Le tensioni interne al fronte conservatore iraniano aprono nuovi interrogativi sull'assetto politico della Repubblica Islamica. La graduale sostituzione del clero con figure legate ai vertici militari può portare a un sistema ancora più autoritario
Ultimo aggiornamento: 01/07/2025 11:46:35
La “guerra dei dodici giorni” tra Israele e Iran avrà certamente ripercussioni di lunga durata. Non solo perché la tensione tra i due Paesi è tutt’altro che risolta, ma soprattutto perché le conseguenze di eventi di tale portata tendono a manifestarsi nel tempo.
L’attacco israeliano all’Iran, iniziato il 12 giugno scorso e conclusosi formalmente con l’annuncio di una tregua da parte del presidente statunitense Donald Trump, ha interrogato diversi analisti internazionali — così come una parte significativa della diaspora iraniana — circa la possibilità di un cambio di regime a Teheran. Non sorprende che, poche ore dopo l’attacco, Reza Ciro Pahlavi abbia dichiarato dagli Stati Uniti la sua disponibilità a mettersi al servizio del popolo iraniano per guidare una transizione politica. Non solo Pahlavi, ma anche il premier Benyamin Netanyahu e la destra israeliana, da sempre ostili alla Repubblica Islamica, sembravano auspicare un simile scenario (e non è detto che vi abbiano del tutto rinunciato).
Ma il sistema politico iraniano è davvero così fragile da poter crollare? E soprattutto, come reagirebbe la popolazione iraniana a una simile eventualità? Senza voler proporre scenari irrealistici, è opportuno esaminare la situazione interna del Paese per provare a rispondere a queste domande.
Parlare di regime change in Iran, soprattutto se indotto dall’esterno, significa trascurare alcune questioni fondamentali. In primo luogo, un’eventuale caduta forzata della Repubblica Islamica non garantirebbe affatto l’instaurazione di un governo più vicino all’Occidente o meno ostile verso Israele. Diversamente da quanto avvenne nel 1979, oggi in Iran manca un’opposizione strutturata che possa guidare il Paese verso una transizione politica. La caduta forzata del regime comporterebbe, nel migliore dei casi, caos e distruzione; nel peggiore, potrebbe aprire la strada all’instaurazione di un sistema ancora più oppressivo di quello attuale. È evidente che il regime change, tanto auspicato da alcuni ambienti politici statunitensi e israeliani, rappresenti uno scenario estremamente rischioso e potenzialmente disastroso. In secondo luogo, sebbene gran parte della società iraniana esprima forti critiche al regime, non vi è un consenso diffuso a favore di un cambiamento di governo improvviso, soprattutto se imposto attraverso un conflitto e influenzato da interessi stranieri.
Queste osservazioni si collegano ad alcune dinamiche strutturali della politica e della società iraniana che vanno tenute in considerazione. La scena politica interna, infatti, è segnata da oltre un decennio da una crescente polarizzazione. In Iran, non esiste un’opposizione organizzata e strutturata che si ponga apertamente contro il sistema politico (il nezam). La dialettica politica si svolge piuttosto tra fazioni interne al sistema stesso che, pur differenziandosi per idee e priorità, riconoscono la legittimità delle istituzioni della Repubblica Islamica. Tale polarizzazione ha marginalizzato sempre più gli esponenti del fronte riformista e ha aperto un acceso dibattito all’interno dei conservatori. È interessante notare, infatti, che il nuovo presidente centrista, Masoud Pezeshkian, ha formato nel 2024 un gabinetto in parziale continuità con quello del suo predecessore, il conservatore Ebrahim Raisi, assegnando circa un quarto dei ministeri a esponenti dell’area conservatrice — in particolare nei dicasteri chiave come Interni, Intelligence e Giustizia. Ciò suggerisce uno scenario politico interno in continuità con l’orientamento conservatore e la marginalizzazione dell’ala riformista e pragmatica.
Mentre la storica contrapposizione tra conservatori e riformisti, per quanto semplificata, non rappresenti più la dinamica centrale della politica iraniana, è proprio all’interno del fronte conservatore che emergono oggi le fratture più significative. In questo ampio ed eterogeneo campo si osserva uno scontro generazionale che ha un ruolo chiave per i futuri sviluppi del Paese. Da un lato, vi è la “vecchia guardia”: rivoluzionari e religiosi protagonisti del 1979, insieme ai militari che combatterono nella guerra contro l’Iraq negli anni ‘80, oggi saldamente radicati nelle posizioni di potere. Dall’altro lato vi sono i cosiddetti “neo-conservatori”, una generazione più giovane, ideologicamente più rigida e fortemente militante, che sta progressivamente sostituendo l’élite tradizionale, grazie a una combinazione di fattori anagrafici, ideologici e politici.
La nuova generazione di militari è spesso in contrasto con i vertici dell’apparato di sicurezza, considerati inadeguati ad affrontare le sfide sempre più complesse con cui il Paese si trova a fare i conti. Tra queste, i recenti attacchi israeliani contro siti nucleari e installazioni militari, ma anche le ripetute infiltrazioni nei sistemi di sicurezza interni, l’uccisione — avvenuta nel corso degli anni — di figure chiave del programma nucleare iraniano e, più recentemente, del capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh. Questi episodi hanno esposto l’Iran a pesanti critiche per la vulnerabilità del suo sistema di difesa e di sicurezza. In questo contesto, l’“eliminazione chirurgica” dei vertici dei Pasdaran, tra gli obiettivi della operazione militare israeliana Rising Lion, potrebbe non indebolire l’apparato militare. Al contrario, potrebbe aprire uno spazio all’ascesa di nuove figure, più giovani e spesso più ideologizzate, rafforzando in ultima analisi la componente militare del sistema politico.
A partire dai primi anni 2000, si è resa sempre più evidente la progressiva sostituzione, all’interno delle istituzioni iraniane, come il parlamento e i ministeri, delle figure del clero con personalità legate all’apparato militare. Questo ricambio non sembra rispondere a una strategia pianificata, ma piuttosto riflette un naturale processo di transizione generazionale. Questa trasformazione nella composizione della classe dirigente potrebbe avere implicazioni rilevanti nel medio periodo: da un lato, un possibile allentamento sugli aspetti religiosi; dall’altro, un esercizio del potere più autoritario e con tratti più “militareschi”. In altre parole, l’uscita di scena delle figure religiose (così come la stessa successione dell’attuale Guida Suprema Ali Khamenei) non implica automaticamente un’evoluzione del sistema politico verso forme più liberali, aperte o moderate. Anzi, il rischio principale di un regime change improvviso è proprio quello di lasciare il campo a forze più intransigenti e ideologizzate.
Per quanto riguarda la società iraniana, questa ha sempre scongiurato una “seconda rivoluzione”, ovvero un cambio di regime violento e improvviso, preferendo invece riforme sistemiche e graduali, come prometteva il fronte riformista. Sebbene gran parte della popolazione sia critica nei confronti del sistema politico, l’incertezza e il caos che potrebbero seguire a un intervento esterno sono considerati un rischio ben maggiore e, dunque, come uno scenario da evitare. Se una parte della diaspora ha strizzato l’occhio ai bombardamenti israeliani vedendoli come uno strumento per far cadere il regime, la popolazione iraniana ha vissuto l’attacco come un atto criminale diretto contro il popolo, la patria e l’identità nazionale.
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