Il conflitto siriano ha messo a dura prova i rapporti interreligiosi. Nonostante le difficoltà, la comunità di Mar Musa lavora per ricucire gli strappi causati dalla guerra, in linea con il messaggio del Papa

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:58:20

«Io penso che padre Paolo sia vivo. In questi anni non ho mai creduto alle news che circolavano sulla sua uccisione. Per me lui è sempre stato vivo ed aspettavo una sua notizia». A parlare è padre Jacques Mourad, monaco siro-cattolico della comunità al-Khalil. Con uno sguardo alla campagna laziale, al di là delle finestre del monastero di San Salvatore, a Cori, il sacerdote siriano parla delle voci diffuse dal Times, che vedono Paolo Dall’Oglio, gesuita romano rapito in Siria nel 2013, ancora vivo nelle mani dell’ISIS, all’interno di uno dei pochi territori rimasti sotto il controllo dei suoi miliziani. In un articolo pubblicato il 7 febbraio di quest’anno, il quotidiano inglese ha infatti riportato la testimonianza di un ufficiale curdo, secondo il quale lo Stato Islamico sta cercando di utilizzare il prete romano e altri due ostaggi occidentali, il giornalista inglese John Cantlie e un’infermeria neozelandese, come “merce di scambio” nelle negoziazioni con le forze arabo-curde che lo circondano. La liberazione degli ostaggi in cambio di un safe passage per il gruppo terrorista. 

 

La speranza – a suo dire – è dunque concreta: «forse noi, in tutto questo tempo, abbiamo aspettato questo giorno. Perché l’unico modo di sapere qualcosa su padre Paolo era arrivare alla negoziazione. La notizia diffusa in questi giorni corrisponde ad una realtà sul terreno, allora mi sembra logicamente plausibile che lui sia stato conservato per questo momento». Rimane quindi solo da aspettare, aspettare e pregare: «chiediamo le preghiere di tutti per non ritardare ulteriormente, perché ora basta, è passato troppo tempo».

 

 

La comunità dopo la scomparsa di Padre Paolo

 

Duemila giorni – ricorda padre Jacques – sono ormai trascorsi da quel 29 luglio del 2013, il giorno in cui padre Paolo Dall’Oglio è scomparso a Raqqa. Più di 5 anni in cui le voci sulla sua sorte si sono rincorse, senza mai nessuna conferma ufficiale. Il gesuita romano era arrivato nel Paese arabo negli anni ’80 e lì, dopo un primo periodo di studio, aveva iniziato la restaurazione del monastero siro-cattolico di Mar Musa. Proprio in questo monastero, che nel tempo diventerà sempre di più luogo di incontro e preghiera per fedeli di tutte le religioni e non credenti, fonderà, insieme all’amico Jacques Mourad, la comunità ecumenica al-Khalil, “l’amico di Dio”, l’epiteto dato ad Abramo nel Corano. È su queste radici abramitiche, comuni a cristiani, musulmani ed ebrei, che Padre Paolo baserà la missione della comunità, votata al dialogo islamo-cristiano.

 

Poi nel 2013 quel viaggio a Raqqa da cui non è più tornato. Da quel momento è iniziata per la comunità un’attesa infinita, un’attesa che non è mai stata passiva, ma colmata dalle molte attività a cui i monaci si sono dedicati, nel compimento della propria vocazione. «In tutti questi anni – racconta fra’ Jihad Youssef, anche lui sacerdote della comunità – abbiamo cercato di rimanere fedeli alla nostra vocazione, quella della preghiera, del lavoro manuale e dell’ospitalità. Anche se le visite a Mar Musa erano sospese, è sempre rimasta l’ospitalità spirituale, quella delle intercessioni, con una particolare attenzione al mondo musulmano». Un’attività instancabile, cadenzata dalla preghiera e dal lavoro pratico, che volge lo sguardo alle molte situazioni di difficoltà vissute dalla popolazione siriana. «Negli anni successivi alla scomparsa di Paolo, – spiega padre Jacques – visto che le visite erano interrotte, ci siamo concentrati sul lavoro umanitario, per essere vicini a coloro che soffrono e ai profughi che sono stati obbligati a lasciare la propria casa. Per esempio, il monastero di Mar Elian, nella cittadina di Qaryatayn, è diventato un luogo di accoglienza e di incontri». Anche quest’ultimo è finito nelle mani dell’ISIS, che lo ha distrutto nel 2015. Di nuovo, la comunità non si è fermata, con la ripresa, nello stesso anno, delle visite e dell’accoglienza dei pellegrini presso il monastero di Mar Musa, rimasto isolato dal 2012 all’inizio del 2015. A partire dal 2015, è iniziato un movimento discreto di persone che hanno ricominciato a visitare il monastero. Un movimento che è andato via via crescendo negli anni successivi. «Ora la situazione è molto migliorata. Ci sono state varie visite di famiglie con bambini, donne, uomini, giovani, cristiani e non cristiani, musulmani di varie appartenenze, soprattutto della zona intorno al monastero, ma qualcuno anche dall’Europa. Per esempio, in primavera, tutti i venerdì avevamo un enorme flusso di visitatori, fino a mille persone. Rimane il problema dello spostamento, che è molto costoso». Un lavoro instancabile, portato avanti in questi anni di guerra, tra la Siria e l’Iraq, a Sulaymaniya, dove la comunità ha fondato un monastero nel 2010. Qui, in collaborazione con il JRS (il Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati), i monaci si occupano della cura e dell’accoglienza dei profughi. Un’attività che si va ad aggiungere alle molte già portate avanti in Siria. Tra le varie, l’aiuto ai malati, il sostegno agli studenti universitari, il supporto agli sfollati, con interventi mirati alla ricostruzione delle case distrutte dalla guerra. Un’attenzione particolare viene data ai più giovani, verso i quali sono dirette attività culturali e pedagogiche, come la scuola di musica di Nebek, che coinvolge 63 bambini e ragazzi dai 9 fino ai 17 anni, dando loro l’opportunità di svolgere lezioni private e al tempo stesso coinvolgendoli nel coro parrocchiale. O ancora l’asilo parrocchiale nella stessa città, che conta ormai 150 bambini in gran parte di fede musulmana: «i bambini vivono insieme, crescono insieme e festeggiano insieme le feste cristiane, musulmane e civili», ribadisce fra’ Jihad. La convivenza che torna ad essere quotidianità, normalità. «La gente apprezza molto che siamo rimasti, – prosegue – sia musulmani che cristiani vengono volentieri, pregano con noi. Siamo contenti che il monastero diventi di nuovo una meta per i pellegrini».

 

«La scomparsa di Paolo – afferma con convinzione Jacques Mourad – la sua mancanza, è stata per noi una cosa veramente dura, che ci ha dato una grande responsabilità, soprattutto verso la nostra vocazione, la nostra consacrazione per il dialogo. Allora, abbiamo voluto continuare a vivere questo dialogo, questa amicizia, questo amore di Cristo verso l’Islam e i musulmani tramite le attività a cui ci siamo dedicati». Pastore fino al midollo, Abuna Jacques ha deciso di non tornare in Siria e vivere, come i suoi connazionali, da esiliato, in mezzo ai profughi. Per questa ragione, abita ormai a Sulaymaniya, nel Kurdistan iracheno, dove si occupa delle migliaia di rifugiati causati dalle crisi mediorientali. Proprio questa esperienza è stata per lui particolarmente significativa, tanto da definirla una “consolazione”, «perché tramite questa accoglienza abbiamo vissuto una esperienza concreta di testimonianza dell’amore di Cristo, nell’essere vicini a quelli che soffrono ed hanno perso tutto».

 

 

Il bene che prevale sulla violenza

 

Padre Paolo non è l’unico della comunità a essere stato vittima di un rapimento. Lo stesso Jacques Mourad ha subito una sorte simile, sebbene con esiti diversi. Nel 2015, quando è stato distrutto il monastero siro-cattolico di Mar Elian, a Qaryatayn (in Siria), padre Jacques ne era priore. Il 21 maggio dello stesso anno venne sequestrato dalle milizie dell’ISIS che lo tennero in ostaggio per cinque mesi. Poco tempo dopo, tutta la comunità cristiana della città subì la stessa sorte. Ogni giorno qualcuno gli domandava chi fosse. Alla sua risposta «un cristiano» veniva dichiarato infedele e minacciato di morte se non si fosse convertito. Riuscì infine a salvare se stesso e la sua comunità cristiana grazie all’aiuto di alcuni beduini musulmani. Una rocambolesca fuga in motocicletta lo ha riportato alla libertà. La sua esperienza è raccolta in un libro, Un monaco in ostaggio. L’appello alla pace di un monaco ostaggio dei jihadisti, scritto insieme al giornalista Amaury Guillem e già pubblicato in francese e slovacco. L’edizione italiana vedrà presto luce nel maggio di quest’anno.

 

A caratterizzarlo, uno sguardo sorridente, uno sguardo di tenerezza. Allo stesso tempo appassionato, nonostante tutto. «È stata un’esperienza dura e forte – ricorda il sacerdote siriano, senza risparmiarsi, offrendo all’ascoltatore uno spiraglio sulla sua interiorità – soprattutto perché mentre venivo rapito, non potevo dimenticare che il mio confratello è nelle stesse mani, quelle dell’ISIS. Allora, ho pensato che forse per una volta ci saremmo incontrati. Questo mi ha consolato dentro, in questo buio che ho vissuto». Un buio che, però, non ha inghiottito tutto, ma è rimasto limitato. Con uno sviluppo che ha quasi dell’incredibile: le speranze, l’umanità, non ne sono rimasti schiacciati, ma anzi rafforzati. «Oggi, questa esperienza mi conferma la nostra vocazione per il dialogo, perché non c’è altro modo per arrivare all’armonia tra tutti i gruppi religiosi e etnici che mettersi a parlare, a confrontarsi, a dialogare. Dio ha creato l’uomo con una grazia: la parola, che è lui. Allora noi portiamo lui nella nostra capacità di parlare».

 

 

Gli effetti della guerra sul dialogo interreligioso

 

L’incontro che diventa imperativo morale, una vocazione che non cede alla disperazione, ma trova nuova linfa dall’amara constatazione degli effetti della guerra. Ancor di più si impone la necessità di uscire dalla strada dello scontro, per andare verso quella della riconciliazione. Un dialogo, quello islamo-cristiano, che è continuato nonostante le mille difficoltà e la grande frattura che si è creata nella società civile. «Sicuramente quando c’è una guerra, come quella in Siria, – spiega padre Jihad – dopo il danno alle persone, il dramma più grande è quello che riguarda le relazioni, il tessuto sociale, che viene frantumato. Ma ne risentono di più i rapporti tra musulmani e musulmani, sunniti e sciiti; sono quelli che hanno avuto maggior danno. Anche tra cristiani e musulmani c’è una mancanza di fiducia da una parte e dall’altra». Jihad racconta come i cristiani siano spesso etichettati come dipendenti dell’Occidente. Ma a loro volta, essi mantengono il ricordo dei massacri subiti nel XIX secolo e nel XX secolo. Ferite ancora non guarite. «Ogni tanto succede qualcosa e le ferite subito si risentono – prosegue il monaco. – Tuttavia, non ci sono solo i massacri. Ci sono tanti musulmani che invece hanno aiutato e salvato i cristiani loro vicini, li hanno difesi». Se da un lato il conflitto ha, quindi, peggiorato i rapporti islamo-cristiani, questi continuano a sopravvivere e a mantenersi, nonostante tutto, positivi. Oltre al ricordo degli scontri, infatti, la Siria ha anche quello dei moltissimi incontri, che ne costituiscono la sua natura, quella di un “mosaico etnico-religioso”, come lo definisce padre Jihad. E in questo mosaico – afferma il monaco – «alcune relazioni sono state fortificate grazie alla coscienza che hanno i cristiani e i musulmani di avere un unico destino». Una naturale convivenza ribadita anche da padre Jacques che ricorda l’esperienza forte vissuta nella città di Qaryatayn: «quando quelli dell’ISIS hanno rapito i cristiani rimasti a Qaryatayn nell’agosto del 2015, hanno usato i musulmani della città per arrivare alle case dei cristiani. Ma quando siamo tornati nel settembre del 2015, i musulmani della nostra zona hanno fatto tutto, in segreto, per aiutarci». Jacques ricorda con dolcezza le persone che, all’indomani del rientro a Qaryatayn, hanno portato cibo e soldi, per mostrare la loro amicizia e vicinanza. Ma soprattutto, sono stati i musulmani ad aiutarli nella fuga. «I musulmani hanno aiutato tutti i cristiani a scappare, 200 persone, rischiando la loro vita. La realtà è che la guerra non è religiosa, né una guerra tra alawiti e sunniti ma una guerra di potere, di interessi. Usano questo nome, la religione, come strumento».

 

 

Il Papa negli Emirati e la “nuova” cittadinanza

 

Una vocazione, quella per il dialogo, perfettamente in linea con il messaggio e il percorso avviato da Papa Francesco. Un percorso ben chiaro agli occhi di fra’ Jihad, che con determinazione ricorda le parole del Papa prima di partire per gli Emirati Arabi Uniti. Un videomessaggio in cui Francesco definisce i musulmani fratelli, ricordando la comune fede in un unico Dio. Un concetto non scontato per molti cristiani. «Alla fine il Papa chiede “pregate per me”, come fa di solito. Chiede a chi? Al popolo degli Emirati, ai musulmani, non ai cristiani che stanno lì: è un grande segno. Ha un significato simbolico che il mondo musulmano subito percepisce: il Papa è il successore di Pietro e loro sanno cosa significa essere “successore”, khalifa, per loro è una figura molto importante». È proprio per questo ruolo che, secondo Jihad, si tratta di un passo che non coinvolge solo i cattolici, ma i cristiani tutti, come ha ribadito nel suo discorso ad Abu Dhabi Ahmad al-Tayyeb, imam dell’Azhar, la prestigiosa moschea-università sunnita che ha sede al Cairo. «Qui c’è un vero esercizio del ruolo petrino di Roma – spiega con convinzione padre Jihad – che non è quella che comanda tutti, ma è quella che precede nella carità. È un passo enorme verso il riconoscimento dell’altro, i musulmani che riconoscono i cristiani credenti alla pari. Da parte nostra anche noi dovremmo riconoscere loro e non definirli, come in passato, persone “perdute”». Un riconoscimento che non si limita alla dignità dei credenti e al rispetto religioso, perché come ha detto il Papa, libertà religiosa non significa esclusivamente libertà di culto. Tema centrale è, infatti, quello della cittadinanza. Se nella tradizione musulmana i cristiani rappresentavano dei dhimmi, dei protetti dell’Islam, qui si profila un nuovo passaggio. Quello del diventare cittadino con pari diritti, al di là dell’appartenenza religiosa ed etnica. È in questa direzione che va il lavoro instancabile svolto da Papa Francesco in questi anni. «L’importanza di questo evento – prosegue padre Jihad col suo sguardo diretto – è che c’è un linguaggio nuovo in cui musulmani e cristiani si trattano alla pari, soprattutto nel discorso dell’imam al-Tayyeb che riconosce l’uguaglianza dei cittadini cristiani e la pari dignità. Non c’è più un secondo grado, terzo grado, come avviene nel concetto di dhimma. Un’apertura almeno teorica che ha bisogno di essere applicata e assunta nelle rispettive comunità, musulmane e cristiane».

 

Una direzione ben precisa, evidente già da una prima lettura dei molti discorsi tenuti dal Pontefice romano in occasioni di incontri e viaggi nei Paesi musulmani. Un percorso in cui Francesco ha cercato in al-Tayyeb un interlocutore autorevole, una controparte che possa essere riferimento per i musulmani del mondo.

 

Al-Azhar è sempre stato il riferimento più elevato nel mondo musulmano – spiega Jihad – anche se non implicava necessariamente un’obbedienza, come c’è nel mondo cattolico. Era un riferimento morale, teologico, giuridico e di interpretazione. Una grande scuola rovinata purtroppo dalla concorrenza wahabita, che con i soldi corrompe tutti. È vero che da parte del Papa c’è un tentativo intelligente di valorizzare un’istituzione islamica che nel tempo ha perso autorevolezza a causa del fanatismo islamico. Ma farebbe lo stesso nei confronti di altri, nel caso in cui un’istituzione musulmana lo invitasse. Lo vedremo a breve con il Re in Marocco

 

Tuttavia, quello negli Emirati, è un viaggio che ha ricevuto anche diverse critiche, soprattutto dai media e da alcuni rappresentanti qatarioti. A loro parere la visita del Pontefice romano poteva essere letta come una giustificazione delle violazioni commesse dagli Emirati. «Il Papa va dove viene aperta la porta. – risponde Jihad – Non ha mai negato una visita a un Paese perché politicamente è contrario alla sua visione. Anzi è proprio in questi casi che lui va, perché vuole istaurare dei ponti, aprire delle porte chiuse. Vuole portare un messaggio, come Francesco che va tra i crociati». Un gesto, come spiega Jihad, non eseguito nel ruolo di capo politico, ma come leader spirituale portatore del Vangelo di Cristo, il Vangelo della fratellanza e della misericordia di Dio.

 

Si parte dalla cosa più importante: l’umanità. L’umanità è la cosa più cara a Dio, un’umanità non nuda, ma culturale, religiosa. Un’umanità cristiana, musulmana, non credente. C’è qualcosa che sfugge alle teorie, ai dogmatici, che vogliono tutto pulito e inquadrato, come se fosse matematica. Qui si tratta di tornare all'immagine di Dio che sta impressa nel cuore di ogni essere umano.

Non si può, inoltre, dimenticare come il discorso del Papa non abbia tralasciato le importanti tematiche delle guerre di religioni e dei conflitti in Medioriente, invitando tutte le parti protagoniste a condannare la violenza in nome di Dio e a fermare il commercio di armi. Un’attenzione che porta alla luce le continue ingiustizie perpetrate in molte aree del Pianeta. Un discorso, quello sulla giustizia, particolarmente caro a Jacques Mourad, secondo il quale non c’è niente che possa giustificare il silenzio di fronte all’ingiustizia.

 

I conflitti in Medioriente – ammonisce padre Jacques – hanno fatto un grande servizio al mondo di oggi: scoprire che non c’è giustizia, in nessun Paese. Perché nessun Paese si prende la responsabilità verso quello che succede in Yemen e in Siria. E nessuno può dire “io non posso fare niente”. Tutte queste vittime, in Medioriente e altrove, sono vittime di tutto il mondo. Quando si sveglia questo mondo? E prima ancora, è importante chiedersi: perché non ci svegliamo? Perché scappiamo sempre dalla nostra coscienza? Perché questo mondo è in silenzio davanti al problema della giustizia?

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis

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