Tunisia/Dopo decenni di regime, la società esprime una vivace attività politica nella quale i partiti si confrontano, si sfidano e si alleano, mentre l’orizzonte di riferimento rimane caratterizzato dall’identità islamica, che tiene nell’angolo ogni spinta laicista.

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:35:48

Dalla caduta di Ben Ali in poi, la questione delle relazioni tra religione e politica in Tunisia è diventata oggetto di un aspro dibattito. Del resto, è del tutto naturale che la società s’interroghi su una problematica così complessa dopo decenni di repressione. In un contesto molto polarizzato, occorre tuttavia fare in modo che il campo politico resti tale e questo per una ragione molto semplice: la lotta politica si svolge a livello di idee, ciò che implica la possibilità di esprimere il disaccordo e la critica. Al contrario, mettendo la religione in primo piano e spacciando la politica per religione, non vi è più modo di intendersi: se qualcuno non è d’accordo, sarà accusato di kufr, miscredenza, e da questo momento non si potrà più discutere. Occorre anche riconoscere che la posizione che raccomanda la distinzione tra politica e religione in Tunisia non è appannaggio dei partiti detti laici. Oggi an-Nahda, reduce dalle elezioni, è percorsa da diverse correnti, al punto che potrebbe essere paragonata a una nebulosa. Nel partito vi sono coloro che pensano che occorrerebbe concentrarsi innanzitutto sul programma politico. Naturalmente questi membri insistono anche sui riferimenti religiosi, ma sono contrari all’applicazione della sharî‘a e si battono per mantenere le acquisizioni del Codice dello Statuto personale del 1956. Ad ogni modo, per i laici è chiaro che la politica, nel senso stretto del termine, non ha nulla a che vedere con la fede. Detto questo, sarebbe comunque assurdo negare il posto che l’Islam occupa nell’identità tunisina. An-Nahda ha vinto le elezioni essenzialmente perché ha giocato la carta dell’identità. Effettivamente su questo punto vi è un problema nel Paese e soprattutto all’estero, ciò che in certa misura spiega il voto di massa dei residenti tunisini in Europa a favore di an-Nahda. Del resto, lo stesso problema d’identità è ben presente anche nelle società occidentali, in Francia o in Italia. Il tunisino è, in generale, un credente. È tuttavia un credente molto moderato, ha uno stile di vita che non ha nulla a che vedere con il wahhabismo. Da sempre i responsabili religiosi ufficiali hanno privilegiato questo Islam alla tunisina, ovvero un Islam molto tollerante. L’Errore di Bourguiba In questa storia dei rapporti tra politica e religione, l’era di Bourguiba segna un importante punto di svolta. Il “combattente supremo”, in questo ambito, ha commesso un errore enorme, che soltanto ora può essere misurato in tutta la sua ampiezza: ha sradicato quasi totalmente la Moschea al-Zaytûna che era il riferimento religioso tradizionale istituzionalizzato nel Paese, come al-Azhar in Egitto. All’inizio molti hanno applaudito all’iniziativa, considerandola come un passo necessario verso la modernità. A loro avviso, istituzioni religiose di questo tipo non potevano più esistere. Ma la Zaytûna storicamente aveva formato delle personalità molto aperte, che per noi rappresentano il vero Islam. Penso, se mi è consentito un esempio personale, a mio nonno, che fu Shaykh al-Islam. Per le sue figlie organizzava corsi di musica e pianoforte a casa. E tuttavia era la maggiore autorità religiosa del Paese. Se si considera che molti ambienti tradizionalisti hanno sempre guardato con sospetto alla musica, la sua non era una scelta da poco. Mia madre suonava il pianoforte. Mia zia, che è la mia madre spirituale perché ha vissuto con noi, ha fondato il primo movimento militante di donne musulmane in Tunisia contro l’occupazione. Era presidente dell’Unione delle donne musulmane e manifestava senza il velo. Indebolendo la moschea della Zaytûna, Bourguiba ha creato il vuoto. Poi, negli anni ’70, il primato passò alla sinistra, come dappertutto, e Bourguiba represse duramente anche la sinistra. Il doppio vuoto che si produsse aprì la strada all’ascesa del movimento islamista. E siccome non vi erano più riferimenti locali, fu l’Islam wahhabita a prevalere. Al contrario, ciò che molti intellettuali preconizzano oggi, soprattutto donne straordinarie come Hala Wardi e Olfa Youssef, non è tanto un’islamizzazione della Tunisia, ma piuttosto una “tunisificazione” dell’Islam. Sono figure molto coraggiose, ci sono state addirittura delle fatwa contro di loro. Nelle ultime elezioni abbiamo avuto a che fare con un altro calcolo errato da parte di tutti i democratici e dei modernisti. Si sono lanciati in un dibattito sulla laicità che li ha completamente emarginati presso l’opinione pubblica. La gente non ha compreso il concetto, perché pensa che laicità significhi ateismo e ostilità verso la religione. Il discorso della laicità resta elitario, lontano dal piccolo popolo che costituisce la Tunisia. In questo contesto si può apprezzare meglio l’intelligenza dei rappresentanti di an-Nahda che hanno accusato i loro avversari di ateismo. «Votate per gli uomini di Dio, per coloro che rispettano la religione»: questa è stata una delle ragioni fondamentali del successo di an-Nahda, da cui bisognerà trarre una lezione per il futuro. Ora la lotta è intellettuale ma anche politica. Occorre integrare nei progetti dei partiti politici che si dicono centristi la dimensione religiosa, che non è monopolio di an-Nahda perché noi tunisini siamo tutti più o meno musulmani. Occorre trattare an-Nahda come partito politico e non come istanza che rappresenta Dio sulla terra, ciò che del resto molti dei suoi stessi membri rifiutano. La lotta sarà in primo luogo politica, mentre fino ad ora gli islamisti erano principalmente dediti a predicare e moralizzare la vita. È molto più facile stare all’opposizione che governare, questa è una regola generale. Prove di Alleanze Resta il fatto che al momento non si può, con un calcolo di parte, ritirarsi dall’arena. Sarebbe troppo grave per la Tunisia, perché la situazione economica e sociale è catastrofica. Il dilemma dell’opposizione attuale è come sostenere i buoni provvedimenti pur smarcandosi da coloro che oggi hanno la maggioranza. La Tunisia è in difficoltà sulla bilancia dei pagamenti: occorrerebbe iniettare 5 o 6 miliardi di dollari perché la macchina riprenda a funzionare, perché si possano pagare gli impiegati statali, in modo che ritorni la fiducia e si ricominci a lavorare. Ed è proprio sul piano economico e sociale che gli islamisti vogliono riuscire. Hanno compreso infatti che non potranno cambiare la società tunisina da subito. Hanno tastato il terreno in maniera indiretta con l’intermediazione dei salafiti, che lasciano fare, utilizzandoli per saggiare le reazioni della gente, ma hanno compreso che la partita si giocherà sul lungo periodo. La strategia di an-Nahda è dunque quella di fondare da una parte le proprie organizzazioni, come l’Unione generale degli studenti tunisini. Dall’altra parte provano ad accreditarsi presso le organizzazioni di massa nazionali come il sindacato UGTT o l’Unione delle donne tunisine. Bisogna anche dire che il partito di Ben Ali aveva completamente satellizzato queste strutture, in particolare l’Unione delle donne tunisine che, diventata una succursale del partito unico, era stata svuotata del suo senso. Sempre nell’ambito della stessa strategia, an-Nahda ha compreso, e bisogna riconoscere loro il merito, che con la nuova legge elettorale non poteva avere la maggioranza. Aveva bisogno di un partito di sostegno. Si è accorta che nel paesaggio politico Moncef Marzouki, a livello personale, godeva di un’immagine molto buona di oppositore totale a Ben Ali. È sempre stato irriducibile e pulito, il Nelson Mandela tunisino, è contro il denaro politico, contro la corruzione. Per i giovani tunisini rappresentava veramente una figura nazionale. Allora gli uomini di an-Nahda hanno deciso di sostenere alle elezioni il suo partito, il Congresso per la Repubblica, dirottando verso di lui i voti dei loro militanti e membri. Il risultato è che oggi la presenza di Moncef Marzouki nel suo partito rischia di essere irrilevante perché l’ala maggioritaria è legata ad an-Nahda. Ha un margine di manovra molto ridotto. Tuttavia Marzouki non è assolutamente un presidente di facciata. Vede il potere in una certa maniera, vuol essere vicino alla vedova e all’orfano, al popolo e ai meno abbienti, è sincero. Insediandosi nel palazzo presidenziale a Cartagine, l’ex residenza di Ben Ali, ha dichiarato che il palazzo è di tutti i tunisini: «Bussate e venite quando volete. Io ci sarò». In Tunisia normalmente i presidenti sono dei simboli: Bourguiba, Ben Ali, anche se artificialmente, si mantenevano distanti dalla gente in nome del “prestigio dello Stato”, haybat al-dawla. Per tutta la vita Marzouki è stato invece un militante per i diritti dell’uomo. Dire perciò che è un uomo-immagine, non è esatto. È capace di opporsi, ma gioca su un piano diverso. Impegna la sua persona più che il suo partito. Vorrebbe inserire un riferimento forte ai diritti dell’uomo nella Costituzione e an-Nahda ha consentito perché c’è una mobilitazione in questa direzione. In Tunisia non si può fare la stessa politica dell’Arabia Saudita. Non vi è alcun motivo di nutrire dei timori su questo punto, perlomeno a breve e medio termine. A lungo termine è più difficile giudicare. Il Bisogno di una Nuova Governance Alla fine, sono numerosi gli attori implicati nel gioco politico tunisino e sembra necessario non focalizzarsi su nessuno di essi in maniera esclusiva. Il principio di distinguere chiaramente evitando accostamenti affrettati è sempre valido. Per esempio, accade talvolta che i commentatori europei mettano in relazione il cambiamento tunisino con una presunta azione dell’Arabia Saudita. La lettura manca di precisione. L’iniziativa, piuttosto, è arrivata dal Qatar e dal suo canale satellitare. Rashid al-Ghannoushi durante tutto il suo esilio è stato sostenuto dal Qatar, mentre non dimenticherà mai di essere stato espulso dall’Arabia Saudita in pieno pellegrinaggio, su pressione di Ben Ali. Quando gli si menziona il modello saudita, risponde che quando fu costretto a lasciare la Tunisia, è stata l’Inghilterra ad accoglierlo e non l’Arabia Saudita, da cui «è stato cacciato», secondo la sua espressione. Un’altra lettura che sembra semplicistica è la spiegazione dei risultati elettorali con una presunta mancanza d’interesse da parte delle masse popolari. Oggi i tunisini si stanno iniziando alla democrazia. Si parla di politica dovunque. Del resto il processo democratico non è un fine in sé: il successo della Tunisia è la prosperità della Tunisia, ma questa prosperità passa attraverso una buona governance politica. Se il Paese versa in questo stato di miseria, è perché al governo c’erano dei ladri. Istruite da questa esperienza dolorosa, le persone cominciano a capire che è nel loro interesse votare dirigenti puliti e competenti. Infine, in Tunisia il popolo è colto. Nella prima elezione c’è stato il 52-53% dei votanti, e questo malgrado una buona parte di essi non avesse compreso se il voto era per la Costituente, un partito politico o un programma economico. È un risultato incoraggiante per il futuro.

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