Mons. Paolo Bizzeti, Vicario apostolico d’Anatolia, partecipa in questi giorni all’incontro di Bari “Mediterraneo Frontiera di Pace”. Gli abbiamo chiesto che cosa si aspetta alla luce della sua esperienza in Turchia

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:01:17

Intervista a cura di Michele Brignone

 

L’incontro che si apre a Bari s’intitola “Mediterraneo Frontiera di Pace”. Immagino che dal suo osservatorio nella Turchia meridionale Lei senta spirare forti i venti di guerra. Quanto è utopica e quanto è realistica l’idea della pace nel Mediterraneo?

 

Nel corso della storia il Mediterraneo è stato sia luogo di guerra che luogo di pace. Non bisogna dimenticare che il Vangelo si è diffuso proprio nel bacino del Mediterraneo grazie al fatto che la Pax Romana garantiva la possibilità di viaggiare e d’incontrarsi. Direi anzi che all’epoca c’erano molte meno barriere di oggi. Un Mediterraneo di pace non è un’utopia. Ho citato l’epoca romana, ma anche altri momenti della storia sono stati caratterizzati da relazioni feconde tra i vari Paesi che si affacciano su quest’area. Oggi non è così, oggi il Mediterraneo, come sappiamo è un luogo di morte, è un luogo in cui molti Paesi vivono il dramma della guerra. Il punto è che ad aver scatenato queste guerre non sono tanto i Paesi rivieraschi, ma le grandi potenze mondiali e regionali. È vero quello che dice Papa Francesco: il Medio Oriente è diventato il terreno di scontro di una sorta di terza guerra mondiale a pezzi. Prendiamo la Siria, dove ad agire sono gli Stati Uniti, la Russia e le grandi potenze regionali che si schierano con l’una o con l’altra parte a seconda dei momenti, mentre l’Europa ha interessi economici colossali, a partire dai suoi rapporti commerciali con la Turchia. Il punto è che in questo momento i protagonisti non sono i popoli locali, ma le grandi potenze.

 

Che cosa si aspetta da questo appuntamento? Che possibilità vede?

 

Penso sia una grande occasione d’incontro tra Vescovi di formazione e di cultura occidentale e Vescovi che portano l’esperienza della Chiesa del Medio Oriente, soprattutto alla luce del fatto che negli ultimi decenni è cresciuta la distanza tra questi due mondi. La chiusura all’accoglienza di profughi e rifugiati, molti dei quali cristiani, da parte di altri cristiani in Europa ha generato un senso di sfiducia. È importante potersi confrontare e chiedersi se noi, almeno come cristiani, siamo capaci di dare un segnale che la pace è possibile, che l’unità nella diversità è possibile, che le diverse tradizioni sono una ricchezza. Ci sono molti motivi per cui questo incontro è una bella provocazione. Mi aspetto si compia un passo deciso a livello di dialogo intra-ecclesiale e di ecumenismo e si facciano i conti con il divario tra popolazioni cristiane che vivono in condizioni durissime e altre che sembrano preoccupate soltanto di preservare il proprio benessere, i propri confini, i propri assetti. Mi aspetto anche che si possa avviare qualche iniziativa concreta, che emerga il segnale che è possibile fare delle cose insieme. A questo si aggiunge il tema del rapporto con le altre realtà religiose e quello del ruolo che i cristiani vogliono giocare politicamente, assumendo posizioni che portino alla pace anziché allo scontro, alla divisione, all’arroccamento.

 

Da che cosa devono essere caratterizzate a suo avviso queste posizioni?

 

Credo che dobbiamo avere il coraggio di essere un po’ più profetici, meno allineati sulle posizioni dell’Occidente e un po’ più cattolici, più attenti al bene più ampio; meno interessati a salvaguardare i nostri interessi economici e più pronti a sostenere con forza uno sviluppo e una possibilità di convivenza che riguarda tutti i popoli del Mediterraneo. Abbiamo bisogno di una Chiesa capace di stare nel contesto del Mediterraneo come il lievito nella pasta, non soltanto ricordando i principi, ma anche schierandosi concretamente a favore dei valori del Vangelo. E quando parlo di valori non intendo anzitutto i valori confessionali o quelli che vengono strumentalizzati per guadagnare i voti dei cattolici. Mi riferisco al rispetto per l’altro, all’accoglienza di chi è in situazioni disperate, alla promozione della pace anche se la pace ha un prezzo, perché può implicare per esempio la rinuncia a guadagni facili con il commercio delle armi.

 

Che cosa può ricevere la Sua Chiesa da un incontro come questo e che cosa invece può trasmettere alle altre Chiese?

 

La mia è una Chiesa che si sente un po’ abbandonata dalle Chiese sorelle. Ad esempio non abbiamo operatori pastorali a sufficienza. Questa caratteristica potrebbe accomunarci alle Chiese d’Europa, ma mentre in Europa c’è ancora un numero rilevante di sacerdoti, di religiosi e religiose, di operatori pastorali, noi ci troviamo nella situazione drammatica di persone che non possono partecipare alla Messa nemmeno a Natale e a Pasqua. Sarebbe necessario distribuire più equamente le forze in vista della custodia non soltanto del proprio piccolo gregge, ma delle greggi di tutti.

Cosa abbiamo da portare? L’esperienza di una Chiesa che pur essendo da tempo una piccola minoranza non ha perso la sua identità, è capace di difendere questa identità e di mantenere in modo pacifico la sua posizione, anche se questo le costa di essere penalizzata. Non c’è dubbio infatti che in Turchia, così come avviene in altri Paesi del Mediterraneo, i cristiani non hanno le stesse opportunità degli altri cittadini.

 

Chi sono i fedeli della Sua Chiesa?

 

In Turchia, e questo vale nello specifico anche per il Vicariato d’Anatolia, c’è un numero sparuto di cristiani locali, alcune migliaia; poi ci sono grandi numeri di rifugiati cristiani che vengono dalla Siria, dall’Iraq o da Paesi nei quali non c’è alcuna forma di libertà religiosa, come l’Iran, l’Afghanistan, il Pakistan. In questo caso si tratta spesso di persone che hanno incontrato il Vangelo negli anni recenti, che vogliono diventare cristiani o che hanno già ricevuto il Battesimo e vengono in Turchia perché qui c’è maggiore libertà religiosa.

È un contesto molto interessante non soltanto perché è costituito da una pluralità di Chiese cristiane e quindi da una ricchezza di tradizioni, ma anche per la presenza di rifugiati che ci pongono domande molto importanti sui bisogni primari di una comunità cristiana, sugli elementi essenziali che permettono a una comunità cristiana di esistere. Sono persone che, oltre ad aver perso tutto, si ritrovano emarginate e solo raramente possono contare su voci che difendano i loro interessi. Da questo punto di vista la Turchia è un po’ un crogiolo di problematiche che hanno un valore paradigmatico.

 

Oggi il fatto che i cristiani spariscano dal Medio Oriente è diventata una possibilità molto concreta. Cosa ne pensa?

 

Un Medio Oriente senza cristiani va inevitabilmente verso il fondamentalismo. È quindi nell’interesse di tutti che in Medio Oriente rimangano dei cristiani, perché essi costituiscono una presenza che storicamente è servita a evitare il monolitismo, anche se a sua volta l’Islam è un mondo assai variegato, molto più di quello che si pensa in genere in Europa. Se non si fa nulla, la gente scappa. Se non c’è possibilità di essere custoditi come greggi che hanno bisogno di strutture, di operatori, di celebrazioni, nel giro di due o tre generazioni quelli che rimarranno potrebbero scegliere di diventare musulmani per sopravvivere, come è già successo nella storia. Sono cose già viste che autorizzano a essere pessimisti. Tuttavia, la Chiesa del Medio Oriente è viva. Ci sono persone che si convertono al Cristianesimo, ci sono persone che sono pronte a perdere tutto per mantenere la propria fede. Credo quindi che il Cristianesimo sopravviverà, anche perché Dio è fedele alle Chiese che ha suscitato attraverso lo Spirito Santo.

 

Una questione che accomuna molte Chiese del Mediterraneo è la convivenza con l’Islam. Qual è la sua esperienza di questa convivenza?

 

A livello di popolazione, la convivenza è durata per secoli ed è possibile, anche se questo non ha escluso scontri e difficoltà. I problemi intervengono quando si usa la religione per altri scopi: potere, denaro, contrapposizione, orgoglio nazionale. Inoltre l’Islam è un mondo assai variegato e complesso, come del resto lo è anche il Cristianesimo, e occorre prima di tutto fare delle distinzioni: io non parlerei più di rapporti tra Cristianesimo e Islam, perché è un tema che rischia di essere astratto. Bisogna vedere in concreto di quale Islam si tratta, se quello sunnita, quello sciita, quello alevita, quello sufi, l’Islam che sposa un nazionalismo esasperato o l’Islam che viceversa è tollerante e aperto al dialogo e ha una vita religiosa seria, che su tanti punti è anche più seria del materialismo individualistico che domina in molte regioni dell’Occidente. Oggi dobbiamo andare un po’ al di là delle classificazioni troppo totalizzanti. Il dialogo vero si fa a livello della vita di base, come il Papa sta indicando da tempo, si fa compattandosi su valori comuni: la pace, il rispetto, la promozione di uno sviluppo sostenibile. Io noto che questi temi riscontrano un interesse ampio e trasversale, naturalmente tra tutti quelli che sono interessati a questi valori. Questa è l’epoca in cui, diversamente dal passato, bisogna riconoscersi intorno a progetti e stili di vita, intorno a valori fondamentali, più che intorno a sigle o a etichette.

 

Quale risonanza ha avuto nella Sua Chiesa la dichiarazione sulla Fratellanza umana, scritta e firmata da Papa Francesco e dal grande Imam di al-Azhar Ahmad al-Tayyeb?

 

Questo documento è stato criticato ed è stato apprezzato sia in area cattolica che in area musulmana. Di nuovo siamo di fronte a posizioni che sparigliano gli assetti tradizionali e le facili contrapposizioni. Io penso che il Papa abbia compiuto un gesto importante perché si è rifiutato di fare un discorso massimalista, cercando e trovando invece degli interlocutori tra chi rifiuta un uso distorto della religione e tra chi è d’accordo a riconoscere il primato della Fratellanza. Poi ognuno avrà avuto i suoi motivi e i suoi interessi, ma intanto si è posto un esempio di come è possibile intendersi su valori che sono il presupposto perché ognuno possa vivere una vita religiosa. Infatti, dove non c’è pace, non c’è pace né per i cristiani né per i musulmani. Dove c’è la persecuzione in nome del fondamentalismo, in questi anni sono stati i musulmani a pagare il prezzo più alto.

 

Nella sua esperienza in Turchia, c’è un’immagine o un fatto particolarmente esemplificativo della possibile convivenza interreligiosa a cui faceva riferimento prima?

 

Potrei citare vari episodi, in cui di fronte alla morte, di fronte alla sofferenza dei bambini, di fronte alla strumentalizzazione, è venuto facile, è venuto spontaneo dire “dobbiamo pregare insieme”, “dobbiamo sottrarci a prese di posizione che aumenterebbero le divisioni”. Questo accade quando ci si trova davanti ai problemi reali della vita, come è successo recentemente con il terremoto nell’Est della Turchia, dove si è verificato un pieno accordo, anche con le autorità governative, per soccorrere i poveri. Si tratta di occasioni concrete in cui la collaborazione è possibile, perché c’è qualcosa che alla fine preme a tutti: la vita! Oggi abbiamo il problema dell’ecologia e di un modello di sviluppo che si sta dimostrando insostenibile. In Turchia c’è stato un gruppo di persone, cristiani, musulmani, agnostici, che hanno preso sul serio la sfida lanciata dalla Laudato Si’, e hanno lanciato iniziative concrete capaci di aggregare oltre le appartenenze confessionali in nome dell’attenzione per la casa comune.

 

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis

 

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Tags