In un’intervista rilasciata subito dopo aver ottenuto il dottorato Honoris Causa all’Università di Friburgo, Padre Jean-Jacques Pérennès racconta la sua esperienza di incontro con il mondo islamico

Ultimo aggiornamento: 15/03/2024 10:46:54

Il 15 novembre scorso Padre Jean-Jacques Pérennès, frate domenicano, direttore della scuola biblica di Gerusalemme e membro del Comitato scientifico di Oasis, ha ricevuto il dottorato Honoris Causa presso l’università svizzera di Friburgo. Traduciamo volentieri l’intervista realizzata per questa occasione, in cui Pérennès ripercorre un percorso di vita appassionante, senza nascondere le asperità, come gli anni della terribile guerra civile in Algeria, ma sempre indicando una via possibile, al cui centro si staglia una parola: amicizia.

 

Ascolta qui l’originale francese:

«Tout le monde devrait avoir un ami musulman»

 

Innanzitutto, congratulazioni! È il suo primo dottorato honoris causa o ne ha già ricevuti?

Sì, è il primo honoris causa. Ho ottenuto due dottorati in gioventù, ma è stato tanto tempo fa. È una sorpresa che arriva a fine carriera.

 

È piovuta dal cielo o segue una logica?

È stato sorprendente, perché il mio è stato un percorso un po’ atipico. In generale si assegna un dottorato honoris causa a persone che hanno fatto un lungo percorso accademico molto omogeneo, che hanno insegnato e pubblicato molto. Non è il mio caso: ho passato 15 anni di vita universitaria da giovane, poi l’Ordine domenicano mi ha chiamato a missioni di ogni genere: ho trascorso 6 anni a Roma come responsabile delle fondazioni dell’Ordine, il che ha implicato che girassi per il mondo, poi 15 anni in Egitto come direttore dell’Istituto Domenicano di Studi Orientali, e ora sono da 6 anni a Gerusalemme, come direttore della Scuola Biblica.

Insomma, il mio è un po’ percorso a zig-zag. Chiaramente nel frattempo ho continuato a lavorare, pubblicare e scrivere libri, ma non considero il mio come un percorso omogeneo, come in generale succede a chi riceve questo titolo. Quando scorro la lista di dottori nominati a Friburgo, vedo molta gente eminente, e non sento di far parte di questa categoria. C’è una seconda categoria, quella “decorativa”: si va a cercare chi ha vinto il Nobel o un grande architetto, come ad esempio Mario Botta qualche anno fa. Neppure questo è il mio caso, insomma non so da dove sia venuta l’idea di assegnare il dottorato a me, ma l’ho accettato con semplicità e gratitudine.

 

Cambierà qualcosa? O è solo una riga in più sul CV?

Non cambierà niente. Mauriac, lo scrittore francese, diceva: «Le decorazioni non si chiedono, non si rifiutano, non si indossano». Credo che non debba essere un motivo di vanità, lo vedo come un segno di amicizia che mi ha fatto piacere.

 

Continuiamo a parlare di questo Suo percorso, che alcuni considererebbero erratico, anche se io personalmente lo definirei ricco. Lei è diventato sacerdote a quarant’anni, ho letto in una biografia: una vocazione relativamente tardiva, tutto sommato.

No, perché ero già religioso. Sono entrato nei domenicani a 18 anni, dunque molto giovane, ma sono rimasto diacono per diverso tempo perché il periodo dei miei studi è corrisposto con l’epoca in cui molte cose scricchiolavano e venivano meno nella Chiesa cattolica.

Alla fine dei miei studi domenicani, tra il ’77 e il ’78, ho chiesto di essere diacono e sono partito per il mondo musulmano. Dunque non ho avuto occasioni di “fare apostolato”: facevo il professore universitario – insegnavo economia dello sviluppo – e avevo il desiderio di vivere nel mondo musulmano. Solo al mio ritorno in Francia è affiorata l’idea di una vita sacerdotale più esplicita. Non avevo niente in contrario prima, ci ha semplicemente messo molto a maturare, è arrivata a suo tempo.

 

A livello del suo percorso accademico, ha cominciato con la filosofia, poi la teologia e poi è passato dal “nutrimento spirituale” al “nutrimento corporale”: per il dottorato ha studiato l’economia rurale, come mai? Voleva qualcosa di più concreto, per “ritornare sulla Terra”?

Gli studi di filosofia e teologia fanno parte del percorso normale di un frate domenicano. È una formazione piuttosto lunga che richiede almeno otto anni e io ho semplicemente fatto come tutti gli altri. Ho molto amato questi studi. Ho preso una laurea di filosofia alla Sorbona, una laurea in teologia dai domenicani a Parigi, al Saulchoir e poi all’Istituto Cattolico. Ho avuto la fortuna di avere dei veri maestri, come padre Marie-Dominique Chenu e padre Yves Congar, grandi teologi dell’epoca. Dopo questa formazione normale, il mio periodo algerino ha risposto invece al desiderio di vivere in un Paese in via di sviluppo.

Era la generazione degli anni ’70, del terzomondismo, in cui ho un po’ sguazzato e che mi ha spinto a vivere in Algeria. Ma per lavorare servivano delle qualifiche, per cui ho fatto un dottorato che mi ha portato a lavorare su cose legate allo sviluppo del Paese. Non solo dell’Algeria, ho anche lavorato molto sul Marocco e sulla Tunisia, ho viaggiato molto a quell’epoca, per cercare di interessarmi alle esperienze di sviluppo: sono andato in Tanzania, a Cuba...: era l’epoca del terzomondismo, c’era una sorta di ideale che oggi ci siamo lasciati un po’ alle spalle, purtroppo si è abbastanza perso! È stato un periodo molto bello.

In seguito sono tornato in Francia su richiesta dei superiori dell’Ordine, e ho continuato questo tipo di insegnamento con un’attenzione maggiore all’etica economica, all’Università Cattolica di Lione e a SciencesPo, quindi ho vissuto circa 15 anni di vita universitaria. Tutto è cambiato nel ’92, quando Timothy Radcliffe, che peraltro ha ricevuto anche lui un dottorato honoris causa dall’università di Friburgo ed è anche un grande amico, è diventato Maestro generale dell’Ordine. Ci conoscevamo dai nostri studi e mi ha chiesto di seguirlo a Roma; la mia vita da quel momento è cambiata completamente.

 

Dopo questo periodo di formazione accademica Lei è partito per il mondo musulmano. Che cosa le interessava davvero, “l’altro grande monoteismo”, o altro?

No, quello che mi interessa, soprattutto ora ma anche un po’ a quell’epoca, è il fatto che fatichiamo a capire il mondo musulmano e l’Islam a causa delle interferenze della geopolitica. Oggi vediamo il mondo musulmano solo attraverso la lente dell’islamismo, del terrorismo e del jihad, cose per niente attraenti. Dietro a queste cose c’è una realtà, che sono i credenti. In proporzione gli estremisti sono piuttosto pochi – spero! – rispetto a una massa di persone devote, che vive una propria fede e cerca Dio a modo suo. Io sono nato in una Bretagna cattolica, non potevo essere altro che cattolico; se fossi nato in Africa del Nord, sarei probabilmente musulmano.

Comunque quello che mi interessava era andare oltre lo specchio, ed è il motivo per cui alla conferenza che ho fatto leggere per il dottorato a Friburgo, ho parlato di Louis Massignon, un grande islamologo francese che ci ha appunto aiutati a capire che non si può entrare in una vera comprensione dell’Islam se non si ha una certa empatia, se si guardano solo le questioni geopolitiche e non la prospettiva credente dei musulmani. Ho avuto la fortuna di vivere con dei musulmani, di coltivare bellissime amicizie, e questo cambia tutto. Amo dire che tutti dovrebbero avere un amico musulmano, perché quando si ha un amico musulmano, grazie a lui, attraverso di lui, si percepiscono delle cose diverse rispetto a quello che ci riferiscono i media e le notizie.

E questo per me è continuato. Dopo Roma sono stato chiamato al Cairo, dove abbiamo un Istituto Domenicano di Studi Orientali che è stato fondato nel 1953 specificamente per sviluppare le relazioni con il mondo musulmano attraverso sulla sua cultura. Si è partiti dall’idea che se ci si colloca immediatamente sul piano del dibattito teologico ci si trova rapidamente in disaccordo, anche con il rischio di arrabbiarsi: i musulmani diranno che la Trinità è una forma di politeismo, i cristiani che Maometto non è una figura molto esemplare, per lo meno da quello che si sa di lui.

Ho avuto la fortuna di far parte di questo istituto, di cui sono diventato responsabile abbastanza velocemente, e che lavora da decenni con intellettuali musulmani. Abbiamo iniziato con l’università di al-Azhar una bellissima collaborazione e stima reciproca, e abbiamo visto cose davvero formidabili. Insomma, si tratta sempre di cercare di passare al di là di questo prisma [l’estremismo] che perturba le cose: è una realtà, ma dietro c’è la massa delle persone [credenti], e questo è proprio interessante.

 

Dunque è questo «contributo significativo – cito – al dialogo interreligioso tra il Cristianesimo e l’Islam» che Le è valso il titolo di dottore honoris causa. A che punto è questo dialogo? Lei ha citato dei punti molto positivi, ma come stanno le cose oggi?

Preferisco parlare di incontro piuttosto che di dialogo. “Dialogo” significa spesso solo parole. C’è sempre stato un dialogo ufficiale, che non è una cosa cattiva – sempre meglio scambiarsi parole gentili che insultarsi – ma si vede bene che il dialogo che ha luogo nella sovrastruttura ufficiale fa fatica a scendere al livello comune, e che molti cristiani ma anche molti musulmani hanno un’immagine molto negativa dell’altro, per ragioni diverse e simmetricamente opposte. Per la Chiesa cattolica c’è stato un passo molto importante, il Concilio Vaticano II. È stata la prima volta che la Chiesa cattolica si è pronunciata in maniera un po’ positiva sull’Islam. Non certo accettando tutto dell’Islam, non è quello che deve fare. Però Nostra Aetate, la dichiarazione del 1965, afferma che la Chiesa guarda anche con stima i musulmani che come noi adorano l’unico Dio etc.: parole positive, insomma. E anche se in passato ci sono state delle differenze ora dobbiamo lavorare insieme per costruire un futuro migliore e un mondo più pacifico.

Penso che siano stati fatti dei passi molto significativi in quell’occasione, che hanno dato luogo a un grande entusiasmo, una certa euforia, dalla quale oggi siamo un po’ usciti, proprio perché abbiamo scoperto che le parole non bastano, e che bisogna costruire delle cose insieme.

Direi che al momento il dialogo è un po’ in panne, a livello individuale, delle persone. Molti cristiani hanno una certa paura dell’Islam, questo a causa della diminuzione numerica del Cristianesimo in Occidente e di una forte visibilità dei musulmani, quelli credenti. Si sente dire «hanno conquistato le nostre strade!», e cose del genere. C’è una sorta di crisi di coscienza.

Penso che sia importante continuare a costruire relazioni a livello di vita e di amicizia, e ritengo che il grande passo degli ultimi anni sia stato certamente l’incontro di Abu Dhabi, quando Papa Francesco ha firmato una dichiarazione sulla fratellanza universale con il Grande Imam di al-Azhar. Ho avuto anch’io la mia modestissima parte nel processo di preparazione, perché quando c’è stata la crisi delle caricature del Profeta, i responsabili musulmani si sono molto arrabbiati, compresi quelli di al-Azhar, che avevano rotto le relazioni con il Vaticano. Essendo io sul luogo e conoscendo molto bene il Grande Imam, con cui c’era una relazione davvero di fiducia e di amicizia, e anche il cardinal Jean-Louis Tauran, che all’epoca era il presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso a Roma, ho potuto dare il mio modesto contributo per ricucire i legami, con pazienza e calma, operando nell’ombra. E tutto questo ha contribuito a costruire una fiducia che oggi è ripristinata. L’ultima volta che ho visto il cardinal Tauran, nel suo ufficio, poco prima della sua morte, mi ha detto ridendo: «Sa, la relazione tra il Grande Imam e il Papa non è più amore, è passione».

Questo mostra appunto che l’importante è il legame tra persone, perché si hanno sempre delle buone ragioni per arrabbiarsi o per non capirsi, e ce ne saranno sempre. In particolare, la storia condivisa tra cristiani e musulmani è estremamente difficile e dolorosa: ci sono secoli e secoli di polemiche, di insulti, di guerre, e per questo c’è una paura dell’altro che è molto reale. Io penso che lavorare per costruire questi rapporti sia stata un po’ la gioia della mia vita, e ho conservato delle amicizie magnifiche.

 

Fantastico. Uno spunto finale?

Vorrei aggiungere una piccola cosa riguardante la mia relazione con il mondo musulmano. Questa relazione è in effetti caratterizzata da una mentalità molto positiva e fiduciosa, ma al tempo stesso la mia storia personale è stata molto ferita, nel senso che ho vissuto 15 anni in Algeria e sono stato molto vicino a diverse persone che sono state assassinate.

Ho avuto amici musulmani, assassinati durante quelli che sono stati chiamati gli “Anni Neri” [la guerra civile], ma anche amici cristiani, in particolare ero molto legato a monsignor Claverie, il Vescovo di Orano – è lui che mi ha ordinato prete – e che è stato assassinato. Sono stato molto segnato dalla sua morte, dal suo omicidio, al punto che ne ho scritto la biografia. In seguito sono stato molto coinvolto nella redazione dei testi per preparare la beatificazione delle 19 vittime della Chiesa d’Algeria, cioè il vescovo Claverie, i sette monaci trappisti, i Padri bianchi, e altri religiosi e religiose.

Dico questo perché non voglio dare l’impressione di avere una visione completamente buonista e irrealistica di dialogo, irenista. Ci sono delle asperità reali e una vera difficoltà nella relazione tra cristiani e musulmani, perché c’è una memoria ferita, secoli di polemiche e incomprensione, come ho già detto, che è regolarmente riattivata da eventi drammatici. La mia storia è segnata da queste tragedie e la mia fiducia nella possibilità di una relazione positiva si è forgiata anche in quelle esperienze, nel fatto che bisogna essere capaci di superare le ferite. Basta guardare a quello che succede oggi ai cristiani d’Oriente, in particolare in Iraq, in Siria, in Egitto qualche volta, per capire che questi momenti drammatici ci sono. Penso che questo ci debba dare il coraggio di voler andare oltre.

Tutte queste cose hanno profondamente inciso sui miei 30 anni di vita nel mondo musulmano e sui miei 50 anni di frequentazione di questo mondo, perché anche prima di partire avevo già instaurato un legame, facevo i miei studi e ho scritto la mia tesi su questioni legate a quel mondo.

 

Il processo di beatificazione dei martiri, soprattutto di Pierre Claverie, che cosa comporta per l’Algeria? Cura le piaghe, oppure ne apre di nuove?

Innanzitutto ci invita a fare una distinzione: non sono “i musulmani” in generale, “l’Islam”, ad aver voluto la loro morte, i martiri sono morti in un contesto politico molto preciso e concreto, quello degli anni ’90 in Algeria, che ha lasciato dietro di sé 150 mila vittime. C’era una sorta di guerra civile nel Paese e loro vi si sono trovati in mezzo. La prima cosa quindi è evitare di generalizzare. In secondo luogo, questo ci ha fatto scoprire che i nostri amici musulmani sono stati colpiti tanto quanto noi dalla morte dei nostri fratelli e sorelle, perché erano anche loro amici e condividevano con loro la stessa battaglia per i diritti civili: Pierre Claverie era molto vicino ai movimenti femminili, agli uomini e alle donne di cultura, del teatro...

Dunque c’è una grande sfida che attraversa le nostre società: la linea di separazione non è quella tra i cristiani e i musulmani, ma ci sono uomini e donne sia tra i cristiani che tra i musulmani che amano la libertà, la realizzazione di sé, il rispetto dell’altro, e uomini che al contrario hanno scelto la radicalizzazione.

Penso che questa beatificazione ci abbia aiutato a chiarire alcune cose, e in ogni caso sono stato molto colpito vedendo fino a che punto l’Algeria ha deciso di vivere quel momento. È una cosa piuttosto incredibile, beatificare 19 religiosi cattolici in un Paese musulmano in un modo assolutamente ufficiale: in prima fila c’era il ministro degli Affari religiosi e alla celebrazione erano presenti anche degli imam. Con questo gesto a mio parere è stato gettato un ponte, in qualche modo. Credo che nell’incomprensione che domina oggi sia molto importante essere un po’ volontaristi, tessere dei legami e gettare dei ponti. Sono tentativi fragili, ma se non si colgono queste occasioni non si arriverà a niente. E penso che in un certo qual modo la vocazione specifica dei cristiani d’Oriente, che sono una minoranza, sia appunto di creare legami. Io ho vissuto così, dico spesso che la grande fortuna della mia vita è stata di essere in minoranza in mezzo agli altri. Quando uno è in minoranza non è arrogante, ma si sforza di ascoltare, di capire, di accogliere. Penso che i cristiani d’Oriente siano per la loro stessa presenza un invito all’incontro con l’alterità, e i musulmani aperti, la maggioranza dei musulmani, capisce bene che il giorno in cui non sarà più possibile per i cristiani vivere nel loro Paese sarà drammatico anche per loro, perché vorrà dire che sono finiti rinchiusi in una cittadella completamente blindata, immobile e totalitaria. È un grande pericolo, di fronte a cui credo che serva veramente volere questo incontro. Senza ingenuità ma con generosità.

 

(traduzione dal francese a cura della redazione di Oasis)

 

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