Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:40:03

Siamo di fronte a un dato di fatto: le nostre società sono sempre più plurali, cioè caratterizzate dalla co-presenza di popolazioni, etnie, culture, valori, credenze e religioni diversi. Questo urge a una serie di riflessioni. Prima ancora di interrogarci (come peraltro Oasis fa da anni) sulla “reciproca conoscenza e l’incontro tra cristiani e musulmani”, dobbiamo interrogarci sulla religiosità degli italiani in Italia e come questa può favorire proprio questo processo di conoscenza, incontro e dialogo con le altre fedi. Per rispondere alla questione cruciale relativa a qual è la rilevanza della religione nello spazio pubblico, faccio riferimento a un’ampia ricerca longitudinale, cross-nazionale sui valori, la European Values Study , che indaga gli orientamenti degli europei su: vita, famiglia, lavoro, religione, politica e società. Qui mi soffermo sulla parte relativa al contesto italiano. La religiosità in Italia Un primo dato di fondo sulla religiosità che emerge è che l’Italia, rispetto alla maggioranza degli altri Paesi, si caratterizza ancora per la preponderanza di una specifica fede, quella cattolica, cui aderisce il 78% degli italiani e per il fatto che il processo di secolarizzazione delle coscienze è più contenuto. Sulla base di un indice di secolarizzazione che tiene in considerazione la pratica religiosa, la credenza e l’importanza data alla religione nella propria vita, si nota che gli italiani sono significativamente al di sotto del livello medio generale di secolarizzazione, posizionandosi al 39° posto nella graduatoria dei 48 Paesi considerati. I più secolarizzati sono: la Germania dell’Est, la Repubblica Ceca, la Svezia, l’Estonia e la Francia. I meno toccati, invece, da questo processo sono in ordine: Malta, Cipro, Turchia, Georgia e Polonia. Un altro elemento importante è che non è vero quanto da diversi decenni i mass media vanno dicendo e cioè che le chiese in Italia si stanno svuotando. I dati rilevati da 12 indagini nazionali evidenziano che negli ultimi 40 anni la partecipazione settimanale ai riti religiosi, nella popolazione di 18-74 anni, è abbastanza costante, perché oscilla tra il 28% e il 30%. Circa il 20-22% è totalmente estraneo e l’altra metà ha una frequenza discontinua e saltuaria. I dati sopra esposti, però, non devono far pensare che in Italia non vi siano cambiamenti sul versante della religione; questi ci sono, sono rilevanti e differenziano molto le categorie sociali tra loro. Le trasformazioni riguardano un nuovo modo di vivere e concepire il proprio rapporto con il sacro. Sono sostanzialmente tre gli aspetti che stanno cambiando profondamente: il processo di individualizzazione del credere; un nuovo modo di porre il problema della “verità” in campo religioso; un rapporto diverso con l’istituzione religiosa. 1. Sul primo aspetto, l’individualizzazione, è significativo che, su una questione centrale per un cattolico, come è quella della credenza in un Dio personale e creatore, solo poco più della metà degli italiani (56,7% nella popolazione 18-74 anni) affermi di condividere questa idea di Dio, anche se l’area dell’ateismo dichiarato è da anni circoscritta attorno al 5%. Praticamente più di un italiano su tre è maggiormente propenso a credere ad una realtà misteriosa e vaga o non sa pronunciarsi sull’argomento. Tra le diverse categorie di soggetti, sono i giovani ad essere maggiormente toccati da questa trasformazione: il 51% non crede ad un Dio personale e creatore che ama il genere umano e preferisce il vago riferimento a qualcosa di simile a una forza impersonale (26%) o non crede in nessun Dio, spirito o forza vitale (8%) o, ancora, non sa cosa rispondere (15%). Esiste quindi un’area intermedia tra credenza in un Dio personale e non credenza, che è in forte espansione e che ha dato origine a una situazione completamente nuova. Rispetto al passato questa situazione, per alcuni studiosi, sarebbe caratterizzata dal fatto che l’atteggiamento di “ricerca” sta diventando il modello fondamentale della vita spirituale, ma con forti tratti d’individualizzazione, perché si contrappone alle pretese di autorità avanzate dalle chiese in questo campo. Eppure il processo di individualizzazione del credere non porta necessariamente a posizioni di “individualismo” in campo religioso (anche se questo sbocco è sicuramente reale in molti soggetti) né sta portando ad una progressiva irrilevanza della dimensione religiosa, ma ad un diverso modo di rapportarsi ad essa. Basti pensare che, nonostante si registri un calo in percentuale negli ultimi dieci anni su molti indicatori di religiosità istituzionale, non risulta diminuire l’importanza che le persone danno alla religione nella propria vita (32,8% molto e 38,9% abbastanza). Si può concludere, quindi, che la stragrande maggioranza degli italiani si definisce “persona religiosa”, ma pensa a questa componente della propria identità in forme molto differenziate e soggettive. 2. Il secondo aspetto, il problema della verità, potremmo sintetizzarlo con queste parole: si sta passando dall’atteggiamento di “esclusione” a quello di “inclusione”. È forse questo il trend più significativo in campo religioso, non solo in termini quantitativi ma anche qualitativi. I dati che meglio fanno emergere questo cambiamento riguardano l’idea che gli italiani hanno della propria religione rispetto alle altre. Si nota, infatti, per un verso, una forte e crescente apertura alle altre religioni e, per un altro, una prospettiva diversa con cui si guarda al problema della verità in questo ambito. Si tratta di una visione in cui la verità perde il carattere sia “esclusivo” che “esaustivo” e diventa oggetto di ricerca e riflessione continua. La sicurezza e la fiducia nella propria religione viene sempre più radicata nella sua “validità”, aspetto che anche il comune fedele può cogliere sia nel proprio vissuto religioso, sia nei messaggi veicolati dalla sua e dalle altre religioni. Per il mondo cristiano il messaggio centrale è fortemente universalistico e quindi massimamente inclusivo. Il percorso seguito dalla maggioranza delle persone oggi sembra prendere le mosse prevalentemente dalla “validità” della sua religione per arrivare poi alla “verità”, in forza di una fede che si cerca di legare sempre più ad una riflessione personale e ad un vissuto esperienziale. 3. Sul rapporto con l’istituzione religiosa, si rileva che in generale viene privilegiato il rapporto personale e diretto con il trascendente, che fatalmente riduce il peso della mediazione dell’istituzione religiosa. Questo rapporto labile è massimamente visibile nello scarso rispetto delle norme e delle indicazioni che la Chiesa cattolica impartisce ai suoi fedeli in campo morale. Questi risultati mettono in luce quindi l’importanza che la religione ricopre nella vita degli italiani, ma ancora non ci dice di come questa possa contribuire all’edificazione di una vita buona personale e comunitaria in società sempre più plurali e quindi tendenzialmente conflittuali. Per questo dobbiamo fare riferimento a come la religiosità, l’esperienza valoriale connessa alla religione e alla pratica religiosa si trasferisce nella pratica solidaristica e come la religione consente di “vincere” sulle paure e sul pregiudizio verso il diverso. La religione e la paura del diverso Interrogarci sul sentimento di vicinanza e di lontananza verso le persone che ci circondano permette di capire le nostre capacità di stare con gli altri e nello stesso tempo i nostri pregiudizi e le nostre paure. Queste dimensioni della personalità e della vita sociale vengono esaltate dall’elevato pluralismo culturale entro cui siamo chiamati a vivere e dalla necessità di saperci confrontare continuamente con chi è diverso da noi. Il problema non è nuovo, ma è innegabile che l’arrivo nel nostro paese di milioni di immigrati in “cerca di fortuna” abbia reso più evidente quanto forti possano essere le barriere da superare per giungere a un accettabile grado di comprensione reciproca e di integrazione. A conti fatti, il problema è stato (e continua ad essere) più forte nel contesto della convivenza abitativa rispetto al mondo del lavoro o della scuola, dove la cooperazione e l’accoglienza sono maggiormente visibili; si deve però riconoscere che la presenza degli stranieri diventa spesso oggetto di allarme politico-sociale, alimentato attraverso alcuni classici stereotipi e pregiudizi che anche la quarta indagine EVS ha continuato a monitorare. Contrariamente a quanto si cerca di far credere, gli italiani non sembrano tanto preoccupati del fatto che gli immigrati portino via il lavoro: quasi il 40% è dell’idea che questo non succeda, contro il 35% che invece si colloca sul versante opposto. Non c’è accordo elevato neppure sull’affermazione che la vita culturale italiana sia indebolita dalla presenza degli immigrati (il 46% è in disaccordo con questa affermazione). Le preoccupazione maggiori si colgono invece riguardo all’aumento della criminalità (64% sul versante dell’accordo) e alla densità degli insediamenti (44% sul versante dell’accordo). Una certa preoccupazione si coglie anche relativamente al sovraccarico del sistema di welfare (40% sul versante dell’accordo). Interessante appare la distribuzione dell’accordo-disaccordo rispetto al mantenimento della propria cultura da parte degli immigrati: il 42% degli intervistati ritiene infatti che per la società italiana sia meglio che gli immigrati non mantengano la loro cultura, manifestando in tal modo un’idea assimilazionista, secondo cui chi arriva deve acculturarsi e abbandonare i propri riferimenti culturali. Solo il 23% degli intervistati è in disaccordo con questa affermazione e considera importante il mantenimento della cultura di origine da parte degli immigrati, manifestando un’idea di tolleranza, accettazione e a volte anche di interesse per le culture altre. Una seconda batteria di domande – basata sul rifiuto ad avere come vicini di casa una serie di soggetti in qualche misura problematici (dai devianti agli alcolisti, dai musulmani ai malati di AIDS, dagli zingari ai soggetti politicamente collocati nell’estrema destra o estrema sinistra) -– aiuta ad approfondire l’estensione di alcune paure e di alcuni pregiudizi sociali che possono avere conseguenze anche sul piano della domanda politica. Le risposte degli intervistati appaiono interessanti soprattutto perché mostrano chiaramente una sorta di «gerarchia di distanziamento», basato essenzialmente sul bisogno di sicurezza e di rassicurazione, molto evidente in una società altamente rischiosa, connotata da una richiesta di protezione in continua crescita. La graduatoria della presa di distanza vede al primo posto gli zingari (indicati dal 62% degli intervistati), seguiti dai drogati (58%), dalle persone con precedenti penali (51%), dagli alcolisti (44%), dalle persone emotivamente instabili (38%) e dai malati di AIDS (29%). In questa graduatoria si conferma ciò che era già stato individuato nelle precedenti indagini EVS, in particolare quella riferita al 1999, nella quale ai primi tre posti figuravano zingari, drogati e persone con precedenti penali. Relativamente contenuto è il rifiuto nei confronti di persone di razza diversa (15%), degli immigrati e dei lavoratori stranieri (16%) e degli ebrei (12%), mentre un po’ più elevato è il rifiuto nei confronti dei musulmani (22%), con un incremento rispetto al 1999. Di scarso peso (11%), anche se non del tutto irrilevante, è infine il rifiuto verso le famiglie numerose, che possono creare fastidio più che pericolosità. Per cogliere in modo più sintetico l’insieme di questi atteggiamenti è stato costruito un Indice di distanza sociale (IDS) che in quasi la metà dei casi (48%) si attesta su un livello basso, mentre per un quarto circa si attesta sul livello alto (23%). Considerando l’IDS in relazione ad alcune variabili strutturali, si può osservare come i livelli bassi appartengano più alle femmine che non ai maschi, anche se la stessa cosa si nota nei livelli alti di distanza sociale, dove i maschi registrano un 22% rispetto al 25% delle femmine. Inoltre, riguardo all’età, questa si rivela essere decisamente discriminante; infatti al crescere dell’età crescono anche i livelli di distanza sociale, soprattutto nelle due fasce di età più avanzata (oltre i 65 anni), mentre il basso livello di distanza sociale si nota soprattutto nella fascia giovanile tra i 25 e i 34 anni. I valori socio-politici: fiducia, libertà, solidarietà Un’altra sezione della survey sui valori degli europei (2009) è stata dedicata alla rilevazione degli orientamenti sociali e politici degli italiani. Tra gli elementi che strutturano gli orientamenti sociali e politici degli italiani occupa un posto di rilievo il senso di solidarietà verso gli altri, a cominciare dai più vicini fino ai più lontani. Per stimare questo aspetto la quarta indagine EVS ha utilizzato tredici indicatori di solidarietà riducibili a quattro dimensioni tra loro indipendenti: a) l’interesse per le condizioni di vita degli altri, siano essi della medesima regione o connazionali o europei o membri di tutto il genere umano o immigrati; b) l’interesse per le condizioni di vita di italiani in diversi stati di bisogno; c) l’interesse alle condizioni di vita di parenti e vicini; d) l’orientamento a non fare solo gli affari propri e il collaborare con le istituzioni per assicurare l’ordine sociale. L’interesse per le condizioni di vita delle persone non prossime si concentra in modo significativo sugli immigrati (moltissimo + molto interesse: 25%) indicati al secondo posto dopo gli appartenenti al “genere umano” (30%). La quota di italiani che si disinteressano sostanzialmente di chi non è prossimo è una minoranza, che oscilla attorno al 30%, ma comunque elevata. La quota degli individualisti sociali è un po’ meno del quarto della popolazione, contro circa la metà che manifesta tendenze solidali. Questo vuol dire che le posizioni socialmente individualiste dichiarate da una quota tra il terzo e il quarto degli italiani non sono tali da impedire di mobilitare attenzione e interesse per categorie in condizioni di bisogno e tanto meno per negare il proprio contributo all’ordinato mantenimento dell’ordine sociale. A seconda delle posizioni sociali il quadro complessivo si differenzia. Vediamo come: le donne per esempio tendono a essere più solidali con gli altri, con le persone prossime, ma anche con i bisognosi e gli immigrati. Anche la posizione religiosa determina differenziazioni. Nelle precedenti indagini EVS una più forte religiosità induceva una più sentita solidarietà. Tale risultato viene sostanzialmente confermato. Gli appartenenti a una religione sentono più solidarietà verso i bisognosi e i prossimi e la solidarietà nelle sue varie dimensioni caratterizza maggiormente i praticanti più regolari rispetto ai praticanti più di rado e i praticanti occasionali. Una religiosità più forte e convinta circa l’esclusiva propria verità risulta associata a una solidarietà di tipo comunitario o ispirata alla virtù della carità verso i bisognosi. Una posizione atea o agonistica risulta per contro meno sensibile ai valori di solidarietà. Una religiosità più forte, ma più aperta al contributo di verità anche delle altre religioni, risulta estendere maggiormente gli ambiti di attenzione per gli altri oltre a quelli della prossimità di luogo o di sangue, includendo più agevolmente immigrati e persone non prossime. In conclusione, i dati della survey EVS ci restituiscono un quadro molto composito dell’Italia come scenario plurale, come luogo di approdo e accoglienza del diverso, luogo che non è neutro ma che ha una sua precisa caratterizzazione culturale, valoriale e religiosa. È necessario comprendere questi aspetti dell’Italia se vogliamo capire o tentare di prefigurare come si articolerà l’incontro con il diverso reale e non solo immaginato (il migrante). La famiglia: ambito di trasmissione dei valori I dati ci mostrano un’Italia religiosa e con un orientamento aperto e tollerante verso le altre confessioni. Questa identità valoriale italiana nasce e viene trasmessa principalmente nelle famiglie, che sono il vero tessuto generativo dei valori e delle pratiche solidaristiche dei nostri connazionali. Avviene un processo analogo (e alcune ricerche recenti condotte dal Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla Famiglia dell’Università Cattolica sulle famiglie arabe in Lombardia e sulle seconde generazioni lo confermano) anche nelle famiglie migranti, in specie nelle famiglie di cultura musulmana. La famiglia è il contesto di prossimità nel quale può essere osservata una temporalità situata la quale svolge un ruolo fondamentale nella dinamica della trasmissione tra le generazioni del patrimonio simbolico-valoriale, la cui costituzione dipende in misura determinante dalla memoria individuale e generazionale ma anche da quella collettiva e culturale. Infatti, il noi delle famiglie si innesta sulle generazioni precedenti, comprende chi è ancora sulla scena e chi ne è uscito e si apre alle generazioni future . La relazione tra tradizione (intesa in senso dinamico come agency, cioè azione umana tra i soggetti e come ciò che vale la pena di trasmettere) e trasmissione intergenerazionale viene esplicitata in modo particolare nelle fasi di transizione (personali, familiari e sociali). In tal senso l’esperienza della migrazione mette in luce bene il legame drammatico tra questi diversi aspetti. In una fase “rischiosa” come quella migratoria le persone sono chiamate a misurarsi con le loro tradizioni ed origini e a confrontarle con quelle della società ospite, attuando, con vari gradi di consapevolezza, un processo riflessivo. La famiglia nella migrazione svolge la funzione cruciale di realizzare diverse forme di mediazione culturale, che rendono possibili i processi interculturali, vale a dire una premessa indispensabile per una convivenza pacifica di individui di diversa provenienza etnica e culturale. I processi di integrazione e acculturazione sono strettamente connessi con l’organizzazione e la cultura familiare e con la sua capacità di avvicinare le differenze, di accogliere le novità del diverso contesto di vita, di integrarle in forme più o meno coerenti con i preesistenti sistemi di valori. Tuttavia il rapporto tra la famiglia e il contesto sociale di accoglienza è spesso percorso da conflitti e criticità: le famiglie migranti che provengono da contesti distanti dall’Occidente per riferimenti culturali e valoriali possono sentirsi attratti dai codici della nostra società e possono avvertire un senso di pressione nei confronti dei valori, delle tradizioni e delle regole di vita del contesto di origine. Non di meno, le famiglie saranno in grado di interpretare e modellare attivamente queste influenze e decidere, entro un certo margine, come inserirle all’interno della propria esistenza quotidiana e del proprio universo valoriale. La relazione complessa tra famiglia immigrata e società d’accoglienza può quindi configurare diverse forme di regolazione delle distanze, in cui la famiglia stessa può assumere il ruolo di ponte tra il migrante e la nuova cultura, oppure, su un percorso esattamente inverso, quello di una fortezza nei confronti della quale gli spazi di dialogo rischiano di ridursi, sin quasi a scomparire. La necessità di riconsiderare i fenomeni migratori come eventi familiari apre quindi alla possibilità di comprendere meglio la complessità del fenomeno, ma al contempo pone una serie di quesiti di ordine etico e culturale che non è possibile trascurare. Questo vuol dire che bisogna fare perno sulla capacità di essere e generare capitale sociale delle famiglie (siano esse della società di accoglienza o famiglie migranti) e che bisogna lavorare al loro fianco e sostenerle perché siano in grado di svolgere questa importante mediazione tra i valori e la società.