Per molti anni prima del rapimento, Padre Dall’Oglio si è impegnato nel dialogo interreligioso in Siria. Una scelta dovuta all’incontro con un uomo che esprimeva una saggezza speciale «radicata nel mondo semitico antico»

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:36:58

Maria Laura Conte ha intervistato Padre Paolo Dall'Oglio nel 2009.

Un recupero non archeologico della tradizione cristiana orientale per un rinnovato incontro con i musulmani. È questo l’ideale che anima la comunità monastica di Mâr Mûsâ al-Habashî, in italiano San Mosè l’Abissino. Un monastero che dalle ultime propaggini della catena del Qalamûn si protende verso il deserto siriano, 100 km a nord di Damasco. Abbandonato nel XVIII secolo, il monastero è stato restaurato a partire dagli anni ‘80 ad opera di padre Paolo Dall’Oglio che, indirizzato allo studio dell’arabo nell’ambito della Compagnia di Gesù, scelse di fermarsi a vivere nell’eremo disabitato per riappropriarsi del patrimonio siriaco. Ma ogni riappropriazione è sempre una nuova creazione.

 

La Sua è certamente una vocazione particolare. Com’è nata in Lei la decisione di legare la vita a un monastero siriano?

Quando ho incontrato la tradizione siriaca abitavo a Damasco come studente di arabo e di Islam. In una situazione italiana molto polarizzata (eravamo negli anni ’70), l’ingresso nella Compagnia di Gesù aveva coinciso in me con l’apertura alla profondità delle relazioni tra la Chiesa e le altre culture religiose. Nella capitale siriana vivevo molto con i musulmani, passavo le serate con le confraternite mistiche, i venerdì andavo nelle moschee ad ascoltare le prediche e seguivo i corsi nella facoltà di diritto islamico. Nello stesso tempo mi rendevo conto che, data questa forte esposizione al contesto musulmano, dovevo cercare di radicarmi nell’esperienza cristiana locale. Soprattutto la domenica andavo di chiesa in chiesa per conoscere i bizantini, i maroniti (che già avevo incontrato in Libano) e in particolare i siriaci ortodossi. La loro liturgia oscilla tra siriaco e arabo senza scegliere nessuna delle due lingue in modo esclusivo: un indizio interessante della dimensione dialettica più o meno riflessa di questa comunità.

Ero particolarmente affascinato dalle prediche dell’attuale Patriarca Zakka I che proveniva da un monastero dell’Iraq ed era allora relativamente giovane, essendo appena stato eletto a capo della sua Chiesa. Le sue prediche mi colpivano perché usavano una lingua araba molto più coranica di quella che si poteva ascoltare nelle chiese cattoliche dalle labbra di sacerdoti e Vescovi formati in massima parte in Libano o in Occidente e dove, qualche volta, la lingua araba sapeva molto di traduzione. Nelle sue prediche il discorso sgorgava da un’anima locale e si organizzava intorno a un modo di commentare la Sacra Scrittura molto immaginativo, molto simile ai midrashim ebraici, con storie e racconti. Insomma, una lettura semitica della Sacra Scrittura in cui il racconto biblico è commentato da altri racconti e sintetizzato con forza in alcune espressioni paradossali. Ritrovavo così la saggezza e lo stile dei padri del deserto, il gusto dei grandi poeti siriaci, Efrem, Giacomo di Sarug e gli altri. Quell’uomo dispiegava di fronte a me una tradizione vivente e mi mostrava che quella sua tradizione, radicata nel mondo semitico antico, s’era nutrita della solidarietà e della commensalità simbolica con i musulmani lungo quattordici secoli. Mi è parso un ponte ermeneutico e di qui si è originata la mia scelta per il rito siriaco cattolico. È importante però comprendere che nel monastero di Mâr Mûsâ non siamo guidati da un sentimento archeologico e nostalgico ma, lo dico forse con esagerazione, da un atteggiamento profetico. Vogliamo partecipare a ridare disponibilità di fede e di impegno a questa radice tradizionale siriaca perché porti nuovi frutti nel nostro tempo.

Tornando all’esempio del Patriarca Zakka, egli è stato capace di scegliere di non trasferirsi in America benché la maggior parte dei suoi cristiani siano emigranti (dalla Turchia, dall’Iraq, dalla Siria…). Per lui la tentazione poteva essere quella di andare in Svezia o in America, dove ormai vive la maggioranza dei suoi fedeli. E invece ha fatto una scelta di radicamento locale. La sua è un’assunzione cosciente di un’identità culturale relazionale tra siriaci cristiani e arabi musulmani.

 

Lei si identifica in questa scelta?

Io partecipo pienamente di questa sua scelta, lui lo sa e ci vogliamo bene. Quest’uomo è stato un autentico profeta del rinnovamento nella sua Chiesa e lo dimostrano i frutti. La sua Chiesa, pur essendo una delle più piccole tra le comunità orientali, vive un’effervescenza culturale e spirituale. Dal canto nostro, il monastero che ho rifondato con i fratelli e le sorelle della comunità è più radicalmente (più “cattolicamente” se si vuole) pensato per un’assunzione di responsabilità teologica e spirituale verso il mondo musulmano, una dimensione che non si pone in modo identico nella controparte ortodossa. Per noi, che siamo uomini e donne consacrati all’amore di Gesù per i musulmani nel contesto arabo islamico e cristiano (minoritario) della Siria di oggi, si tratta di vivere la relazione a Dio e al suo Cristo in un linguaggio che vogliamo già “dialogale”, radicato nell’esperienza monastica orientale e al contempo in relazione con l’esperienza mistica musulmana.

Quando dico “esperienza mistica musulmana” non intendo una realtà estranea alla vita religiosa della grande maggioranza dei musulmani. Non è che scegliamo il sufismo contro il resto dell’Islam. Per noi si tratta di cogliere la dimensione spirituale e mistica della vita normale dei musulmani, della preghiera, del pellegrinaggio, dell’atmosfera sacra della famiglia, della moschea di quartiere. Tutto questo “quotidiano” della religione islamica nella sua dimensione spirituale. Noi vogliamo rendercelo familiare per empatia spirituale intima. Massignon diceva che si tratta di desiderare, per amore, di porsi nell’asse del destino della persona amata.

 

Come la tradizione orientale favorisce l’incontro con i musulmani e che cosa può insegnare all’Occidente?

Io penso che le Chiese orientali che hanno vissuto con i musulmani rappresentino un sacramento di buon vicinato e commensalità che dovrebbe essere analizzato e recepito dalla teologia cattolica per poter fare le stesse scelte, urgentissime, nella relazione con l’Islam tanto in Oriente quanto in Occidente. La Chiesa non va all’Islam passando sopra le teste dei cristiani che hanno vissuto con i musulmani nelle stesse città e nelle stesse strade per quattordici secoli. Intendiamoci, ci sono anche molti cristiani orientali che diranno agli occidentali: «Non fate come noi, separatevi dai musulmani, evitateli perché alla fine vi mangiano come hanno mangiato noi, accogliete noi e rifiutate loro». Sono discorsi che si sentono dalle bocche di alcuni cristiani orientali. Naturalmente non è questa la mia idea né la nostra idea come comunità monastica.

Noi riteniamo che in queste terre si sia prodotta una vera sintesi significativa, che le relazioni tra cristiani e musulmani negli stessi quartieri, con i monaci che per secoli hanno ricevuto i musulmani in visita ai monasteri, abbiano un significato riguardo allo statuto teologico dell’Islam nella teologia cristiana. Allo stesso tempo siamo consapevoli che nel passato c’è stata un’insufficiente elaborazione teologica. Un certo irrigidimento dogmatico ha frenato il coraggio necessario per un’ermeneutica del fatto musulmano rispetto alla storia della salvezza. Da questo punto di vista, i cristiani orientali hanno bisogno di partecipare a una riflessione cattolica, universale, ecumenica che superi le chiusure di natura identitaria per riassumere una responsabilità apostolica, missionaria, autentica nei confronti del mondo musulmano. Per dirla in altro modo, i cristiani orientali rappresentano nei fatti, nella pratica, una realtà che ha una rilevanza teologica. Non si può vivere nello stesso palazzo con gente destinata all’inferno! Una tale comunanza di vita è un sacramento che dimostra e realizza una realtà di portata teologica. Però la riflessione teologica non è ancora maturata, nonostante la rivoluzione copernicana operata dal Concilio, in relazione alle religioni e, in particolare, all’Islam.

 

In base alla sua esperienza concreta, esiste in Siria un “Islam di popolo”?

Capisco le vostre distinzioni, che mi piacciono, e dirò: esiste un Islam di popolo ed esiste una “Chiesa di popolo” (la Chiesa siriana che è ecumenica, fatta di ortodossi maggioritari, di cattolici minoritari e di protestanti “appendicolari”). In Siria abbiamo un Islam plurale e una Chiesa plurale. Esiste anche una realtà ideologica dell’Islam plurale, così come esiste una realtà ideologica della Chiesa plurale. Trovo molto sano cercare di distinguere tra religiosità ideologica e religiosità per così dire carismatica, pneumatica. Dentro questo ci mettete il folclorico, il “di popolo”. Qui sono io che divento curioso…

 

Nel lavoro di Oasis si è osservato questo: si tende a distinguere l’Islam in fondamentalista e moderato ma dentro l’Islam moderato si rischia di individuare figure che con l’Islam non hanno più molto a che fare…

Moderati significa spesso “occidentalizzati”.

 

È come se nella distinzione tra Islam fondamentalista e moderato non si riuscisse ad abbracciare il cuore dell’esperienza religiosa musulmana. Ma allora Le chiedo: come vede questo nella sua esperienza siriana? Esiste un Islam di popolo e come lo individua? Un Islam dove l’esperienza religiosa concreta non sia ridotta a ideologia…

Io la riduzione a ideologia non la seguo perché per criticarla si casca nell’ideologia un’altra volta. Cerchiamo di rimanere sul fenomeno e di analizzarlo. Il fenomeno è questo: una grande massa di musulmani devoti. Dove la devozione musulmana costruisce un’unificazione dell’esistenza personale, familiare e sociale in una serie di riti, uno stile di vita, un’estetica e un progetto sociale cioè dei valori. La vita rituale è importantissima, innanzitutto la preghiera: per i più devoti possono essere le cinque preghiere, per altri una preghiera al giorno, altri saranno assidui solo alla preghiera del venerdì. La preghiera, certamente, ha un’enorme importanza per ritmare e dare spessore alla devozione. Così il pellegrinaggio, naturalmente. Anche il digiuno del Ramadan ha una funzione fondamentale: riportare alla pratica religiosa tutti coloro che slittano verso comportamenti più secolarizzati. Esso è un’occasione di educazione alla fede davvero di massa. A questo si aggiunge il fatto che i devoti musulmani hanno, statisticamente parlando, una moralità più forte rispetto a chi, per un motivo o per un altro, “alla romana” diciamo “se ne frega”… La devozione comporta un impegno morale e, quindi, una sete di democrazia connessa con la correzione della corruzione. Noi ci troviamo con le scuole che miracolosamente funzionano ancora, con gli uffici che bene o male funzionano, con tutta una serie di servizi che funzionano, a causa di un’attitudine religiosa d’umanità sul posto di lavoro, sia nel pubblico che nel privato. Si nota un certo paternalismo, caratterizzato però generalmente da un vero rispetto per la persona in quanto persona religiosa. La persona nell’Islam è la persona religiosa, non è la persona avulsa dalla relazione con Dio. La dignità della persona è innanzitutto nel suo stare innanzi a Dio. A tutti i livelli della vita economica e sociale la devozione implica un rispetto della persona umana nella sua dignità.

 

Questo Lei lo definirebbe Islam di popolo?

Direi di sì...

 

Questa fede sembra avere implicazioni sociali, antropologiche…

Sono continuamente ammirato dal fatto che, grazie a questa devozione musulmana, la nave sociale regge il mare e non affonda, perché ci sarebbero mille motivi per affondare: la corruzione politica, il clientelismo internazionale costruito sui privilegi e sulle caste, l’eccesso di repressione di regime provocata e giustificata dalle derive terroristiche… Questo Islam di popolo non è separato dall’Islam diciamo “jihadista”, non è separabile da un confine netto; è contiguo. In ambito universitario ci potranno essere simpatie verso i gruppi più estremi; quando c’è una crisi come quella di Gaza ci si sente più rappresentati da quelli più arrabbiati. La contiguità si accentua o, al contrario, si allenta a seconda di quanto la propria dignità islamica, la propria aspirazione all’emancipazione, i propri desideri di sviluppo siano più o meno umiliati dai “moderati” al potere. E dal potere internazionale.

 

Trova un “corrispondente” di questa realtà nel cristianesimo?

Del cristianesimo mediorientale arabo? Ma certo! E di fatto poi questo Islam di popolo è quello che va, da secoli, a braccetto con il cristianesimo di popolo. Sono quelli che realizzano la teologia pratica della commensalità, della comunanza, del buon vicinato.

 

Ed è questo, forse, anche il risvolto concreto di ciò che chiamiamo “tradizione”…

Sicuramente, però oggi tradizione e comunanza sono consumate dalle tensioni globali. Le tensioni globali rischiano di accentuare lo sbriciolamento di questo spazio e, quando le crisi sono gravi come a Gaza, si può ormai dire che lo spazio è sgretolato…

 

Se per quattordici secoli la realtà di contiguità tra Islam di popolo e cristianesimo di popolo ha garantito la convivenza ed è stata storia di tutti i giorni, ora dunque questa tradizione è a rischio.

Sì, è così. Non può più rimanere semplicemente un Islam di popolo e un cristianesimo di popolo. Entrambi devono diventare un Islam e un cristianesimo coscienti, capaci di sviluppare la propria autocoscienza teorica perché devono resistere ai due estremi: alla deriva, che Lei ha chiamato ideologica, fondamentalista, jihadista, e alle tentazioni dell’uso della violenza che rispondono al sentimento di umiliazione, di corruzione e di deriva autoritaria tipica dei regimi.

 

In passato questo pericolo e questo bisogno non c’erano o non erano così forti come lo sono oggi?

C’erano altri pericoli. In Siria veniamo dal colonialismo, l’impero ottomano… La cultura delle società sul piano locale restava un po’ impermeabile alle grandi questioni. Come da noi in Italia nell’Ottocento: Savoia, Garibaldi ma poi la gente rimaneva quella che era, la società profonda non era molto intaccata dalle tempeste di superficie. Oggi non si può più ragionare così. L’Islam radicato sul territorio, rurale o urbano che sia, è in piena tempesta perché gli eventi agiscono – anche a causa dei mass media – fino in profondità. E accelerano i processi, li accentuano. Senza una reazione fortemente cosciente è chiaro che il peso di questa zavorra tradizionale, con tutti i suoi pregi e i suoi difetti, si annullerà e diventeremo prede di movimenti rapidi, frettolosi, superficiali e poveri sul piano culturale. Se lo scatto di consapevolezza non c’è, scatta la consapevolezza jihadista oppure…

 

… oppure la dimenticanza, l’oblio..?

No, piuttosto la mitizzazione del passato per farne un’ideologia, come Lei dice, o un programma fondamentalista oppure una base mitologica per le aggregazioni di potere…

 

Una specie di nostalgia ai fini dell’egemonia… Sullo sfondo che ha delineato, come stiamo quanto a libertà religiosa in Siria, per la sua esperienza?

Nella misura in cui i movimenti islamici vittimisti si impongono (quelli che sostengono la teoria dell’Islam perennemente under attack), ciò giustifica molte reazioni, anche le più eccessive. Faccio un esempio: mi è stato di fatto rifiutato il visto per recarmi in Algeria, pellegrino sulle tracce di padre Charles de Foucauld, perché sono un religioso cattolico. Qui vedo evidente una saldatura tra potere cosiddetto moderato e deriva fondamentalista. In nome di che? Della pace sociale che deve farsi carico del sentimento islamico dell’essere sotto attacco, compreso l’attacco proselitista. E quindi, per mantenersi, i poteri moderati cedono agli istinti fondamentalisti. La Siria è abbastanza indenne da questo, però sul territorio si possono manifestare saldature tra le paure provocate dai movimenti islamisti, l’attrazione che essi possono esercitare e la possibilità che il potere voglia strumentalizzarli o strumentalizzarne la repressione a seconda delle situazioni, delle regioni, dei contesti.

 

Anche da qui si esce con una tutela della tradizione, ma rielaborata e riacquisita con un passaggio teoretico di cui diceva…

… e che fallirà se fallisce il dialogo interreligioso sia in Europa che nel sud del Mediterraneo e nel sud del mondo (Nigeria, Ciad, Sudan e via discorrendo). Bisogna immettere nel complesso conflittuale odierno dei capitali di speranza. Bisogna riuscire ad attivare valanghe, effetti-domino. Si tratta di operare in una logica di giustizia e di buon vicinato globali. Avremo il futuro che avremo saputo sognare.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis

 

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Per citare questo articolo

 

Riferimento al formato cartaceo:

Paolo Dall'Oglio, Chiese Orientali, Sacramento di Buon Vicinato, «Oasis», anno V, n. 9, luglio 2009, pp. 32-36.

 

Riferimento al formato digitale:

Paolo Dall'Oglio, Chiese Orientali, Sacramento di Buon Vicinato, «Oasis»[online], pubblicato il 1 luglio 2009, URL: https://www.oasiscenter.eu/it/paolo-dall-oglio-chiese-orientali-sacramento-di-buon-vicinato.

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