Dopo le rivolte il tema è esploso: c’è chi propone la legge islamica solo come riferimento valoriale e chi invece ne rilancia la versione più rigorista. In ogni caso il dibattito non può prescindere dall’esperienza degli Stati nazione e dalla scossa rivoluzionaria.

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:35:44

Sono bastate alcune recenti dichiarazioni sul futuro delle Costituzioni arabe per rilanciare un dibattito ricorrente sulla legge islamica. In Libia, l’annuncio fatto il 12 settembre 2011 da Mustafa Abdul Jalil, Presidente del Consiglio Nazionale di Transizione (CNT) dopo la morte di Muammar Gheddafi, di voler fondare la Costituzione sulla sharî‘a islamica ha scatenato, in Europa come nel mondo arabo, molte reazioni che insistevano sul rischio che il cambiamento politico, iniziato dalle società civili della regione, si ritorcesse contro le libertà individuali e pubbliche di queste società, se strumentalizzato da gruppi conservatori. In Tunisia, soprattutto le organizzazioni femminili hanno ricordato che il codice dello statuto personale d’impronta progressista, fatto adottare da Bourguiba nel 1956, rischiava di essere edulcorato, se non addirittura cancellato, dagli islamisti di an-Nahda, a discapito dei diritti conquistati dalle donne tunisine. Una rivendicazione simile è stata avanzata anche in Egitto, ma in questo Paese sono tutte le persone identificabili con le comunità confessionali, a cui è stato storicamente assegnato lo statuto di minoranze, a esprimere la loro inquietudine. Tale inquietudine è esacerbata dagli attacchi contro i beni religiosi e dal ricordo vivo delle vessazioni, in particolare in Iraq, per non parlare di possibili e temibili guerre interconfessionali, nelle quali si procederebbe a un’islamizzazione forzata: uno spettro che è stato agitato in Nigeria all’inizio del 2012. Senza entrare negli eccessi e nelle manipolazioni caratteristici di tutti i periodi rivoluzionari, è il caso tuttavia d’interrogarsi tanto sulla realtà di minacce che sarebbero “programmate” quanto sulla loro attuazione da parte di Stati suscettibili di essere fagocitati dai gruppi rivoluzionari più intraprendenti. Nel caso specifico, che cosa significano le rappresentazioni ricorrenti, e nello stesso tempo attualizzate, della sharî‘a come riferimento religioso e principio organizzatore della società? Di fatto, le versioni rigoriste della sharî‘a circolano più nei discorsi che nei programmi elettorali poco espliciti, provenienti tanto dai partiti cosiddetti salafiti quanto da correnti interne ai Fratelli Musulmani e dalle formazioni che a essi s’ispirano in diversi Paesi. Allo stesso tempo questa identificazione religiosa è lungi dall’essere la sola rappresentazione fatta propria dai cittadini arabi quando si riconoscono come musulmani. La storia politica ci ha infatti trasmesso versioni molteplici e differenziate della legge islamica. Tra gli ingredienti di questa dinamica si possono distinguere quelli che oggi pesano maggiormente sui discorsi e sulle pratiche della sharî‘a. In discussione sono innanzitutto i fondamenti della legge dello Stato-nazione in questa parte del mondo. La volontà riformatrice, inoltre, non sorge ex nihilo e deve tener conto di un’eredità di riforme che hanno acclimatato e banalizzato la sharî‘a lungo l’ultimo secolo. Tuttavia, nel corso degli ultimi tre decenni, le dinamiche islamiste di rovesciamento dei governi autoritari al potere hanno contribuito a riconfigurare gli approcci tradizionali alla sharî‘a. Infine, le relazioni maggioranze/minoranze non presentano una linea di demarcazione artificiale tra musulmani e non-musulmani, anche perché questi ultimi non sono sempre identificabili in quanto tali. Il dibattito sulla sharî‘a rimanda in effetti a quello più ampio sull’autoritarismo, e la lettura che attualmente se ne può fare tocca la sociologia politica delle mobilitazioni più che la sociologia giuridica di una normatività religiosa. Il Diritto e la Giustizia dopo le Rivoluzioni Arabe Rientrato in patria il 30 gennaio 2011 dal suo esilio inglese, Rashid Ghannoushi, dirigente storico e carismatico del movimento tunisino an-Nahda, è accolto da una folla di simpatizzanti islamisti. Alcuni giorni dopo afferma in un’intervista che se in Tunisia dovesse essere applicata la sharî‘a nessuno se ne accorgerebbe. Con ciò egli intendeva dire che la questione non era all’ordine del giorno nel Paese; più che i musulmani, erano stati gli oppressi in generale a scendere in piazza per far cadere il regime imposto da Ben Ali. Di fatto, anche se i partiti islamisti egiziani che hanno ottenuto la maggioranza alle elezioni legislative si rifanno a un Islam riformista o rivoluzionario, non è alla norma vincolante della sharî‘a che danno la priorità nell’ipotesi di una “reislamizzazione” della società. Essi insistono piuttosto sulla sua capacità di liberare gli uomini dalla tirannide, ricordando che l’etica dell’Islam ingiunge di mettere fine a ogni forma di potere arbitrario (istibdâd). Per lo meno è questo il discorso delle nuove generazioni dei Fratelli Musulmani, alcuni membri dei quali sono arrivati a separarsi dagli anziani per creare il proprio partito e così avvicinarsi agli altri movimenti della società civile. Il nome del nuovo partito creato dai Fratelli egiziani, al-hurriya wa-l-‘adâla, (Libertà e giustizia) non dice nient’altro, a questo stadio della mobilitazione, che l’urgenza di riformare la società su basi politicamente e socialmente eque. Quanto alle interpretazioni della giustizia che essi propongono, due comprensioni dominanti si fanno oggi concorrenza tra gli islamisti arabi riguardo all’applicazione della sharî‘a. Essa può rappresentare un semplice quadro virtuoso d’ispirazione religiosa e, in tal caso, non impedisce il pluralismo e l’apertura politica. Ma può anche essere vista nelle sue dimensioni socialmente e politicamente prescrittive, e in questo caso è l’aspetto normativo della legge che si impone agli individui. Un altro modo di contrapporre le due percezioni è distinguere tra i versetti meccani e quelli medinesi della trasmissione coranica: i primi hanno trasmesso attraverso la voce del Profeta un approccio tollerante alla convivenza religiosa, mentre i secondi hanno privilegiato, a partire dall’Egira, un’organizzazione difensiva e autoritaria della giovane comunità dei credenti musulmani. In Tunisia ed Egitto si è compiuta, o sta per compiersi, una prima tappa del processo rivoluzionario nel mondo arabo, nel corso della quale si sono creati nuovi rapporti di forza tra gli attori tradizionali e quelli emergenti. Essa non pregiudica affatto il cambiamento politico nelle società in lotta, come la Siria, o in quelle in cui la contestazione è stata soffocata, come il Bahrein tramite l’intervento diretto dell’Arabia Saudita. In Tunisia e in Egitto, la seconda tappa dipenderà dai risultati delle urne e dai lavori delle assemblee parlamentari elette[1]. Saranno queste ultime a dire quale sarà il diritto applicabile nelle nuove formule politiche e in nome di quali principi generali, chiamati a essere incisi nel marmo delle Costituzioni future. Per le popolazioni che hanno deposto i dirigenti che le tiranneggiavano, la questione della sharî‘a si porrà con maggiore intensità ed è perciò il caso di esplorarne tutte le possibilità e gli ostacoli. Per esempio non andrebbe sottovalutata un’eredità istituzionale, giuridica e politica le cui modalità di costruzione storica lasciano oggi poche possibilità a una rimessa in discussione radicale dei suoi fondamenti. Lo Stato di diritto è una nozione filosofica; la storia insegna che esso non predispone alcun governo a fondare istituzioni democratiche che favoriscano l’alternanza politica. L’inserimento di una legge a riferimento religioso in questo sistema dipende dalle decisioni degli attori. A questo proposito, il momento attuale mostra che il centro di gravità del dibattito sulla sharî‘a si è spostato da una concezione incentrata su un diritto positivo islamico normalizzato alla nozione più polisemica della sharî‘a, la legge islamica interpretata dal Corano. Tale fatto chiama in causa, nel dibattito costituzionale, i contenuti dei principi fondamentali del diritto. La Sharî‘a Normalizzata degli Stati-Nazione “Fonte principale della legislazione” o “una delle fonti principali”: queste formule politiche, riattivate nelle società arabe alla fine degli anni ’70 per effetto delle dinamiche islamiste contemporanee proprie della rivoluzione iraniana, hanno posto la sharî‘a al centro della politica legislativa[2]. Esse richiamano il radicamento islamico dei poteri politici che si sono susseguiti e che sulla predicazione coranica avevano fondato la propria legittimità e strutturato, al prezzo di frequenti conflitti, il proprio diritto e la propria giustizia. Le codificazioni ottomane del diritto e della giustizia nel XIX secolo e i loro sviluppi nel XX secolo hanno demolito il principio della personalità delle leggi, in forza del quale a ognuno era assegnato uno statuto sulla base dell’appartenenza religiosa. All’indomani della Seconda Guerra Mondiale, gli Stati del Vicino Oriente nati da indipendenze successive disponevano per la maggior parte di codici sia ispirati direttamente all’Europa (diritto penale e fondiario), sia ricavati dalla giurisprudenza islamica, come il codice civile dei beni e delle obbligazioni (la mejelle ottomana). Certamente gli statuti personali e la famiglia restavano sotto il controllo delle autorità religiose, ma anche in questo ambito era stata operata una “deconfessionalizzazione”. Una misura simbolica era stata presa nel 1949 in Siria attraverso la soppressione del riferimento all’identità confessionale sulla carta d’identità. Dalla matrice ottomana (1917) ed egiziana (1920-1929) sono scaturite numerose formule differenti, dal famoso codice Bourguiba del 1956 alle riforme siriane del 1953 e 1975, alle codificazioni maghrebine degli anni 2000[3]. Contrariamente a un’idea diffusa, la quasi totalità delle controversie famigliari, indipendentemente dalla religione dei contendenti, è oggi regolata dalle giurisdizioni civili, nelle quali operano giudici che si sono formati nelle facoltà di diritto positivo. In Egitto, Nasser aveva statalizzato le giurisdizioni comunitarie nel 1955. Pur tenendo conto delle norme comunitarie fondamentali, la pratica di questi giudici dipende altrettanto ampiamente dal diritto nazionale positivo e comporta dunque variazioni rilevanti. Quando si parla di applicazione della sharî‘a, è proprio con questo modello ereditato da un lungo processo di secolarizzazione che tutti gli attori si confrontano. Per la legge islamica, l’interpretazione ufficiale è passata dalla sfera del fiqh (giurisprudenza delle scuole giuridiche) a quella del qânûn (diritto positivo del principe, oggi degli Stati). La situazione del 2012 è in parte paragonabile a quella del 1980 in Egitto, quando un emendamento costituzionale fece della sharî‘a islamica la «fonte principale della legislazione». Anwar al-Sadat tentava allora di conciliarsi i gruppi islamisti attivisti – le gamâ‘ât – per far passare, contro le formazioni nasseriane e di sinistra, la sua politica di apertura economica (infitâh) e le misure neo-liberali che essa comportava sul piano del diritto. All’epoca questo cambiamento costituzionale fu strumentalizzato non solo dal governo ma anche dall’Azhar e da alcuni giudici vicini agli islamisti che si rifiutavano di applicare legislazioni non emendate secondo la sharî‘a. Successivamente Hosni Mubarak riuscì a spegnere il fuoco che covava sotto le ceneri poiché i giudici dell’Alta Corte Costituzionale accettarono d’interpretare i principi della sharî‘a in un senso conforme al diritto nazionale egiziano[4]. Il compromesso con la Corte permetteva al regime mubarakiano di ottenere una legittimazione della sua politica “neoliberale” e, in certi casi, del dispositivo d’eccezione dello stato d’emergenza che la supportava, rinnovato ogni due anni, in cambio di una normalizzazione della sharî‘a da parte del sistema giuridico e giudiziario. Alla Prova delle Scadenze Elettorali Il fatto che le istituzioni del regime egiziano siano state capaci, nel corso degli ultimi tre decenni, di “digerire” l’emendamento costituzionale del 1980 che aveva simbolicamente rimesso la sharî‘a islamica al centro del sistema giuridico, non significa comunque che questo scenario sia replicabile oggi. Negli anni ’80 e ’90 la magistratura egiziana ha subito forti pressioni da parte del governo, in particolare per accettare una “militarizzazione” delle giurisdizioni speciali, ma ha dovuto anche affrontare le rivendicazioni di giudici che hanno talvolta rifiutato di pronunciarsi su questioni civili che a loro avviso andavano regolate secondo la sharî‘a e non secondo il diritto egiziano codificato, in particolare nelle controversie famigliari e negli affari civili in cui si contestava la non-applicazione del divieto del ribâ (interessi usurari e arricchimento illecito). Alcuni avvocati hanno anche avviato azioni legali secondo la procedura islamica della hisba che, secondo la giurisprudenza islamica classica, permette a qualsiasi individuo di adire le vie legali qualora egli ritenga che un precetto della sharî‘a non sia stato rispettato. Tutto ciò non faceva che mettere in evidenza la contraddizione nella quale si trovava il regime a causa dell’emendamento costituzionale, diviso tra un’applicazione letterale della sharî‘a e la forma costituzionale del diritto e della giustizia, storicamente costituita a partire dal Mandato britannico e rivista e corretta in epoca nasseriana. Il punto di non ritorno fu raggiunto nel famoso affare Nasr Abu Zayd[5] in cui, in seguito a un’azione intentata in hisba, un tribunale inferiore, poi confermato in appello, non esitò a dichiarare apostata l’universitario egiziano a causa dei suoi scritti, oltre a condannarlo al divorzio dalla moglie che, in quanto musulmana, non poteva restare sposata a un non musulmano. Che dopo molti anni di esilio Abu Zayd abbia vinto la causa davanti a un tribunale superiore, che ha riconosciuto che la giustizia aveva oltrepassato le proprie prerogative, dimostrava quanto il sistema fosse strutturalmente incapace di assimilare una simile pratica. Senza dilungarsi inutilmente, si può dire che in generale i sistemi giuridici dei Paesi arabi vicini all’Egitto, inclusi quelli del Maghreb, se non hanno dovuto affrontare crisi istituzionali così acute, hanno comunque dovuto gestire il fragile equilibrio tra la forma ereditata dalle istituzioni esistenti (dal passaggio coloniale alle riforme post-indipendenza) e le rivendicazioni identitarie islamiste. Tenuto conto delle dinamiche rivoluzionarie in corso, l’equilibrio istituzionale derivante da un compromesso fino a oggi rinnovato a intervalli regolari potrebbe essere messo in discussione. Gli islamisti che hanno vinto le elezioni tunisine ed egiziane hanno prodotto dichiarazioni che volevano suonare rassicuranti prima di tutto per i cittadini non musulmani che si definiscono legati a una comunità confessionale[6], e in parte anche per parare le potenziali critiche provenienti dall’esterno nel caso in cui arrivino a esercitare effettivamente il potere politico. Quanto alle gerarchie religiose ufficiali, esse hanno indicato la loro volontà, nelle rivendicazioni politiche in corso, di non centrare le loro reazioni su questa base identitaria “primordiale”. Reazioni di solidarietà, per esempio, sono state manifestate dall’Azhar dopo la repressione violenta dei manifestanti copti il 9 ottobre 2011, o da esponenti della gerarchia copta in occasione dei funerali di un membro eminente dell’Azhar, lo shaykh Emad Effat, ucciso dai militari durante le manifestazioni. Quali Possibilità di Uscita dall’Autoritarismo? Riferimento religioso, la sharî‘a islamica, così come altre leggi religiose, è stata oggetto di numerose interpretazioni storiche destinate a usi differenti. Ora si pone nuovamente la questione della sua applicazione a società in rapida mutazione e che si richiamano per lo più all’Islam come riferimento superiore di legittimazione. Come abbiamo appena visto, questa eventuale applicazione è subordinata a diverse variabili: risultati finali delle elezioni legislative e/o costituzionali, tipo di governo che sarà designato secondo le norme costituzionali, anch’esse precisate in occasione dell’elaborazione delle nuove Costituzioni. La questione è dunque incerta. Si possono nondimeno identificare fattori storici e sociologici ricorrenti, in particolare se si fa riferimento all’esperienza egiziana, paradigma del processo di secolarizzazione del diritto e della giustizia. Quanto agli attori innanzitutto, il cambiamento costituzionale in questo Paese, a partire dal 1980, ha precisato la diversificazione dei soggetti che intervengono nel processo. Al-Azhar ha perso molta della sua influenza ma ha continuato a legittimare il potere politico con le proprie fatwa. I Fratelli Musulmani, per lungo tempo forza radicale d’opposizione, hanno acquisito l’esperienza di politiche legislative nell’ambito delle quali è capitato loro di ratificare, eventualmente all’interno di istituzioni come al-Azhar, codificazioni secolarizzate del diritto. Ma ciò è stato soprattutto il caso della Siria, dove un ramo locale della fratellanza controllava un insegnamento, anch’esso secolarizzato, della sharî‘a fino agli anni ’70, dopo essere stata mobilitata da Nasser per codificare il diritto islamico in Egitto. È nota anche l’esperienza parlamentare di questi attori islamisti in Giordania o in Palestina. Resta, ben inteso, l’incertezza attorno a partiti come al-Nûr, presunti rappresentanti del movimento salafita: logicamente si mostreranno radicali e su tali questioni non si alleeranno necessariamente con i Fratelli Musulmani. Il nuovo parlamento dovrà anche trattare con quegli attori centrali che sono i militari del Consiglio Supremo delle Forze Armate, i quali non vogliono perdere i privilegi essenziali, in particolare economici, di cui beneficiavano sotto il regime rovesciato. Non si può non temere che gli stessi militari di alto rango tentino di strumentalizzare la questione della codificazione della sharî‘a, nel caso in cui questa eventualità si riveli utile. Il regime mubarakiano l’aveva fatto, particolarmente nel conflitto che aveva coinvolto Nasr Hamid Abu Zayd. In questo caso, non era tanto in gioco l’espressione pubblica dell’universitario, quanto la sua capacità di esprimere interpretazioni dell’Islam diverse da quelle ufficialmente tollerate, anche se le sue posizioni personali non si confondevano minimamente con le versioni ortodosse e islamiste. Del resto, definire una linea ortodossa nell’applicazione della sharî‘a non era il problema principale di quel governo. Era infatti sufficiente ottenere dall’Azhar il riconoscimento delle versioni riformiste della sharî‘a secondo norme elaborate oltre un secolo fa e poi trasposte. E tenere lontani i “fondamentalisti”. Lo stato d’emergenza serviva a preservare questo status quo. Va anche detto che esso è rimasto in vigore dopo l’11 febbraio 2011, data della caduta di Mubarak, ciò che ha permesso di condannare penalmente numerosi manifestanti di gennaio e febbraio. Fondamentalmente, la prima questione che si cela dietro il discorso della sharî‘a è quella dell’uguaglianza, della libertà dei cittadini e della loro capacità di agire in quanto tali. Un’identità islamista riaffermata, che insiste su fratture secondo linee comunitarie primordiali, non riesce a nascondere il fatto che le generazioni attualmente mobilitate, tanto in Egitto quanto in Tunisia, rivendicano una maggiore cittadinanza. Questo non elimina il rischio di strumentalizzazioni radicali della questione della sharî‘a, ma ricorda la minaccia costante di legislazioni di emergenza messe alle corde da rivendicazioni che riguardano il deficit di cittadinanza, le disuguaglianze, l’emarginazione sociale e la redistribuzione delle risorse.


[1] Al momento della redazione di questo articolo sta per concludersi la terza sessione delle elezioni legislative egiziane e la Costituente non è ancora eletta. In Tunisia, le autorità supreme dello Stato sono state designate, ma la Costituente non si è ancora riunita. In Libia, questa fase deve ancora iniziare. [2] Sono menzionati anche l’appartenenza all’Islam del capo di Stato, il fiqh (giurisprudenza) islamico, etc. Su queste diverse modalità costituzionali si veda Sabine Lavorel, Les constitutions arabes et l’Islam. Les enjeux du pluralisme juridique, Presses de l’Université du Québec, Montreal 2005. [3] Su queste diverse codificazioni, cfr. Bernard Botiveau, Proche et Moyen-Orient, in Dictionnaire dumdroit des religions, CNRS, Paris 2011. Sulle codificazioni nel Maghreb, cfr. Jean-Philippe Bras, La réforme du code de la famille au Maroc et en Algérie: quelles avancées pour la démocratie?, «Critique internationale» 4 (2007) 37, 93-125. [4] Su queste interpretazioni si veda Nathalie Bernard-Maugiron, Le politique à l’épreuve du judiciaire: la justice constitutionnelle en Egypte, Bruylant, Bruxelles 2003. [5] Nasr Abu Zayd (1943-2010), intellettuale egiziano recentemente scomparso, è noto in particolare per i suoi studi sul Corano, nei quali applica al Testo Sacro un’ermeneutica “umanistica” (N.d.R.). [6] Sulle dinamiche comunitarie in Egitto, cfr. Laure Guirguis, Fait minoritaire et violence structurelle. Émergence d’une «question copte» et transformations contemporaines de la scène politique égyptienne, Thèse de doctorat, EHESS, Paris 2011.

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