Secondo un sondaggio condotto dall’Arab Barometer, in alcuni Paesi arabi è in crescita il numero delle persone che abbandonano l’Islam. Nel frattempo, anche la fiducia nei partiti islamisti è calata significativamente. Ma che cosa significa essere ateo nel mondo islamico?

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:02:57

Visto da un Occidente ben avviato sul cammino del secolarismo, il mondo arabo-musulmano viene spesso ricondotto a un’omogeneità le cui coordinate maggiori traspaiono già dall’etichetta che gli si attribuisce. Da una parte, si ha la percepita uniformità rappresentata dall’etnonimo “arabo”, che sta a indicare comunanza linguistica, culturale e storica. Dall’altra, l’attributo “musulmano”, con cui s’imprime in maniera sbrigativa sulla fronte di centinaia di milioni di persone l’etichetta omologante di seguace dell’Islam. Una simile visione è parzialmente giustificabile alla luce dell’esigenza tutta umana di semplificare la complessità dell’altro al fine di comprenderlo – e affrontarlo – con maggiore immediatezza. Ciononostante, effetto collaterale della semplificazione è la cancellazione della varietà interna e la perdita delle sfaccettature che quest’ultima comporta. Andare al di là di una rappresentazione che romanticamente vede l’universo arabo come uno «d’arme, di lingua, d’altare/ Di memorie, di sangue e di cor» significa quindi smontare e analizzare un mito che si è lungamente nutrito da una parte di orientalismi e paternalismo coloniale e dall’altra dell’auto-mitizzazione a suon di retorica panaraba. Nelle righe che seguono non s’infileranno le mani nel ginepraio rappresentato dall’aggettivo “arabo” e dalle identità che vi si oppongono o lo integrano, dalla berbera alla curda passando per l’assira, la nubiana e altre ancora. Ci si concentrerà piuttosto sul secondo elemento dell’etichetta “arabo-musulmano”. Al di là della coltre fumosa e uniformante dell’aggettivo “musulmano”, si cela infatti una notevole parcellizzazione dell’appartenenza religiosa. Una prima frattura è interna all’Islam stesso, lungo la frattura sunnito-sciita. A sua volta, poi, il blocco sciita raggruppa una miriade di branche e dottrine che vanno dall’ismailismo allo zaydismo, includendo sette in odore di eresia come i drusi o gli alawiti. Al blocco musulmano, vanno aggiunte le fedi che si collocano al di fuori di esso, dal cristianesimo, tra gli altri, di copti e maroniti all’ebraismo delle comunità israelitiche presenti pur in numeri ridotti dall’Atlantico al Golfo. Infine, un’ulteriore manifestazione del complesso panorama spirituale della regione e certamente la più ignorata tra le espressioni di quest’ultimo: il sempre più diffuso rifiuto della religione stessa. E su quest’ultima casistica si poserà il nostro sguardo.

 

Ateismo: le parole per dirlo

 

Il primo scoglio di una simile disamina è la definizione stessa di rifiuto della religione. Un possibile punto di partenza è quindi il lessico appartenente all’ambito dell’irreligione. Il primo termine cui si pensa è certamente “ateismo”, esso stesso un concetto dai contorni controversi. Non essendo questa la sede di disquisizioni teologiche, una definizione su cui si può azzardare un consenso è quella secondo cui l’ateismo rappresenta «la critica e la negazione del credo metafisico in Dio o in esseri di natura spirituale»[1]. Una descrizione capace di includere varie sfumature e distinzioni di ateismo, che vanno dalla negazione dell’esistenza della divinità al rifiuto della nozione stessa di divinità in quanto priva di significato o inintelligibile. Una distinzione interessante da introdurre è quella tra ateismo “positivo” e ateismo “negativo”[2]. Se il primo è patrimonio di chi non solo non crede nella divinità ma è convinto della sua non esistenza, il secondo è assimilabile all’altro concetto chiave dell’irreligione, quello di agnosticismo. Quest’ultimo è comunemente inteso come convinzione che non ci siano sufficienti prove né per credere nell’esistenza del divino né per confutarla con certezza. Un’epochè frutto di elucubrazione, quindi. D’altro canto, l’agnosticismo è utilizzato con frequenza pari o addirittura superiore per indicare la condizione di chi non abbia semplicemente le idee ben chiare sul tema o si disinteressi totalmente al fenomeno religioso tanto da non essersi mai posto alcun interrogativo. In tal caso, quindi, è la presa di coscienza a connotarsi come spartiacque tra un ateismo attivo e un agnosticismo passivo o quantomeno inerte. Al netto della varietà di ateismi e agnosticismi – al pari della moltitudine di modi di intendere religione e fede – la nostra prospettiva a volo d’uccello è frutto di uno sviluppo sia di speculazione che di terminologia squisitamente occidentale. Il passo successivo, quindi, è il tentativo di contestualizzazione in un quadro musulmano.

 

L’ecumene islamica include una varietà di Paesi e con essa un’importante eterogeneità linguistica. In alcune lingue, il termine europeo è stato calato nella grafia e nella fonetica locale, producendo ad esempio il turco ateizm o l’indonesiano ateisme. Quanto all’arabo, invece, possiamo sì citare il neologismo lā-dīnī, termine catalogabile come calco di “ateo”, dove corrisponde all’alfa privativo greco e dīnī (“religioso”) rimanda alla sfera semantica del divino di teos. Tuttavia – e fin troppo prevedibilmente – il riferimento linguistico per la lingua del dād anche nell’ambito del lessico “irreligioso” è il Corano. Il termine maggiormente utilizzato in tale contesto è ilhād, non contenente in alcun modo la parola dio bensì riconducibile alla radice trilittera l-h-d e alla relativa idea di “distorcere, deviare dalla retta via”[3]. Ilhād è quindi la parola per eccellenza che attualmente indica l’ateismo (con mulhid a indicare la persona atea), pur racchiudendo una varietà di fenomeni che implica la “distorsione degli insegnamenti fondamentali del Corano” e quindi può spaziare dall’ateismo duro e puro al politeismo passando per l’agnosticismo, l’eresia o l’eterodossia. Proprio queste due ultime accezioni si avvicinano forse maggiormente all’uso della radice che si trova nel versetto coranico «Non ci sono ignoti coloro che calunniano (yulhidūn) i Segni Nostri!» (41,40). Raro nell’uso arabo contemporaneo (ma all’origine della traduzione urdu più comune per ateismo, ossia dahryat), è la radice d-h-r, che richiama il concetto di tempo terreno come contrapposto all’eternità in Dio; a tal proposito, si citi il versetto 24 della sura 45: «E dicono: “Non esiste che questa nostra vita terrena: moriamo, viviamo e solo ci stermina il Tempo” (dahr)! “Ma essi nulla ne sanno, non fanno che congetturare”». Una radice di largo uso per indicare l’ipocrisia sic et simpliciter (nifāq) e nello specifico l’incoerenza del credente suscettibile di sfociare in un comportamento eretico è n-f-q. Dall’origine peculiare (la radice trarrebbe origine dall’azione del ratto che nel deserto s’infila in un tunnel da un’entrata e poi ne esce da un’altra[4]), l’accostamento delle tre lettere compare addirittura nel titolo della sura 63 – “Gli ipocriti” (“al-Munāfiqūn”) – citati in vari versetti della stessa tra cui l’ottavo, che sancisce come «la potenza è di Dio e del Suo Messaggero e dei credenti, e gli Ipocriti (al-munāfiqūn) nulla ne sanno». Estremamente utilizzati sono anche i termini kāfir (“miscredente”) e il sostantivo kufr (“miscredenza”), con numerose occorrenze nel Corano che attribuiscono al verbo kafara i significati – tra gli altri – di aperta miscredenza (come nel versetto 73 della sura 5: «Sono empi (kafara) quelli che dicono: “Dio è il terzo di tre”. Non c’è altro dio che un Dio solo!», recisa condanna del politeismo), di rifiuto dei segni divini (come al versetto 77 della sura 19: «Che credi tu, che colui che ripugna ai Nostri Segni, e che dice: “Mi saran date ricchezze e figli”») o ancora di commettere azioni empie (come nel versetto 44 della sura 30: «Chi avrà rifiutato la Fede (kafara), su di lui cadrà il suo rifiuto, e chi avrà operato il bene avrà disteso a se stesso un letto di pace»). Un ultimo vocabolo da includere nella nostra rassegna è murtadd, participio presente del verbo arabo irtadda, utilizzato nel Corano con il significato di “volgere le spalle a qualcosa, ritornare a una condizione anteriore”, come nel versetto 217 della sura 2, in cui «quelli di voi che avranno abbandonato la fede (yaruddukum)» sono con sufficiente precisione qualificabili come apostati, ossia autori di irtidād.

 

Alla luce della molteplicità di denominazioni illustrata poco sopra, è di fondamentale importanza tentare di esplicitare il contenuto dell’ateismo o dell’agnosticismo nelle società musulmane, ovvero riempire il guscio della rinuncia alla religione da parte di un musulmano con fattispecie concrete. In nostro aiuto viene un’indagine dell’antropologo finlandese Samuli Schielke sugli ambienti atei dell’Egitto contemporaneo[5]. Una domanda preliminare che l’autore si pone in Being   a   Nonbeliever   in   a   Time   of   Islamic   Revival:  Trajectories   of   Doubt   and   Certainty   in Contemporary Egypt è appunto la definizione esatta del “non credente” o – come formulato da Schielke – quale dubbio conti come un serio dubbio religioso. Visto che l’accusa di miscredenza appare essere molto più frequente dell’effettivo abbandono della fede, la prima è spesso utilizzata per descrivere chi viene considerato non particolarmente pio se paragonato a una religiosità vista come ideale (si pensi a chi non preghi cinque volte al giorno, non digiuni durante il mese sacro di Ramadan oppure – per una donna – non indossi il velo). Tutti comportamenti che però non implicano automaticamente l’abbandono della fede. Quando una persona, quindi, è semplicemente “sacrilega” e quando non è più musulmana? Schielke cita Ismā‘īl, un ragazzo intervistato nel corso della ricerca, il quale nomina la preghiera, il ricorso alle eulogie[6] e l’adesione alla legge religiosa (ad esempio non applicando interesse ai prestiti) come azioni proprie del pio credente. Ciononostante, Ismā‘īl stesso, confermando più o meno consapevolmente l’opinione maggioritaria della giurisprudenza islamica, evidenzia come agli occhi della gente – e l’importanza dell’ateismo in realtà caratterizzate dalla centralità della religione è sociale ancor più che individuale, come vedremo – il mancato rispetto di tali prescrizioni non trasformi qualcuno automaticamente in un apostata. Varcare la soglia dell’ateismo nell’Islam implica mettere in dubbio le fondamenta minime del credo musulmano: Dio (Allah) e il suo profeta Muhammad. Ed è proprio dalla critica e dal dubbio inerente il messaggio profetico che muovono i primi “liberi pensatori” dell’Islam, una realtà quindi tutt’altro che nuova.

 

Contestatori della profezia islamica

 

“Liberi pensatori” è una denominazione presa in prestito dal saggio Freethinkers of Medieval Islam[7] della studiosa svedese Sarah Stroumsa, che ben si addice all’esigenza di trovare una denominazione per le innumerevoli sfumature di eterodossia cui abbiamo fatto riferimento. Etichetta ancora più adatta nei primi secoli dell’Islam, quando le figure studiate da Stroumsa non contestano esplicitamente l’esistenza di Dio, quanto piuttosto la veridicità della rivelazione tramite Muhammad, affermandone l’implausibilità. Tra questi liberi pensatori, Stroumsa cita Abū Bakr al-Rāzī, vissuto tra il IX e il X secolo. Medico e scienziato tra i più importanti della sua epoca nel contesto islamico, al-Rāzī contesta la profezia rifacendosi a un razionalismo egualitario («Dio dovrebbe instillare in tutti i suoi servi la conoscenza di ciò che è bene e ciò che è male per loro, in questo mondo e nel prossimo. Non dovrebbe collocare alcuni individui al di sopra degli altri»[8]). Raccogliendo proseliti anche di comprovato valore letterario (si pensi al poeta abbaside Abū’l ‘Alā al-Ma’arrī che definisce la religione «una favola inventata dagli antichi»[9] o al celeberrimo Omar Khayyam, bohémien persiano le cui quartine gli sono valse la controversa fama di miscredente), nei primi secoli dell’Islam oggetto della contestazione e dell’eventuale rifiuto è la rivelazione, mentre l’insofferenza religiosa può essere incanalata in forme alternative di religiosità, che rimangono tuttavia nell’alveo dell’Islam, come nel caso del misticismo sufi.

 

Il discorso cambia quando all’era dei floridi imperi omayyade e abbaside subentra un periodo di stagnazione e addirittura involuzione che culmina con la minaccia dell’espansionismo europeo. Distogliendo il dibattito dalla speculazione sull’esistenza di dio o sulla veridicità della profezia, la superiorità europea nel campo militare, scientifico ed economico alimenta crescenti dubbi sul ruolo dell’Islam nella società e nella politica. Tale interrogativo si sviluppa particolarmente a partire dal XIX secolo, conducendo al consolidamento di due grandi fronti: da una parte quanti considerano l’Islam un ostacolo sulla strada del progresso e quindi auspicano una radicale secolarizzazione della società, dall’altra chi tenta di conciliare religione e modernità seguendo una peculiare via musulmana. È in tale contesto che a timidi passi si fa strada l’ateismo vero e proprio in parallelo con richieste di laicizzazione della pubblica piazza. Se la fetta di chi grida ai quattro venti il proprio ateismo è risicata (vale la pena citare Abdullāh al-Qāsimī – nato in Arabia Saudita nel 1907, formatosi al Cairo ad al-Azhar, approdato all’ateismo dopo essere stato salafita e infine morto nel 1996 – la cui affermazione «la peggiore delle occupazioni è quella dei nostri cervelli da parte degli dei» è diventata uno slogan dei miscredenti contemporanei), sul fronte pubblico la laicità non viene apertamente promossa neppure da ideologie che sembrerebbero farne una bandiera, come il socialismo panarabo o ancora più il marxismo. L’unico caso in cui quest’ultimo si è imposto al potere nel mondo arabo è stato quello della Repubblica Democratica Popolare dello Yemen, tra il 1971 e il 1990. Anche qui, tuttavia, non si fece ricorso all’ateismo di Stato, tutt’altro; l’Islam rimase religione ufficiale e piuttosto se ne rilesse la storia, attribuendogli valori popolari, rivoluzionari ed egualitari corrotti nei secoli dall’ascesa dell’aristocrazia, tanto da far passare il marxismo come un ritorno alle origini. Due eventi hanno nel frattempo grandemente contribuito a un revival dell’Islam politico: la sconfitta del 1967 contro Israele, che ha messo una pietra sul laicizzante, ma non troppo, panarabismo di Gamal Abdel Nasser, e soprattutto la Rivoluzione islamica del 1979 la cui risultante Repubblica degli ayatollah ha superato i quarant’anni di vita. Questi due eventi, tuttavia, hanno impresso una spinta – per una sorta di declinazione ideologica del terzo principio della dinamica – che ha condotto sempre più persone a distaccarsi gradualmente da un Islam appesantito da letture dogmatiche, arretrate e fondate su un glorioso passato frutto di mitizzazione esasperata. Sempre più persone, sempre più visibili e interconnesse grazie a nuove tecnologie, Internet e social media. Sempre di più. Ma quante?

 

Chi ha voltato le spalle alla religione?

 

In un contesto di forte stigmatizzazione sociale e spesso e volentieri politico-legale, è assai difficile calcolare quante persone abbiano voltato le spalle alla religione, benché negli ultimi anni non manchino ricerche e sondaggi al riguardo. Diamo un’occhiata a uno dei più recenti, realizzato da Arab Barometer in collaborazione con la BBC Arabic interpellando 25 mila persone in dieci Paesi arabi (Tunisia, Libia, Algeria, Libano, Marocco, Egitto, Sudan, Giordania, Iraq e Yemen) e nei Territori palestinesi tra la fine del 2018 e la primavera del 2019. Dallo studio – già effettuato in anni precedenti – emerge che la quota di quanti si dichiarano non religiosi[10] è passata dall’8% del 2013 al 13% (18% se si considerano solo gli under 30). Inoltre, solo un terzo degli intervistati si reca in moschea per la preghiera del venerdì. Passando all’agone politico, il sondaggio registra un calo nella fiducia dei partiti islamisti (dal 35 al 20 per cento), con l’approvazione dei Fratelli musulmani egiziani scesa dal 44 al 17 per cento, quella degli omologhi giordani dal 35 al 14, degli islamisti marocchini dal 45 al 25 e quella dei tunisini di Ennahda dal 40 al 16. Cali significativi. Ma perché?

 

Stabilire la ragione della disaffezione nei confronti dell’Islam è questione complessa e sfaccettata, che richiede di entrare in dialogo con chi ha abbandonato la religione. Una prima suddivisione tra i “moventi” all’origine dell’abiura è tra quella tra ambito privato e sfera pubblica. Ovviamente si tratta di due dimensioni tutt’altro che chiaramente separate; ci troviamo di fronte, piuttosto, a un sistema di vasi comunicanti in cui il dubbio nato in una delle due sfere finisce per estendersi all’altra, rafforzandosi vicendevolmente. Sovente sono perplessità di carattere epistemologico o morale all’origine della messa in discussione della religione. L’architettura stessa dell’Islam può essere oggetto di scetticismo, con dogmi e pratiche il cui senso o la cui utilità vengono contestate. A ciò può aggiungersi il vissuto individuale e la contraddizione tra quest’ultimo e i dettami morali della religione (si pensi a presunti valori quali la verginità o disvalori come l’omosessualità). Quanto alla scintilla all’origine del dubbio, poi, è frequente l’esposizione a un’alternativa, che si tratti di ambienti di contestazione dell’Islam (letture “eterodosse” o frequentazioni borderline dal punto di vista religioso, ad esempio) o di semplice estraneità a quest’ultimo (si vedano viaggi all’estero o il mare magnum di internet).

 

Il giunto tra dimensione privata e pubblica – elemento caratterizzante del percorso di un miscredente musulmano rispetto a quello di un occidentale immerso in una società tutto sommato secolare – è la stretta interconnessione tra dīn (religione), dawla (Stato) e dunya (realtà mondana, ovvero società). Succintamente, questo rapporto può essere spiegato con una legittimazione incrociata tra religione e politica. Religione acefala (senza una guida unica e infallibile in materia religiosa alla stregua del Papa nella Chiesa cattolica), l’Islam vede varie branche e personalità che chiedono alla politica il suggello dell’ortodossia, e a sua volta lo Stato vede nella religione uno strumento di legittimazione per trasformare la asabiyya (coesione sociale su base tribale) di khalduniana memoria in un potere istituzionalizzato; esempio ne sono le credenziali sceriffali – ossia di discendenza dal profeta Maometto – vantate da alcuni monarchi arabi. Questo reciproco spalleggiamento tra religione e Stato finisce per riflettersi sulla società, terzo elemento il cui controllo è la chiave della sopravvivenza degli altri due. Da qui deriva il sistema di norme che nelle legislazioni di gran parte dei Paesi arabo-musulmani punisce l’apostasia o forme più lievi di dissenso religioso (come la criminalizzazione del non rispetto del digiuno di Ramadan): colui che abbandona la religione disconosce l’autorità costituita, si trasforma in potenziale sovvertitore, in una quinta colonna del sempre attuale complotto occidental-sionista. È necessario inibirlo con una gabbia fatta di leggi e stigma sociale. E proprio da questa gabbia che vuole fuggire larga parte di quanti abbandonano l’Islam.

 

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[1] Kai E. Nielsen, “Atheism”, Encyclopædia Britannica, https://www.britannica.com/topic/atheism, Data di accesso: 31 ottobre 2020.
[2] Michael Martin, The Cambridge Companion to Atheism, Cambridge University Press, Cambridge 2006.
[3] Hans Wher, A Dictionary of Modern Written Arabic, Librairie du Liban, Beyrouth 1980, p. 859.
[4] Elsaid M. Badawi, Muhammad Abdel Haleem, Arabic-English Dictionary of Qur’ānic Usage, Brill, Leiden 2008, p. 956.
[5] Samuli Schilke,  Being   a   Nonbeliever   in   a   Time   of   Islamic   Revival:   Trajectories   of   Doubt   and   Certainty in Contemporary Egypt, «International Journal of Middle East Studies», 44 (2012), pp. 301-320.
[6] Nella cultura islamica si parla di eulogie in riferimento a formule che esprimono il rispetto per Dio, per il Profeta Muhammad, i suoi compagni e i califfi suoi successori, oltre che per persone di eccezionale levatura religiosa e morale. Tra le più diffuse figura quella che accompagna Muhammad (“sallā Allāhu ‘alayhi wa sallama”, Sia su di Lui la preghiera e la pace)..
[7] Sarah Stroumsa, Freethinkers of Medieval Islam: Ibn Al-Rawandi, Abu Bakr Al-Razi and Their Impact on Islamic Thought, Brill, Boston 1999.
[8] Ibid., p. 36.
[9] Reynold Alleyne Nicholson, A Literary History of the Arabs, T. Fisher Unwin, London 1907, p. 318.
10] Da notare che l’etichetta di “religioso” non è definita in alcun modo nel sondaggio ed è lasciata esclusivamente all’interpretazione e all’autovalutazione dell’intervistato. La domanda rivolta a quest’ultimo è infatti “In generale, si descriverebbe come religioso, in qualche misura religioso o non religioso?”, senza ulteriori specifiche.