure le acque termali che alimentano i bagni della città, utilizzati anche e per una certa parte costruiti dai turchi. Aquincum, che ci ha lasciato come eredità dell’antica Roma la cultura del vino, proprio qui intorno a questa città. Budapest, capitale composta da tre città precedenti, giuridicamente nata soltanto nella seconda metà dell’Ottocento, quando la nazione ungherese insorta e poi oppressa si è riconciliata con la corte di Vienna, facendo nascere la doppia monarchia asburgica, esempio eterno di convivenza creatrice e di contrasti irrisolubili fra nazioni ed etnie, non soltanto “carcere dei popoli”, come venne poi qualificata dopo la fine della prima guerra mondiale, ma anche malgrado tutto oggetto di tante nostalgie in quasi ogni nazione successivamente costituita, soprattutto negli anni del comunismo, quando i nonni parlavano ancora della pace profonda e di episodi divertenti della lunga epoca di Francesco Giuseppe. Passeggiate nella città di Buda, i cui statuti cittadini medievali sono tra gli esempi più belli e classici di questo genere di diritto locale, redatti in puro tedesco, lingua della città di allora. Guardate il Danubio dal muro di Buda, dal punto dove sta il monumento in omaggio al principe Eugenio di Savoia, venerato come liberatore della città dai turchi, mentre anche l’ultimo pascia di Buda, Abdurrahman, è commemorato da un altro monumento in un diverso punto delle stesse mure della città come nobile e valoroso militare che ha combattuto con coraggio fino all’ultimo respiro per difendere quello che doveva difendere. Guardando dunque il Danubio non si può non vedere il monte di San Gerardo con la bella statua di questo santo monaco e poi vescovo, proveniente da Venezia, che dopo la morte del primo re cristiano, Santo Stefano, fu gettato dal monte nel Danubio dai pagani ungheresi insorti che volevano uccidere tutti i preti e gli stranieri. San Gerardo martire, santo patrono di Budapest. E sull’altra riva del Danubio un punto grigio, dove sono stati fucilati nell’acqua negli ultimi giorni del triste anno 1944 tanti ungheresi ebrei, insieme con la suora cattolica Sára Salkaházi che ha cercato di nasconderli nel proprio convento. È sulla cima del monte di San Gerardo, uno dei simboli della città, la statua colossale della Libertà, progettata nel 1944 come monumento funebre del figlio dell’allora capo di stato, il reggente Miklós Horthy, figlio infelice, forse ucciso dai tedeschi, ufficialmente alleati, ma ormai diffidenti; progetto di monumento rimasto ancora in modesta misura nello studio dello scultore, trovato lì dai sovietici che hanno creduto volentieri che si trattasse di una statua per celebrare i liberatori; fu posta così nel posto più visibile della città, circondata da diverse altre statue collaterali che attorniavano il colosso, vestite da militari sovietici, per rendere omaggio ai liberatori, i quali ritiratisi dal paese dopo ben quarantacinque anni hanno lasciato dietro di sé un certo vuoto che è diventato anche visibile, quando le statue collaterali del monumento sono state rimosse, lasciando sola la statua centrale che cominciò a significare così la Libertà come tale, come pensiero astratto e altissimo ideale. Sulla riva sinistra del Danubio invece inizia il centro commerciale della città di Pest che oggi fa parte della capitale con la Basilica di Santo Stefano, concattedrale della nostra arcidiocesi, vicino alla bella chiesa principale luterana e alla sinagoga più grande di tutta l’Europa, accanto alla quale è nato Teodor Herzl, padre del movimento sionista. Ma tornando al fiume, che fu del resto frontiera dell’Impero Romano e anche di quello Carolingio, è vicino all’acqua che stanno le più belle chiese ortodosse barocche, ricordi dell’intenso commercio navale, gestito da mercanti serbi e greci lungo il Danubio fino a Vienna. E tutti questi livelli storici e culturali, per nominarne soltanto i più importanti, hanno le loro tracce profonde nella gente, anzi in chiunque abbia le radici qui nel Bacino dei Carpazi. Identità! Oggetto ricercatissimo sin dal crollo del Muro di Berlino, perché identità e tradizione danno comunque qualche indicazione morale, qualche ispirazione per la cristallizzazione di contenuti e di regole di una società organica che dovrebbe ritornare ed occupare il vuoto lasciato libero dopo lo sfascio delle strutture autoritarie del partito e dello Stato. Ricchezza che scaturisce dalla profondità delle anime umane, ma che ha portato e riportato pericoli di contrasti e confronti anche crudeli tra diversi nazionalismi e diverse etnie. Storie come questa nostra possono raccontarsi di ogni città o regione europea da Istanbul a Venezia, a Lisbona o ad Amburgo. Integrazione? O piuttosto assimilazione – spontanea o forzata – di una minoranza o di diverse minoranze? Di gruppi etnici rimasti in un paese come minoranze, ma che sentono quella terra come loro patria da sempre, in una condizione psicologica radicalmente diversa da quella degli immigranti. La multiculturalità sembra essere un fatto, ma se ne facciamo un ideale possiamo anche finire nell’estremo formalismo che prescindendo da ogni contenuto può apparire come soggettivismo sociale senza arrivare mai all’identificazione di valori comuni, almeno di quel minimo che rende sopportabile la vita in una società. È possibile ancora o di nuovo arrivare a un modesto denominatore comune in base a qualche forma di “diritto naturale”, riconoscibile per l’intelletto umano, come hanno creduto i protagonisti dell’illuminismo ed i padri delle costituzioni più antiche? Chi sarà l’arbitro in questo processo che deve fissare le regole del gioco? In paesi piccoli sicuramente non lo sarà né il potere pubblico né l’intera società del paese, ma piuttosto qualche famoso “contesto internazionale” che questi popoli sono abituati a osservare da mille anni con la massima sensibilità, perché dai giochi di questo contesto dipendono quelle sfumature che significano la scomparsa o la sopravvivenza. Eppure, con la nostra fede cristiana possiamo avere una coraggiosa fiducia nella capacità conoscitiva dell’uomo, della sana ragione, ragione che, secondo la Fides et Ratio di Giovanni Paolo II, se illuminata dalla fede riesce a darci l’ottimismo, perché il Creatore ci ha voluti provvisti di ogni capacità necessaria per la nostra vita, non solo individuale ma anche comunitaria.

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