Mentre il regime riversa risorse nelle sue ambizioni regionali, cresce il malcontento interno: povertà, repressione e una generazione che rifiuta la politicizzazione della religione. Intervista all’intellettuale iraniano in esilio Mohsen Kadivar
Ultimo aggiornamento: 21/05/2025 12:15:15
Intervista a cura di Claudio Fontana
Professor Kadivar, qual è il sentimento del popolo iraniano nei confronti della Repubblica Islamica?
Prima di tutto, devo precisare che sono in esilio dal 2008; non sono un testimone diretto degli eventi in Iran, ma seguo attentamente le notizie. La principale preoccupazione della maggior parte degli iraniani, a 46 anni dalla Rivoluzione, è poter godere della semplicità di una vita normale—una richiesta minima. Gli iraniani non tollerano l’ingerenza del governo nella loro vita privata. Vogliono giustizia, libertà, stato di diritto e rispetto per l’opinione pubblica. Odiano la discriminazione. Vogliono la democrazia.
Gli iraniani sono stanchi della corruzione istituzionale e di un governo inefficiente. Soffrono sotto la dittatura e il dispotismo, specialmente quando esercitati in nome della religione, dell’Islam. Prima della Rivoluzione, erano soggetti a una tirannia secolare e filoccidentale. Dopo la Rivoluzione, a una tirannia religiosa e anti-imperialista. Vogliono buoni rapporti con tutti i paesi del mondo.
Sta dicendo che gli iraniani hanno ancora una visione positiva dell’Occidente, nonostante il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo nucleare del 2015 e la reimposizione delle sanzioni?
Certo, non sono contenti delle politiche aggressive ed egemoniche delle grandi potenze come gli Stati Uniti—e in passato, del Regno Unito, dell’Unione Sovietica e della Russia. Gli iraniani tengono molto alla sovranità e all’indipendenza.
Specialmente le classi più basse soffrono sotto il peso insostenibile delle sanzioni statunitensi, delle pressioni economiche e dell’alta inflazione. Queste sanzioni colpiscono molto più i ceti popolari che il regime teocratico o i pasdaran.
Quasi tutti gli iraniani non hanno problemi con la religione quando è una scelta libera, ma si oppongono ai tentativi del governo di imporre leggi religiose. I giovani, in particolare, enfatizzano le libertà culturali e sociali, oltre alle scelte di stile di vita personali.
Il problema principale in Iran è il dominio di una minoranza ideologica su una società diversificata. Questa minoranza—circa il 15-20%—è composta da estremisti, mentalmente chiusi, con una comprensione molto superficiale dell’Islam. Molti iraniani li chiamano Talebani. Esiste un divario significativo tra la loro visione del mondo e quella della maggioranza.
Come descriverebbe l’attuale panorama politico in Iran?
Esiste uno spettro che va dai tradizionalisti apolitici ai moderati, ai riformisti, fino ai trasformazionalisti (Tahavvol-khahan), cioè riformisti radicali. I riformisti cercano di cambiare la Repubblica Islamica dall’interno del suo quadro istituzionale, mentre i riformisti radicali vogliono modificare anche la Costituzione e rimuovere pacificamente la teocrazia. All’estremo opposto ci sono persone senza affiliazioni politiche formali. Questo spettro è fluido, e non abbiamo statistiche affidabili su dimensione o influenza di ciascun gruppo.
Il regime ha smantellato o indebolito quasi tutti i partiti politici indipendenti. Di conseguenza, la scena politica ruota attorno a figure influenti, le cui attività sono monitorate dai servizi di sicurezza o dai Pasdaran. Molte figure politiche di rilievo subiscono varie forme di repressione: l’ex presidente Mohammad Khatami è sotto restrizioni; il mese scorso Mehdi Karroubi è stato rilasciato dopo 15 anni di arresti domiciliari, mentre altri, come Mir Hossein Mousavi e Zahra Rahnavard, vi sono ancora confinati. Seyyed Mostafa Tajzadeh è tuttora in prigione.
Può aiutarci a capire la situazione nel campo riformista dopo l’elezione di Masoud Pezeshkian?
Non c’era consenso tra i riformisti sulla partecipazione alle elezioni, fortemente controllate, del 2024. Chi ha scelto di partecipare ha seguito questa logica: Pezeshkian era molto meglio di un ultraconservatore come Saeed Jalili. Tra i candidati approvati, Pezeshkian era il migliore disponibile.
In Iran le elezioni avvengono in due fasi: prima una selezione da parte del Consiglio dei Guardiani, poi il voto popolare. Il popolo ha capito che Pezeshkian è stato approvato direttamente dalla Guida Suprema per mitigare la crisi nazionale. Khamenei sembra aver riconosciuto che i suoi alleati ultraconservatori sono incapaci di risolvere i problemi del Paese. Tuttavia, non ha ancora compreso che il problema principale non è il governo in carica, ma l’intero sistema teocratico, il velayat-e faqih, e la sua leadership.
Finora Pezeshkian non ha aggravato i problemi dell’Iran, ma non sono ottimista che possa risolverne alcuno: le questioni fondamentali sono fuori dalla sua portata.
È per questo che nel 2021 ha detto che la Repubblica Islamica si stava trasformando nello Stato Islamico dell’Iran?
La Repubblica Islamica ha funzionato come un regime autoritario elettorale competitivo dal 1979 al 2019. All’inizio del 2020, è diventata un regime autoritario non competitivo.
All’epoca c’erano diversi segnali che suggerivano che la Repubblica Islamica fosse sulla strada per diventare uno Stato Islamico.
Poi, nel maggio 2024, il presidente Ebrahim Raisi è morto in un incidente in elicottero molto sospetto. Ciò ha spinto Khamenei a rivedere la sua politica: ha deciso di ripristinare una forma più debole di competizione elettorale, ritardando così la transizione a uno Stato Islamico pienamente autoritario, non elettorale, che avrebbe potuto essere definito Stato islamico. Questa trasformazione difficilmente avverrà nel periodo in cui Khamenei rimarrà in vita.
La Guida ha capito che la politica di eliminare la competizione elettorale era fallimentare. La partecipazione avrebbe potuto scendere sotto il 30% al secondo turno e quindi ha abbandonato il piano. La candidatura e la vittoria di Pezeshkian sono state una conseguenza di questa scelta.
Tuttavia, i cittadini possono votare solo per candidati approvati dal Consiglio dei Guardiani, che è controllato dalla Guida. Almeno dal 2020, nessun candidato contrario alla volontà della Guida è stato ammesso. Dopo la sospetta morte di Raisi, si tennero nuove elezioni e a un riformista – seppur debole – fu permesso di vincere.
Quindi il crollo della Repubblica Islamica è l’unico modo per ottenere un cambiamento significativo?
Se almeno la Guida smettesse di interferire in ogni aspetto della vita del Paese, un cambiamento significativo sarebbe ancora possibile. È ciò che è successo nel Regno Unito secoli fa, quando la monarchia è passata da un potere assoluto a un ruolo simbolico.
All’Iran serve una Guida simbolica, non interventista. Se Khamenei accettasse questo ruolo, allora il Presidente potrebbe davvero governare. Oggi è l’opposto: la Guida è il vero sovrano e il Presidente è simbolico. Dobbiamo invertire questa dinamica.
C’è una riflessione intellettuale in Iran sul ruolo del Paese nel Medio Oriente?
Ottima domanda. Da quanto comprendo, la maggior parte degli iraniani oggi dà priorità agli interessi nazionali. Credono che il primo dovere del governo sia soddisfare i bisogni dei cittadini – migliorare il loro benessere, eliminare la povertà. Solo dopo aver adempiuto ai propri compiti a livello interno, si può pensare al sostegno ai popoli oppressi all’estero.
Purtroppo, le priorità del governo sono invertite: prima agli oppressi nella regione, poi la risposta ai bisogni del popolo iraniano. Eppure almeno un terzo degli iraniani vive sotto la soglia di povertà. Questo dovrebbe essere il primo impegno del governo: portare il suo popolo fuori dalla povertà.
Quasi tutte le autorità sciite nei seminari – soprattutto a Qom – sostengono che si debba anteporre il benessere degli iraniani alle avventure regionali. Il governo deve ascoltare questa posizione. Ottenere la soddisfazione dei cittadini iraniani è più importante che portare avanti le proprie ambizioni regionali.
In realtà, la Repubblica Islamica usa spesso le politiche anti-sioniste e anti-imperialiste come strumenti politici, trascurando il dovere fondamentale di garantire il benessere e la soddisfazione dei propri cittadini.
Pensa che una nuova leadership possa emergere dai seminari – per esempio, da Qom – dopo la morte dell’Ayatollah Ali Khamenei? O ci sarà uno scontro tra i Pasdaran e altre figure potenti?
È molto difficile da prevedere. Secondo la Costituzione iraniana, l’Assemblea degli Esperti dovrebbe scegliere la prossima Guida. Esiste un comitato segreto che mantiene una lista ristretta di tre candidati, e credo che la selezione avverrà tra di loro. Ma solo l’attuale Guida sa davvero chi potrebbe essere il successore. Per quanto ne so, nessuno di questi candidati è un’autorità sciita di rilievo proveniente da Qom. Ha senso: il regime non cerca competenza giuridica, ma esperienza amministrativa, che non si trova tra i giuristi tradizionali. Pertanto, se vogliamo identificare un potenziale successore, dobbiamo guardare all’interno della cerchia ristretta della Guida, non tra i religiosi di Qom.
Quale potrebbe essere la reazione dei Pasdaran a una tale transizione?
Mi è stato chiesto molte volte, ma ogni risposta è speculativa – semplicemente non lo sappiamo. Sappiamo che lo stesso Khamenei ha attraversato questo processo quando ha preso il posto dell’Ayatollah Khomeini. All’epoca, Khamenei ha avuto un ruolo attivo nella scelta dell’Ayatollah Montazeri come successore, anni prima della morte di Khomeini, ma quel piano è infine fallito.
Data quell’esperienza, è probabile che nessun successore ufficiale venga annunciato pubblicamente questa volta. Molto probabilmente, Khamenei lascerà un testamento e nominerà il suo successore solo alla fine.
L’Assemblea degli Esperti sarà quindi aggirata?
Sì, la decisione reale avverrà probabilmente al di fuori dell’Assemblea degli Esperti. Oggi l’Iran ha due centri di potere: l’Ufficio della Guida e i Pasdaran. Queste due forze collaborano, anche se tra loro esistono alcune divergenze.
L’unica previsione che mi sento di fare con certezza è questa: la prossima Guida dovrà avere esperienza amministrativa. Ciò significa che il candidato potrebbe provenire da ex presidenti o ex capi del potere giudiziario. Le autorità sciite mancano dell’autorità politica, del potere e dell’esperienza necessari per tale ruolo. Tuttavia, candidati potenziali come Hassan Rouhani e Sadeq Larijani sono già stati messi ai margini, e Mahmoud Hashemi Shahroudi è deceduto. L’attuale capo del potere giudiziario non sembra qualificato per la posizione. Quindi, non ci resta che attendere.
Quali sono le sue riflessioni sulle implicazioni più ampie degli eventi recenti in Palestina, specialmente dopo il 7 ottobre 2023 e la guerra che ne è seguita?
Contrariamente a quanto rappresentano molti media occidentali, la questione della Palestina non è iniziata il 7 ottobre 2023. Per comprendere la situazione attuale, dobbiamo tornare al 1948 e persino al 1917. Senza quel contesto storico, non possiamo cogliere la realtà della regione.
La questione palestinese è radicata in un conflitto sulla terra. Coinvolge gli abitanti originari – ebrei, cristiani e musulmani – da un lato, e gli immigrati ebrei influenzati dall’ideologia sionista secolare, sostenuti dal Regno Unito e dagli Stati Uniti, dall’altro. Dal punto di vista sionista – che è distinto dall’ebraismo – i palestinesi non hanno alcun diritto di vivere nella propria terra. Questo è stato espresso apertamente da vari funzionari israeliani, alcuni dei quali hanno definito i palestinesi “animali umani”. In questa logica, ogni palestinese che resiste all’occupazione, all’apartheid o allo sfollamento può essere ucciso – e molti lo sono stati – inclusi bambini, neonati, donne e anziani. Hanno giustificato questo orribile crimine dicendo che stavano uccidendo gli amaleciti.
Quello che è accaduto negli ultimi 18 mesi è semplicemente la continuazione dei crimini sionisti dell’ultimo secolo. Condanno senza riserve l’uccisione di qualsiasi persona innocente, indipendentemente dalla nazionalità o dalla religione.
I palestinesi hanno diritto alla loro terra, al loro Paese e alla loro sovranità – questo è affermato dal diritto internazionale. Il diritto all’autodifesa non appartiene esclusivamente agli ebrei. Secondo le sentenze della Corte Internazionale di Giustizia e i rapporti di Amnesty International, gli aiuti militari statunitensi a Israele sono stati utilizzati per sostenere atti di genocidio e pulizia etnica. Questo non è solo inaccettabile, ma, a mio avviso, incostituzionale secondo la legge americana.
Questi eventi rappresentano un serio banco di prova per le affermazioni dell’Occidente su umanità, democrazia, pace e sicurezza. Il mondo osserva per vedere se quei valori sono reali o solo retorica. Questo è un momento decisivo: una linea chiara tra democrazia e ipocrisia. L’intero mondo musulmano, senza eccezioni, insieme a ebrei e cristiani progressisti, sostiene la creazione di uno Stato palestinese indipendente.
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