La fiction della Rai su Chiara Lubich racconta con intelligenza, lealtà e rigore la storia della fondatrice del movimento dei Focolari

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:04:02

A una prima impressione, il titolo della fiction Rai dedicata dal regista Giacomo Campiotti al ritratto di Chiara Lubich, L’amore vince tutto, appare stucchevole. Perché è una frase un po’ così, di quelle che si attirano l’antipatia dei duri; e anche perché non sembra tanto vero che l’amore vinca tutto. A volte, “l’amore non basta”, come recita il titolo di un libro. Se i titoli normalmente servono a far entrare la gente al cinema, qui però accade una cosa insolita: a un certo punto della storia, il film prende sul serio il titolo, lo mette alla prova, addirittura lo sfida. Come va a finire la gara, lo sappiamo. Non solo perché si tratta di un film che, senza essere “storico” in senso pedante, racconta bene la nascita del movimento dei Focolari. Lo sappiamo anche perché la storia si snoda in flashback e comincia dalla fine, quando Chiara, maestrina di Trento, arriva in Vaticano. Davanti al Sant’Uffizio, dovrà rispondere delle accuse fatte al suo movimento. Le più gravi, «promiscuità tra uomini e donne», «aver portato divisioni e discordie nel seno della nostra madre Chiesa».

 

Sappiamo come va a finire perché oggi, a cento anni dalla nascita di Chiara (all’anagrafe, Silvia), sono oltre due milioni i focolarini che vivono in 194 nazioni nel mondo ed è aperta una causa di beatificazione per lei, la fondatrice. Ma ignoriamo i particolari: come e perché Chiara si sia trovata davanti ai giudici del Sant’Uffizio (un nome per tutti tra gli interpreti, l’eccellente Paolo Graziosi), cosa sia accaduto dopo. Così, la sceneggiatura, firmata dal regista Campiotti insieme a Francesco Arlanch, Luisa Cotta Ramosino e Lea Tafuri, ci incatena con sapienza ad una minaccia grave e concreta, “lo scioglimento del movimento”. Ed eccoci già catturati, quando ci investono le prime immagini in flashback, quelle della guerra in una città, Trento, devastata dai bombardamenti. Cinque anni prima di quella visita in Vaticano, nel settembre 1943, Cristiana Capotondi è Chiara, la maestra che si prende cura dei suoi bambini mentre le bombe distruggono la città. Li raccoglie, li consola, li protegge, li salva. Più che credibile in un ruolo che pare modellato su di lei, la Capotondi è attrice insolita per il cinema italiano, sensibile e intensa, dalle fattezze dolci e dall’espressione ferma: in lei, la disperazione, che dilaga in un tempo senza luce, se la gioca con una positività che deborda da gesti e sorrisi, che ha la meglio sulle lacrime.

 

Bastano poche inquadrature a presentare la famiglia Lubich: il padre amorevole, socialista e disoccupato (anzi, disoccupato perché socialista), la madre ansiosa, due sorelle e Gino, il fratello maggiore che fa il medico a Trento e presto vedremo scalare le montagne come partigiano. Poi, qualche flash sui tempi che corrono: il dolore nelle corsie dell’ospedale semidistrutto, i morti abbandonati nei corridoi, il ritratto di un bambino in mano a una prostituta. Fuori, tra i fuochi accesi di notte per le strade, il coprifuoco, i piccoli gerarchi locali, le divise tedesche che controllano chi torna a casa in bicicletta. Se fin dall’inizio Chiara si presenta come una madre senza bambini (un ruolo che ricorda quello della madre adottiva nel cortometraggio Sulla poltrona del Papa, che la Capotondi dirige e interpreta nel 2014 come regalo a papa Francesco per il primo anno di pontificato), una delle scene più intense del film è quella in cui il bambino Camillo, allievo prediletto, è solo nella camera mortuaria, immobile tra le due lettighe su cui i genitori, morti durante il bombardamento, dormono un sonno eterno. Alla maestra, Camillo chiede perché Gesù non abbia ascoltato le sue preghiere. È una domanda che si può fare solo ad una madre. E Chiara risponde con la sicurezza semplice della mamma che riesce a dire l’indicibile con tre parole e un abbraccio: «Non lo so».

 

La semplicità di Chiara è la risposta al mistero dell’amore che le si presenta, nelle forme opposte dell’orrore e della speranza, mentre cammina tra le macerie della città e della vita. Davanti ai suoi occhi, una donna viene catturata e giustiziata dai soldati tedeschi. Poco dopo, la sorprende la bellezza di una bambina, vestita di stracci, un fiore rosso in mano. Turbata, Chiara si ferma davanti a un altarino della Madonna. Ai piedi di Maria, un altro fiore rosso la attira. Quello che accade poi, non si annuncia con effetti speciali: riconosciamo che qualcuno le parla solo attraverso l’intensità dello sguardo, negli occhi chiari sgranati, increduli dapprima, poi esultanti. Una chiamata imprevista, un innamoramento, il destino che si gioca nell’istante di un . La voce – racconterà poi a un padre cappuccino – le ha detto: «Datti tutta a me». E lei ha risposto. Non si farà suora ma laica consacrata. Eccolo, il segreto dell’amore “che vince tutto”. Non è il nostro, debolissimo e fragile, non solo. È l’amore di un altro, da riconoscere, a cui rispondere. Nel film di Campiotti, ciò che vince tutto è la semplicità di Chiara nel dare la sua risposta appassionata e totale, la volontà «di non anteporre niente al desiderio di seguire Cristo. Solo Dio è quello che resta».

 

A questo punto, inizia l’avventura appassionante – così difficile da incontrare al cinema o in televisione – del carisma, la forma di un incontro personale con Cristo che come movimento si definisce nel tempo e nello spazio della storia e si allarga agli altri. «Il carisma è come una finestra attraverso cui si vede tutto lo spazio» scriveva don Luigi Giussani. E il film, con intelligenza, racconta questo sguardo nuovo che si dilata nel momento drammatico della guerra e del dopoguerra, scandisce i primi passi di una identità gioiosa e forte, allude alle scoperte e anche agli ostacoli che si presenteranno davanti agli occhi di Chiara e delle sue sorelle. Una rivelazione – questa dei divieti, delle reticenze ecclesiastiche, dei controlli e dei processi subiti dal movimento, ma anche della paternità di tre papi diversi – narrata con grande lealtà e rigore, senza esagerazioni o vittimismi.  Inutile dire che la visione certa di Chiara, la fermezza con cui resta fedele alla vocazione, anche quando le viene chiesto il sacrificio delle dimissioni, la generosità e l’obbedienza con cui risponde alla Chiesa, contribuiscono a disegnare una figura femminile interessante e moderna. Ancora una volta, Campiotti gioca con le suggestioni senza abusarne. Perché Chiara non è Giovanna d’Arco e non aspira a fare il prete, non è arrogante né saputella. E il regista non cede mai alla facile tentazione di farne un’eroina, una femminista ante litteram o un santino. Anzi, nei giochi con le amiche, nella tenerezza verso i più poveri, nel perdono che sa concedere, la tratta sempre come una donna vera, che guarda lontano e risponde alla realtà con la grazia, la leggerezza e anche quel pizzico di ironia di chi sa che il mondo, nonostante tutto, è in buone mani.

 

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