Dalla Bosnia all’Iran e fino alla Tunisia il cinema documenta la medesima fatica di popoli che vedono il bisogno di libertà, di relazioni autentiche e di narrazione reciproca schiacciato da sistemi di leggi che anziché governare la realtà, sembrano allontanarsi da essa fino, a volte, a tradirla o negarla.

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:35:54

È un segno dei tempi l’Oscar 2012. E il risultato è chiaro da far paura: Iran batte Israele 1 a 0. L’iraniano Una separazione di Asghar Farhadi vince l’Oscar come migliore film straniero e l’israeliano Footnote di Joseph Cedar rimane a piedi, nonostante sia un film che racconta la storia interessante di un conflitto tra un padre e un figlio che si contendono la gloria terrena, mentre si occupano di Talmud. Bello scontro e onore al vincitore che, tra i lustrini di Hollywood, ha voluto ricordare «i momenti di intimidazione e aggressione che sta vivendo il popolo iraniano». In comune tra i due film non c’è solo la stanchezza di una guerra infinita, combattuta o proclamata. C’è una nuova tendenza a raccontare la domanda di identità attraverso le cronache e non più, non solo, con il linguaggio urlato dei conflitti politici. Una scelta che premia da tempo il cinema israeliano e che il meglio dell’Iran condivide, mettendo al centro quel sentimento d’insicurezza sul presente, sulle radici del proprio passato, a maggior ragione sul futuro, che l’Oscar ha letto come un ritorno alla realtà. Società inquiete È questo il significato forte della statuetta: un riconoscimento al dibattito che cresce all’interno delle società musulmane, anteriore all’inizio della Primavera araba e attualissimo oggi che si incomincia a intravedere il dopo. Dal film di Farhadi arriva il racconto di un mondo confuso, dove famiglie intere si disgregano, in fuga da un Paese che ha poco da offrire, o costrette a restare. Tante domande sul futuro della democrazia, pronunciate con linguaggio leggero e surreale, o che tale appare a noi occidentali. Un esempio: come si fa a vivere in un Paese dove la badante Razieh, prima di cambiare la biancheria a un vecchio incontinente e malato di Alzheimer, è costretta a telefonare all’ufficio “preposto ai comportamenti conformi alla religione”? Vale la pena riportare alcune battute fulminanti del film per rendersi conto della portata di una battaglia in atto. «Sto lavorando in una casa dove c’è un anziano di cui dovrei occuparmi» dice al telefono la ragazza. «Volevo fare una domanda perché s’è bagnato. Volevo sapere: se lo cambio, è peccato? Ha 70, 80 anni e non ci sta molto con la testa». Dall’altra parte della cornetta, qualcuno chiede spiegazioni. La voce di lei si incrina, diventa supplica: «L’urgenza? È che, poverino, sta così da mezz’ora. Posso?» Ecco la separazione: viene prima della forma di governo scelta dai cittadini o imposta dalle autorità, alberga nelle giovani democrazie e nelle vecchie autocrazie. È la distanza radicale tra il diritto naturale e la legge di Stato. Ne è un esempio illuminante la dichiarazione fatta, nel febbraio 2012, dal viceministro iraniano della cultura in visita a Roma. Dopo aver comunicato che la Repubblica Islamica ha acquistato il film dei fratelli Taviani vincitore a Berlino, Cesare deve morire, annuncia l’intenzione di rivedere il veto imposto al film di Farhadi in patria. Il ministro si sofferma anche sul caso del regista Jafar Panahi, condannato per le sue idee a sei anni di reclusione e a non dirigere film per vent’anni. Un divieto, dice, che verrà cancellato. Per quanto riguarda la reclusione, però, «è il giudice a decidere». La pesantezza della legge È la legge a stabilire se concedere o meno i visti di uscita dal Paese, un’urgenza che si misura sulle file di studenti davanti ai consolati occidentali di Teheran. La legge decide di confiscare le parabole per vedere le televisioni estere, rifiuta un divorzio se la ragione della richiesta è “futile”, permette o meno ad un artista di manifestare la propria creatività. La legge può tutto. E la separazione tra la vita e la norma si allarga, come racconta nel bel film Il sentiero la bosniaca Jasmila Zbanic. È una storia d’amore e disamore ambientata a Sarajevo, nel cuore dell’Europa: lei è Luna, hostess, lui, Amar, controllore aeroportuale. Una coppia come tante, fino a che l’uomo, licenziato per ubriachezza, non si converte all’Islam wahabita. «La musica è peccato, l’alcool è peccato, la voce delle donne è peccato» gli urla lei esasperata, durante un litigio in discoteca. Problema di identità per lui, che cerca la pace e la purezza in forme incompatibili con una vita normale; problema di scelta per lei, che aspetta un bambino e non riconosce più il compagno con cui l’ha concepito. Pugili tunisine In Tunisia va anche peggio, se vogliamo dar credito ai documentari realizzati durante la Primavera araba. Ci sono le campionesse nazionali e mondiali di boxe, considerate eroine e peccatrici a un tempo, che in Boxing with her di Doghiri e Trabelsi manifestano il loro timore per i diritti delle donne all’indomani della vittoria del partito islamico an-Nahda. E c’è, a conferma della fondatezza delle loro paure, la brutta storia del processo al direttore della televisione tunisina Nesma, colpevole di aver proiettato Persepolis, il film di animazione della iraniana Marianne Satrapi sulla Rivoluzione islamica del 1979. La dichiarazione di an-Nahda sulla questione è da antologia: prima, rivendica l’importanza della «libertà d’espressione, indivisibile dai diritti dell’uomo». Poi, richiama alla necessità di «rispondere alla problematica sull’identità del nostro popolo e il suo attaccamento al sacro, da una parte, e alla libertà di parola dall’altra». Intanto, lascia fare ai tribunali, alle manifestazioni degli integralisti, alle minacce su Facebook. Solo per conoscenza, la scena incriminata è un fumetto di 30” dove Dio, un vecchio dalla barba bianca, appare a una bambina e parla con lei. Non è l’unico caso di un film contestato, con l’appoggio delle lontane, ma vicinissime, autorità religiose iraniane. Sono passati pochi mesi da quando, in un cinema centrale di Tunisi, una protesta di quattromila persone ha interrotto la proiezione del documentario Né Allah né padrone della regista tunisina Nadia el-Fani. L’inchiesta va al cuore di un problema molto sentito. Girato nei giorni della rivoluzione, nel mese del ramadan, mette la gente comune di fronte a domande sulla democrazia e sul rapporto tra Stato e religione. Ne emerge un ritratto impietoso: un’adesione pubblica e formale all’Islam e alle sue regole, una pratica privata totalmente laica. Tra le domande sulla vecchia Costituzione che decreta l’Islam come religione di Stato e le risposte imbarazzate, quella che emerge è una grande confusione tra laicità e ateismo. Il miele dell’Occidente E l’Occidente non sta meglio, quanto a confusione. Forti polemiche hanno travolto Angelina Jolie al suo primo film da regista, Nella terra del sangue e del miele, una storia d’amore e di guerra ambientata nel conflitto atroce della ex Jugoslavia. Accusata di avere sposato senza condizioni la causa islamica, lei risponde di essere stata motivata dal suo ruolo di ambasciatrice di pace. Girato in serbo, con attori presi sul posto, il film racconta le sofferenze del poliziotto serbo Danijel e della pittrice musulmana Anja, quando la guerra del ’92 li scopre su fronti opposti. «L’amore può cambiare quello che vogliamo» è lo slogan, «la guerra può cambiare quello che siamo». E forse si tratta d’amore anche per il figlio del regista americano Oliver Stone, da oggi Sean Ali, che a 27 anni ha deciso di convertirsi all’Islam. Niente di strano, se non fosse che lo ha fatto in una moschea di Isfahan, al centro dell’Iran: «Ora mi considero al tempo stesso un ebreo, quale era mio nonno, un cristiano e un musulmano» ha dichiarato. Un segno dei tempi anche questo? Chissà cosa ne pensa Ahmadinejad.

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