Editoriale di Oasis numero 15

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:35:44

Dal punto di vista etico-politico, un processo di costituzionalizzazione è un momento di elevato significato culturale e di grande responsabilità morale, in cui una società dà (nuovo) fondamento alla propria politicità o, meglio, riconosce la propria politicità, ne afferma il fondamento e ne definisce le condizioni di vivibilità. Una costituzione democratica – sempre dal punto di vista etico-politico – esige il rispetto di alcune condizioni fondamentali, di cui cerco di fornire qui alcuni elementi.

Il pregio del dispositivo democratico consiste nel permettere la cooperazione di posizioni teoriche e culturali diverse, anche contrastanti; come tale, la democrazia è quell’idea politica istituzionale che salvaguarda la volontà di cooperazione politica non in virtù di un dispositivo tecnico (procedura) e neppure in forza del consenso teorico (identità di concezione sostantiva). Questo è il prezioso lascito della tradizione democratica, in cui si condensa il frutto positivo del travagliato pluralismo moderno.

Tutto ciò non legittima, d’altra parte, una concezione relativista della democrazia – visione sbrigativa e superficiale –, dal momento che la natura pratica della democrazia moderna non elimina il fatto che alcuni fondamenti pratici condivisi le sono comunque indispensabili. Quando si interpreta la democrazia in modo esclusivamente proceduralista e si ha la pretesa di un’assoluta neutralità istituzionale, si prospetta la democrazia in modo relativista. Se, invece, si considera la democrazia come opera di ragion pratica politica, è più facile riconoscere il bisogno innegabile di alcuni riferimenti pratici fondanti, che una democrazia consapevole di sé non può considerare negoziabili.

I livelli di questa fondazione pratica sono almeno tre. Innanzitutto 1) un piano in cui è necessario giustificare la ragione della preferenza per la democrazia stessa, quale regime politico che permette la convivenza dei diversi. Tale interesse non è automatico e non è mai scontato, perché è sempre possibile che si determini un consenso per una scelta autoritaria. La preferenza per la democrazia è un’opera di ragion pratica, che deve essere argomentata, cioè dotata della giustificazione della propria “fede” pratica. 2) Tale fondamento riguarda il rapporto tra la democrazia e la dignità della persona. C’è un limite di manipolazione possibile dell’essere umano, espresso dalla formula kantiana secondo cui l’uomo non può mai essere trattato solo come mezzo, ma deve sempre essere trattato anche come fine. Questo punto dà voce a un fondamento dell’ethos dell’Occidente; se la democrazia è nata in Occidente, ciò è avvenuto anche in forza di un ethos pre-politico secondo il quale esiste una soglia di non manipolabilità e di non disponibilità dell’essere umano. Questo punto qualifica l’istituto democratico, permettendo al concetto di persona di essere rilevante, pur non dovendo gli individui o i gruppi condividere una giustificazione comune dell’idea di persona. Molti dei conflitti interni che lacerano le democrazie occidentali, infatti, riguardano precisamente la ridefinizione dei confini della disponibilità umana da parte delle nuove possibilità tecniche (biotecnologiche, informatiche, finanziarie, ecc.), di cui la persona umana è sempre più oggetto. 3) L’idea democratica si regge su un’antropologia in cui sia possibile distinguere tra un piano sostanziale della soggettività umana e un piano operativo. Infatti, l’idea di una politica, che fosse direttamente espressiva dell’identità umana come tale, sarebbe la premessa logica di un regime politico in cui l’identità umana sarebbe “consegnata” alla politica: è questa l’idea dello Stato etico, qualunque forma essa possa assumere nella storia (Stato sacrale, Stato autoritario, Stato totalitario). Se si identifica la sostanza del soggetto e l’identità politica, si è in presenza di un regime politico in cui possono entrare a pieno titolo soltanto coloro che vi si riconoscono con appartenenza piena ed esclusiva.

In conclusione, la democrazia politica ha il problema di tenere insieme da una parte il mettere in comune operazioni (economiche, sociali, culturali famigliari, ecc.) senza coinvolgere l’identità più intima dell’uomo; dall’altra parte il garantire lo spazio di un’identità eccedente, che va riconosciuta come tale senza essere privatizzata. Impresa difficile, che non trova una soddisfacente risposta né nel liberalismo tradizionale che salvaguardia l’identità irriducibile dei cittadini, ma la privatizza, né nelle tradizioni comunitariste che accorpano l’identità all’appartenenza sociale. Come si mettono insieme i due aspetti della sostanza soggettiva e della sua operatività? Attraverso un accordo operativo tra soggetti, non identificati con il sistema co-operativo stesso, eppure riconosciuti come identità irriducibili, politicamente significative.

Bene Comune e Fondazione Politica

Perché questo accordo sia possibile è necessaria una comunanza all’interno della pluralità storico-sociale stessa. È necessario un bene già condiviso, riconosciuto come un patrimonio di valore radicato nel vissuto storico-sociale di una certa comunità nazionale o internazionale. Tale bene è il fatto stesso di essere inseriti in una rete interattiva, collaborativa, anche conflittuale, in una struttura di azione comune, di interlocuzione aperta, in breve di comunicazione sociale, intesa non nel senso limitato di trasmissione di informazioni, bensì come apertura di uno spazio comune di relazione fra interlocutori, in cui sono compresi interazione e coinvolgimento, sfondo di un’intesa sempre possibile; comunicazione insomma come ne parlano già Aristotele (koinonia) e Tommaso d’Aquino (communicatio), quale fondamento della socialità umana. Tracce in questa direzione possiamo trovarle anche nel dibattito contemporaneo sul liberalismo. Charles Larmore[1] tenta, ad esempio, di dissociare il liberalismo da una filosofia individualistica e di evidenziare la natura etica del liberalismo politico. Secondo Larmore, una corretta concezione della vita politica in senso liberale implica che le persone coinvolte nell’argomentazione pubblica devono ritenersi “un popolo”, devono già avere una “vita comune”, una previa comunanza di elementi minimali come una geografia, una lingua, un’esperienza storica. Il percorso di Larmore è interessante, perché, ancorando l’impresa politica a un vissuto prepolitico, ristabilisce la continuità del sociale e del politico, reinterpretato come espressione consapevole e normativa dei criteri pratici e assiologici che rendono possibile la convivenza. Una critica analoga è reperibile anche in Charles Taylor[2], secondo il quale è essenziale per i regimi democratici essere animati dalla percezione di un bene comune condiviso, che costituisca legame sociale, simile al legame d’amicizia (“amicizia civile”) di cui disse Aristotele.

Nel dibattito considerato emerge, dunque, che ciò che una costituzione democratica deve riconoscere e proteggere è quell’unità già presente nella forma dell’interazione(cooperazione e conflitto), cioè della comunicazione sociale (che comprende l’amplissima gamma delle forme di azione comune, di informazione, di scambio, transazione, di interlocuzione, ma anche di contesa, di polemica, di conflitto), in cui il pluralismo sociale trova la sua condizione di possibilità. La comunicazione/convivenza tra le tradizioni, i gruppi o anche gli individui è l’evento sociale originario, che sta alla base del fenomeno politico. Essa, infatti, è il fatto sociale originario che diventa anche il fatto politico primario, nel momento in cui viene riconosciuto come bene che comunque accomuna. Il passaggio al politico non comporta, perciò, se non la presa d’atto condivisa di ciò che già accomuna, cioè di quel comune che è l’essere in rapporto comunicativo, assunto come patrimonio da preservare e incrementare. Il corpo politico nasce quando si assume il “bene relazionale”, di cui si è parte, come “bene comune”; quando, assumendo in modo consapevole e strumentato la comunicazione sociale spontanea, si istituisce come fine comune il perseguimento della comunicazione sociale stessa. In questo senso, il politico, coerentemente inteso, non aggiunge al sociale se non la finalità del suo perseguimento responsabile, nel rispetto di tutte le condizioni istituzionali e normative che lo rendono possibile. Per questo la società non è l’oggetto della politica, ma il suo fine (da proteggere, -aiutare, incrementare, ecc.). In altri termini, la democrazia è la forma politica di una società civile presupposta quale fatto e valore, così che senza tale riferimento alla società, dotata di una sua relativa autonomia, la democrazia si riduce a forme, procedure, ma non costituisce una realtà politica vivente.

Le Condizioni della Convivenza

Il politico coincide a questo livello con l’istituzione permanente, regolata e protetta, dello spazio della comunicazione, cioè del confronto, del conflitto, della mediazione, della cooperazione tra i diversi. Così inteso il politico ha la sua normatività, che scaturisce dalla volontaria assunzione del bene accomunante, l’essere e il vivere insieme. L’elemento di volontarietà fonda il vincolo, perché costituisce il patto che obbliga ad attenersi a tutto ciò che è funzionale a preservare e accrescere ciò che “accomuna” e a perseguire i suoi fini storici; di conseguenza le regole che governano e sostengono la comunicazione sociale sono essenziali al patto politico fondamentale.

Ciò significa anzitutto che il bene della comunicazione traccia il confine della partecipazione politica, distinguendo quanti ne riconoscono il vincolo da quanti invece, non riconoscendolo, se ne escludono. In tal senso risulta subito l’impossibilità di intendere una società come inclusiva di qualunque componente culturale (fondamentalismo, anarchismo, separatismo, terrorismo, organizzazione criminale, settarismo occulto, ecc. sono immediatamente esclusi, perché contraddittori con il criterio fondamentale della convivenza politica). Il bene della convivenza porta in sé alcune condizioni strutturali, che vengono a costituire altrettanti vincoli normativi. Esso è per sua natura illimitatamente aperto e dunque include di principio ogni possibile partecipante, senza discriminazione preventiva; di conseguenza, esige che siano garantite tutte le forme di libertà di partecipazione, ponendo i partecipanti nella condizione di protagonisti sociali (sussidiarietà) e di attori solidali (solidarietà); quindi, che sia garantita la giustizia nell’accesso alla società politica e la distribuzione dei mezzi necessari all’esercizio dello scambio, della collaborazione, del confronto; similmente, vanno preservate e difese le condizioni per la realizzazione della convivenza, contro le sue violazioni violente e le sue contraffazioni subdole.

Tutte queste condizioni normative – e quante altre se ne potrebbero dettagliare – sono analiticamente incluse nel fatto comunicativo fondamentale e quindi non dipendono da una particolare fondazione speculativa. La comunanza nel bene della comunicazione/convivenza – come già si diceva – è di per sé un atto di ragion pratica pubblica, suscettibile di molte giustificazioni teoretiche, ciascuna delle quali resta interna alle prospettive delle diverse “tradizioni” culturali o “concezioni comprensive”. La comunanza nel bene formale e normativo del comunicare sociale sta a fondamento della convivenza come un atto di ragion pratica politica, che non può sostituirsi alle sue plurime (e conflittuali) legittimazioni teoriche.

Questa differenza di livello tra il principio pratico a fondamento del patto costituzionale e le concezioni comprensive, proposte a giustificazione delle diverse identità sociali e tradizioni culturali, definisce lo spazio della cosiddetta “laicità” secondo la quale, se identità e cultura non possono contraddire il principio della convivenza, questo, a sua volta, non può interferire in quelle, né privilegiandone né avversandone qualcuna.

Questa prospettiva di istituzione pratica del politico non si conclude con il suo profilo costituzionale formale, perché essa è internamente aperta ad accogliere tutti quei contenuti valoriali che le diverse tradizioni, secondo la concreta storia comune, si trovassero a condividere. Se, infatti, la condivisione del vincolo comunicativo è un assoluto istitutivo della convivenza politica, l’incontro-scontro delle diverse tradizioni e concezioni comprensive delimita un campo relativo di condivisioni e di esclusioni che si definisce e si ridefinisce storicamente, secondo il modello della “dialettica delle tradizioni”[3]. Il senso formale del bene è appunto “forma” del bene comune “materiale”, cioè di tutti i contenuti (economici, sociali, valoriali, morali, spirituali) variamente individuati secondo i differenti contesti culturali, le mutevoli circostanze storiche e le specifiche contrattazioni politiche.

A questo livello vige la logica della contrattazione, a riguardo di procedure e contenuti, che le diverse forze sociali e le differenti tradizioni culturali intrattengono tra loro, secondo la legittima pressione degli interessi, della discussione razionale, della persuasione, ecc., che danno luogo alla fisionomia variabile del bene comune storicamente determinato, oggetto di protezione giuridica e di promozione politica. In tal modo, sul canovaccio stabile del progetto condiviso e regolato di comunicazione/convivenza, il pluralismo può trovare lo spazio delle sue innumerevoli variazioni. Dunque, una costituzione democratica è tale se rispetta la sua funzionalità rispetto a un vivere civile che la precede e che insieme riceve da essa la sua condizione politica e le regole della sua esistenza storica.


[1] Charles Larmore, Liberalismo politico in Alessandro Ferrara (a cura di), Comunitarismo e liberalismo, Editori Riuniti, Roma 1992, 169-194. [2] Charles Taylor, Il dibattito tra sordi di liberali e comunitaristi, in Alessandro Ferrara (a cura di), Comunitarismo e liberalismo, 137-167. [3] Alasdair MacIntyre, Giustizia e razionalità, Anabasi, Milano 1995, vol. II.

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