Per capire come e da chi viene letto e compreso il testo sacro dei musulmani non si può prescindere dall’evoluzione dei mezzi di comunicazione

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:59:32

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«Quando ero alle elementari», scrive sul suo blog il musulmano tedesco Hakan Turan, «la mia cerchia di amici comprendeva ogni tipo di nazionalità: tedeschi, italiani, spagnoli, portoghesi – tutti compagni di classe. […] I miei genitori apprezzavano i buoni rapporti che avevo con loro e non avrei mai pensato che qualcuno potesse invece disapprovarli, fino al giorno in cui ho incontrato un vecchio turco, che si riconosceva nell’Islam politico all’epoca in ascesa in Turchia, e le sue parole mi hanno gelato il sangue: “Non puoi essere amico di queste persone, perché il Corano dice: Non prendete come amici gli ebrei e i cristiani, sono amici gli uni degli altri” (Cor. 5,51)».

 

Lo stesso versetto coranico che ha sconvolto così tanto Turan nella Germania degli anni ’80 ha provocato il grave scandalo che ha dominato le elezioni per scegliere il governatore di Jakarta, in Indonesia, nel 2017, e che potrebbe persino averne determinato l’esito, con la differenza che in Indonesia la battaglia politica era incentrata sulla seguente traduzione: «Non prendete gli ebrei e i cristiani come leader». Così come l’anziano conoscente turco di Turan non aveva dubbi sul fatto che il Corano proibisca ai musulmani di avere amici non musulmani, molti musulmani indonesiani non mettono in discussione l’idea che il Corano proibisca loro di eleggere dei non-musulmani in posizioni di leadership politica.

 

Entrambe le interpretazioni hanno dei precedenti nella tradizione dell’esegesi coranica, anche se in particolare la questione della leadership non musulmana non è mai stata una preoccupazione centrale degli esegeti musulmani prima delle lotte anticoloniali del XX secolo. Tuttavia, la tradizione esegetica non è in grado di fornire indicazioni riguardo a cosa dovrebbe realmente significare Corano 5,51 per i credenti di oggi. Tantomeno si possono ridurre i dibattiti contemporanei sull’applicazione del versetto a una battaglia sull’autorità degli antichi esegeti. Lungi dall’essere una prerogativa degli esperti religiosi, l’interpretazione del Corano è oggi negoziata nelle moschee e su YouTube, nei blog e nei forum digitali, sui social media e nelle scuole. I versetti coranici sono impiegati per mobilitare i credenti e per controllarli, ma sono anche usati per legittimare un messaggio di uguaglianza e liberazione. E tutto ciò avviene in decine di lingue, con tutti i problemi di traduzione che ne conseguono. Succede in Germania, dove i musulmani sono una minoranza religiosa, e in Indonesia, dove la grande maggioranza della popolazione è musulmana. I dibattiti odierni sul ruolo del Corano sono inseparabili dagli Stati nazionali, che rappresentano il contesto istituzionale, politico, educativo e persino linguistico in cui il significato del Corano viene negoziato.

 

Il Corano come bussola: dal fondamentalismo al modernismo

 

Potrebbe sembrare ovvio che il significato del Corano sia al centro di innumerevoli dibattiti sociali e politici nelle società musulmane odierne: si tratta infatti della sacra scrittura dell’Islam, che i musulmani generalmente considerano rivelata direttamente da Dio in ogni sua parola. Ma, se la recitazione del Corano, soprattutto nella preghiera, è sempre stato un aspetto centrale nella pratica religiosa musulmana, la convinzione che tutti i credenti debbano considerare il messaggio del Corano il loro principale riferimento, non solo in materia di fede ma anche in termini di etica e di organizzazione sociale, non è stata promossa prima della fine del XIX secolo. Solo da allora un numero crescente di esperti religiosi e di intellettuali ha sposato l’idea che i credenti debbano rivolgersi ai testi fondativi dell’Islam piuttosto che fare affidamento sull’autorità degli studiosi successivi e su una complessa tradizione che è cresciuta ed è evoluta nel corso di secoli. In alcuni casi, il motivo principale di questa richiesta è stato il desiderio di una modernizzazione all’europea; in altri casi, è stata l’idea che un ritorno alle radici della fede avrebbe purificato e rafforzato il mondo musulmano contro l’assalto dell’imperialismo; spesso i due motivi si sono sovrapposti.

 

Un effetto di lungo periodo dell’ascesa delle idee riformiste è stata la riconfigurazione della tradizione esegetica. Oggi, quando si entra in una libreria islamica al Cairo o a Yogyakarta e si chiede un commentario coranico valido e autorevole, ci sono molte probabilità che il venditore consigli la voluminosa opera dello studioso del XIV secolo Ibn Kathīr (m. 1373) prima di qualsiasi opera di uno studioso contemporaneo. Di primo acchito, l’enorme popolarità di Ibn Kathīr potrebbe dimostrare la resilienza della cultura premoderna, ma si tratta in realtà di un fenomeno tipicamente moderno, generato dai movimenti fondamentalisti di riforma che sono oggi comunemente chiamati salafiti. Essi considerano Ibn Kathīr e il suo maestro Ibn Taymiyya (1263-1328) come emblemi di un’ermeneutica radicale che fa esclusivo affidamento su tradizioni autentiche riguardanti il profeta, i suoi compagni e i suoi successori. Il commentario coranico di Ibn Kathīr è stato il primo a essere stampato in un formato moderno che lo rendesse accessibile al lettore laico; è stato tradotto in molte lingue e riprodotto in innumerevoli edizioni semplificate e ridotte che, dall’opera specialistica pensata per gli studiosi che era, lo hanno trasformato in un manuale.

 

I movimenti intellettuali emersi alla fine del XIX secolo hanno assunto anche altre traiettorie, ugualmente durature. Sono emerse nuove tendenze esegetiche i cui fautori intendevano leggere il Corano come un testo razionale e socialmente progressista, concentrandosi sui suoi “fini superiori” più che su specifici divieti e prescrizioni. Con cautela, essi hanno iniziato a mettere in discussione alcune istituzioni, come la poligamia, e i concetti che consideravano superstiziosi, come l’esistenza dei jinn. Soprattutto, essi miravano a fare del Corano un testo che ispirasse la riforma sociale e lo sviluppo umano. Queste idee, a loro volta, si sono declinate successivamente in differenti tipi di attivismo sociale, che vanno dall’islamismo, rappresentato per esempio dai Fratelli Musulmani e dalla Jama‘at-e Islami, ai diversi tipi di modernismo egalitario e liberale.

 

Questi e altri sviluppi sono parte di genealogie che conducono fino al campo contemporaneo dell’interpretazione musulmana del Corano. Ad accomunarle è un concetto probabilmente ereditato dal famoso riformista egiziano Muhammad ‘Abduh (m. 1905): l’idea che il Corano dovrebbe prima di tutto essere una guida (hidāya) per i musulmani. Dovrebbe fornire le norme etiche e l’orientamento sociale; dovrebbe ispirare i musulmani a studiare e a impegnarsi per il successo personale, a comportarsi moralmente, a ribellarsi contro i governanti ingiusti e a costruire comunità di buoni credenti. I messaggi che gli interpreti contemporanei del Corano considerano il cuore etico-sociale del testo sacro musulmano, nonostante la loro molteplicità e la loro contraddittorietà, riguardano principalmente il comportamento e l’azione, in misura di gran lunga maggiore di quanto avvenisse in passato.

 

L’evoluzione dei mezzi di comunicazione

 

Come mostra l’esempio dell’onnipresente esegeta del XIV secolo Ibn Kathīr, è impossibile oggi capire il campo dell’interpretazione musulmana del Corano senza prendere in considerazione l’evoluzione dei mezzi di comunicazione e l’enorme trasformazione causata dalla loro innovazione. Il commentario coranico di Ibn Kathīr non sarebbe potuto diventare una popolare opera di riferimento senza la diffusione della macchina tipografica. Le case editrici salafite in Egitto, India e Siria hanno fatto sforzi e investimenti enormi per impaginare, stampare e distribuire il suo lavoro. La macchina tipografica divenne uno spartiacque che determinò quali parti della tradizione esegetica dovessero sopravvivere nel XX secolo; quelle che rimasero in forma manoscritta avevano poche possibilità di essere lette, persino dagli studiosi. Allo stesso tempo, la diffusione del capitalismo a stampa ha permesso la divulgazione di nuovi discorsi esegetici a una velocità senza precedenti. A questo proposito, la rivista religiosa al-Manār, edita al Cairo, ha dettato la moda, inventando una forma di esegesi coranica rivolta ai suoi lettori e non agli studiosi: era serializzata, eclettica, faceva riferimenti espliciti agli eventi contemporanei e, a volte, cercava persino di essere divertente. Analogamente, la fusione tra la nuova conoscenza scientifica e l’esegesi coranica che divenne popolare nei primi decenni del XX secolo fu in gran parte alimentata dall’esistenza di periodici come al-Muqtataf, che divulgavano tale conoscenza. Per la prima volta, c’erano opere esegetiche che contenevano immagini oltre al testo.

 

Da allora la stampa è stata usata dai movimenti religiosi di massa, dai governi e dai loro oppositori come vettore di discorsi socio-esegetici. Ci sono stati persino interi commentari del Corano originariamente nati per una rivista, come quelli del membro della Fratellanza musulmana egiziana Sayyid Qutb (1906-1966), dell’intellettuale islamista indo-pakistano Abu al-Aʻla al-Mawdudi (1903–1979) e dello studioso indonesiano Abdul Malik Karim Amrullah (1908-1981), conosciuto come Hamka. I mass media hanno creato nuove comunità di lettori, a volte all’interno dello Stato nazionale e a volte a livello globale.

 

Le radio e le TV hanno prodotto un’ulteriore grande trasformazione del campo esegetico. Ancor più dei giornali, hanno promosso stili esegetici fondati sulla predicazione piuttosto che sullo studio specialistico o sul giornalismo. Commentari coranici come quello del famoso predicatore televisivo egiziano shaykh Shaʻrāwī combinano la spiegazione dei versetti coranici con esortazioni e digressioni su consigli sociali e morali, rivolgendosi alla propria audience con domande retoriche e una dose constante di umorismo. Essi enfatizzano con forza l’inimitabilità (iʻjāz) del Corano e hanno contribuito all’enorme popolarità che hanno oggi i discorsi su questo tema, specialmente nel prestigioso campo della scienza. L’argomento comune, riscontrabile in sermoni, siti web, pamphlet e video, è che il Corano contiene conoscenze che non erano disponibili nel VII secolo, cosa che prova la sua origine divina. Le interpretazioni audiovisive del Corano hanno, quindi, ulteriormente ampliato l’audience dell’esegesi coranica mediata, al di là di quelle classi colte che consumano riviste di carta stampata.

 

Internet ha invece reso possibile una democratizzazione senza precedenti non solo dell’accesso ai contenuti esegetici ma anche dei mezzi di pubblicazione e distribuzione, con effetti di vasta portata. I social media, in particolare, permettono la mobilitazione dei credenti, come è avvenuto nella controversia indonesiana sulla leadership politica dei non musulmani. Il web ha anche creato nuove forme di religiosità, come la condivisione quotidiana dei versetti coranici e l’uso di app del Corano che, disponibili in diverse lingue, uniscono le pratiche rituali allo sforzo per capire e applicare il significato del Testo.

 

A un altro livello, i media digitali hanno incoraggiato l’emergere di nuovi stili esegetici, modellati sulle piattaforme utilizzate. Social media, blog e vlog (video blog, NdR) portano alla creazione di contenuti personalizzati, che rappresentano prospettive, atteggiamenti e sentimenti individuali. Di conseguenza, sono sempre più usati per presentare approcci personali al Corano, fondati sulla socializzazione, le esperienze e la coscienza dell’esegeta. L’interpretazione di Hakan Turan di Cor. 5,51 ne costituisce un perfetto esempio.

 

Linguaggi, Stati-nazione, migrazioni e globalizzazione

 

L’avvento dei mass media, dalla carta stampata ai contenuti digitali, ha creato dei confini e al contempo li ha superati. Da un lato, i mass media sono stati di vitale importanza per la creazione di un senso di comunità e di identità nazionale all’interno dei confini di un determinato territorio tra persone che non si sono e non si sarebbero mai incontrare: solo attraverso i mass media è stata possibile la costruzione della nazione. Dall’altro lato, a partire dalla comparsa dei primi periodici islamici, gli editori e i lettori sono entrati a far parte di una comunità globale. Riviste stampate a Parigi erano distribuite in Siria e periodici pubblicati al Cairo erano letti con entusiasmo nel sud-est asiatico. Le migrazioni, la censura, gli esili, la struttura degli imperi e le reti di insegnamento religioso hanno tutti contribuito a tali sviluppi. Un fattore particolarmente importante è stato, e continua a essere, la lingua.

 

L’ascesa degli Stati-nazione nel XX secolo è stata in molti casi intimamente connessa con la diffusione delle lingue nazionali nei media e nelle istituzioni educative. È così potuto prosperare un nuovo tipo di traduzione del Corano, plasmata sul modello della traduzione della Bibbia. Anche se inizialmente contestate dagli studiosi tradizionali e da alcuni intellettuali come un complotto per sminuire l’importanza del Corano arabo e della tradizione del sapere islamico, le traduzioni del Corano sono state molto richieste perlomeno dall’inizio del XX secolo in avanti. Esse erano indispensabili per il crescente numero di musulmani istruiti che erano stati formati in scuole moderne e non avevano alcuna conoscenza dell’arabo, ma volevano essere coinvolti nei discorsi sul Corano. Erano anche uno strumento usato dai governi per promuovere lo sviluppo delle lingue nazionali, come nel caso della Turchia e dell’Indonesia; e certamente erano un prerequisito per le attività missionarie tra i non musulmani.

 

Tutto ciò non ha comunque portato a una completa nazionalizzazione del pensiero esegetico, perché lo scambio e l’interazione è reso possibile da lingue globali che sono utilizzate e comprese oltre i confini nazionali. Per i musulmani, si tratta prima di tutto dell’arabo, una lingua che gli esperti religiosi musulmani di tutto il mondo leggono e capiscono e che ha un particolare prestigio religioso. Di conseguenza, i commentari coranici in arabo hanno molte più possibilità di essere tradotti in turco, urdu o indonesiano piuttosto che il contrario.

 

La situazione è complicata dal prestigio e dall’importanza crescenti delle lingue globali imperiali come il francese, il russo e soprattutto l’inglese, che oggi svolge il ruolo di lingua franca ben oltre i territori che facevano parte dell’Impero britannico. Molti musulmani scrivono e insegnano in inglese in università occidentali e le opere di importanti esegeti come Fazlur Rahman (1929-1982) e Amina Wadud (n. 1952) sono tradotte dall’inglese all’arabo, un onore che di fatto non viene mai concesso alle loro controparti indonesiane o turche. Da un punto di vista dogmatico, l’inglese può non avere alcun particolare prestigio religioso, ma è certamente diventato una lingua importante dell’Islam. In quanto tale, è anche strumento di dibattiti sul Corano e di scontri sulla sua corretta interpretazione.

 

La diversità musulmana

 

L’Islam non è un fenomeno monolitico e, in una certa misura, le sue differenze interne influenzano l’interpretazione del Corano. Sarebbe fuorviante aspettarsi che l’appartenenza confessionale di un esegeta emerga sempre e comunque, qualunque sia l’argomento trattato. Molti problemi esegetici, specialmente in quei campi oggi particolarmente conflittuali, non costituiscono motivo di divisioni confessionali significative. La posizione di una persona verso l’ammissibilità della poligamia non dipende dalla sua adesione allo sciismo o al sufismo, ma dal fatto che essa abbia una visione egualitaria o gerarchica dei paradigmi di genere del Corano.

 

Tuttavia, ci sono versetti paradigmatici che riguardano divisioni dogmatiche. In questo caso è quasi impossibile per un esegeta ignorare le proprie posizioni confessionali. Ne è un esempio Cor. 3,55, che riguarda la morte e l’ascensione di Gesù. Il movimento Ahmadiyya ha un’interpretazione di questi argomenti che è profondamente differente da quella degli altri rami dell’Islam. Mentre la maggior parte dei musulmani crede che Dio abbia salvato Gesù dalla morte in croce e lo abbia elevato corporalmente in cielo, gli ahmadi sostengono che egli sia svenuto sulla croce, sia stato considerato morto e abbia continuato a vivere per poi emigrare in India. È impossibile per un membro degli Ahmadiyya commentare questo versetto senza difendere la controversa posizione del suo movimento sulla questione, cosa che fanno anche molti esegeti non ahmadi. Nonostante il movimento Ahmadiyya sia relativamente piccolo e sia considerato eretico da molti musulmani sunniti e sciiti tradizionali, esso ha tuttavia una considerevole presenza nei dibattiti esegetici a causa dei suoi precoci e intensi sforzi nella traduzione del Corano e nella diffusione del suo messaggio.

 

Anche quando non sono in gioco questi marcatori d’identità, le differenze nell’appartenenza religiosa e confessionale contano, dal momento che ogni comunità di musulmani ha le proprie autorità. Le opinioni e le tradizioni esegetiche su cui generalmente si esse si fondano distinguono un esegeta sunnita tradizionale da uno sufi o sciita, anche se le loro interpretazioni vere e proprie non sono molto diverse.

 

Inoltre, l’esegesi mistica del Corano ha sempre avuto una particolare, seppur non esclusiva, propensione per le interpretazioni allegoriche che, più che trattare il semplice significato “esteriore” (zāhir) di un versetto, ne cercano quello interiore (bātin). Essa potrebbe quindi interpretare i termini coranici come riferimenti allegorici a determinate tappe del cammino mistico o a esseri umani eccezionali che considerano “esseri perfetti”. Questa esegesi potrebbe persino attribuire un significato spirituale nascosto a singole lettere. È un tipo di esegesi coranica che è stato violentemente attaccato dai salafiti, ma è ancora fiorente tra i seguaci di maestri sufi popolari. La grande visibilità delle tendenze salafite tende a offuscare la persistente rilevanza degli approcci mistici all’Islam, particolarmente popolari tra certi gruppi sociali, come gli accademici delle classi urbane medio-alte, interessati a un percorso spirituale che enfatizza l’amore divino, piuttosto che gli obblighi e le prescrizioni. Per la maggior parte degli esegeti sufi, un versetto come Cor. 5,51 e le domande che solleva in merito alle relazioni sociali con i non-musulmani sono di scarso interesse perché riguardano le norme di comportamento sociale e non le dimensioni spirituali del credo. Tuttavia, il versetto è quanto mai rilevante nei dibattiti odierni sul pluralismo, la coesistenza interreligiosa e persino il jihad.

 

Scontri ermeneutici

 

Cor. 5,51 è un versetto che, proprio per la sua natura controversa, ci offre uno spaccato dell’attuale composizione del campo esegetico e dei presupposti ermeneutici delle diverse tendenze:

 

«Voi che credete, non prendete come awliyāʼ (amici/aiutanti/alleati/leader) gli ebrei e i cristiani!»

 

Come dovrebbe applicare questo versetto un musulmano contemporaneo? Qual è il significato di awliyāʼ? Qual è il tipo di relazione che il versetto considera riprovevole? Sono domande urgenti alle quali si trovano risposte molto diversificate, che rientrano all’interno di modelli piuttosto tipici. Sicuramente, la tipologia che segue non è del tutto esaustiva e nemmeno nella vita reale le categorie sono così nette come questa descrizione sembra suggerire. Al contrario c’è una notevole sovrapposizione. Ciononostante, da un punto di vista analitico è utile distinguere cinque grandi tendenze, ognuna delle quali ha una genealogia, un insieme di metodi e autorità propri.

 

La prima tendenza è rappresentata dagli esegeti che si definiscono ulema, in quanto studiosi che hanno un legame di qualche tipo con la tradizione dell’insegnamento islamico attraverso il loro background educativo e istituzionale. Essi possono attingere a un’ampia e diversificata tradizione esegetica, che offre una varietà di possibili interpretazioni possibili di Cor. 5,51. L’analisi filologica propone interpretazioni che mettono in guardia da ogni tipo di vicinanza tra musulmani e non-musulmani, ma ci sono anche tradizioni che collocano il versetto in un contesto politico preciso, in particolare quello del secondo califfo ʻUmar b. al-Khattāb (m. 664), il quale sulla base di questo versetto ordinò al governatore di Bassora di licenziare il suo scriba cristiano nonostante le eccellenti capacità dell’uomo. Il grande vantaggio dell’esegesi coranica tradizionale è che non obbliga l’esegeta a fare una scelta tra queste opzioni. Dal punto di vista di molti musulmani contemporanei, però, questo è più un difetto che un vantaggio, perché essi sono alla ricerca di una guida che la tradizione esegetica non offre.

 

Molte altre tendenze ermeneutiche attualmente in voga sono più adatte a soddisfare la loro richiesta. I salafiti probabilmente leggeranno il versetto come un ordine letterale e senza tempo, rivolto a tutti i credenti, e interpreteranno il problematico termine awliyāʼ nel modo più categorico possibile: ogni tipo di associazione con i non credenti – che sia nella forma di un’amicizia, di un’alleanza politica o di ogni altro tipo di interazione sociale evitabile – dovrebbe essere un tabù. Generalmente essi considerano il versetto strettamente connesso con il concetto salafita-wahabita di al-walāʼ wa-l-barāʼ, in base al quale il musulmano deve mantenere una lealtà incrollabile alla comunità dei veri credenti e rescindere ogni legame con qualunque persona al di fuori della comunità, inclusi a volte i musulmani non salafiti.

 

Gli islamisti, ed è la terza tendenza, potrebbero promuovere una vasta gamma di interpretazioni a seconda della loro visione di società islamica e di Stato islamico. Tale visione è proprio ciò che queste interpretazioni hanno in comune: mettono l’accento sull’organizzazione socio-politica e collettiva, invece che sulla scelta personale e le relazioni individuali. Il versetto stesso si rivolge ai credenti al plurale ma non è chiaro se parla loro in quanto collettività o gruppo di individui. Gli islamisti, in netto contrasto con gli esegeti premoderni, sono molto più interessati alla prima opzione. Fortemente influenzati dal moderno Stato-nazione, si preoccupano dell’organizzazione di un sistema politico islamico. Di conseguenza, la questione della leadership politica non musulmana sarebbe un tipico argomento islamista.

 

La quarta tendenza è rappresentata dai modernisti, che propendono verso la tolleranza interreligiosa e il pluralismo. Tendono a promuovere una prospettiva egualitaria del messaggio coranico e vorrebbero pertanto minimizzare la rilevanza di Cor. 5,51 per i contesti contemporanei. A questo scopo, essi possono usare una serie di metodi diventati popolari nel XX secolo. Per esempio, potrebbero discutere la semantica di termini coranici come awliyāʼ e chiedersi cosa realmente significassero al tempo della rivelazione coranica. Potenzialmente, il termine potrebbe riferirsi a un tipo di relazione sociale che oggi non esiste più. Potrebbero anche leggere il versetto nel contesto delle circostanze storiche in cui è stato rivelato. In questo modo è possibile sostenere che il versetto parla solo di determinati ebrei e cristiani, invece che di tutti i seguaci di queste religioni, e che in realtà si tratta di un divieto di fraternizzare con fazioni ostili durante una guerra, piuttosto che un’affermazione sulla coesistenza religiosa. I modernisti sono anche particolarmente inclini a tracciare connessioni tematiche tra versetti coranici differenti. In questo caso, alcuni fanno riferimento all’esplicito permesso concesso agli uomini musulmani di sposare donne cristiane o ebree, un tipo di relazione che dovrebbe essere sicuramente classificato come intimo, dimostrando come questo genere di rapporti non possano essere categoricamente vietati. Il Corano, secondo molti modernisti, è un testo profondamente tollerante che critica sempre ed esclusivamente specifici gruppi di ebrei e cristiani che agiscono ingiustamente, soprattutto in un contesto di guerra, ma non invita mai a una completa ostilità nei confronti di queste religioni.

 

Una tendenza post-moderna piuttosto recente – la quinta della nostra tipologia – è più cauta rispetto a questo tipo di certezze su ciò che il Corano “significa realmente”. Come sappiamo, chiedono i post-modernisti, che gli esegeti si sono sbagliati per 1.400 anni fino a quando noi, improvvisamente, abbiamo trovato il significato corretto del Corano? Se sosteniamo che gli esegeti premoderni erano inconsciamente condizionati dal contesto della loro società patriarcale, costruita sulla nozione di supremazia musulmana, come sappiamo che non sono le nostre convinzioni egualitarie e liberali a farci leggere il Corano in un certo modo? Basandosi su queste considerazioni, i post-modernisti spesso propongono interpretazioni simili a quelle preferite dai modernisti, ma sono più reticenti nel pretendere che la loro lettura sia considerata, a qualsiasi livello, come una verità assoluta. Al contrario, sono pienamente consapevoli del modo in cui il loro personale retroterra sociale e biografico, le loro esperienze e la loro coscienza plasmano la loro comprensione del Corano. Hakan Turan, per esempio, propone un’interpretazione di Cor. 5,51 che permetterebbe a ogni musulmano di avere amici ebrei, cristiani e persino atei, affermando chiaramente che questo è il modo in cui lui vuole leggere il versetto perché, indipendentemente da quello che il Corano dice, lui ha sempre avuto e continuerà ad avere amici non musulmani.

 

Qualunque sia l’approccio che un individuo musulmano adotti verso Cor. 5,51, questo dipende dal suo particolare contesto sociale e politico. Se quell’individuo è parte di una maggioranza o di una minoranza musulmana; quale tipo di contatti ha con i non-musulmani; se vive in uno Stato religioso o secolare; a quale ramo dell’Islam appartiene; quali esperienze personali ha con gli argomenti toccati dal versetto; che grado di autorità riconosce alle tradizioni religiose: sono questi aspetti, insieme a molti altri, a plasmare la sua lettura del Corano. Inoltre, le sue scelte sono influenzate dall’accesso all’informazione e dalla capacità di esprimere le sue opinioni, che in alcuni casi è seriamente limitata da motivi che vanno dalla povertà e dall’emarginazione alla censura. L’interpretazione musulmana del Corano è una contesa tra idee che prende forma in spazi sociali concreti. Devono essere compresi entrambi per capire il modo in cui oggi i musulmani leggono e discutono il Corano.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis

 

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