Contro-prediche. Tra Europa e Islam

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:36:54

L'Islam è malato e la sua malattia si chiama fondamentalismo. Abdelwahab Meddeb, intellettuale franco-tunisino, scrittore e poeta, non si nasconde dietro le parole e in queste 115 Contro-prediche, trasmesse settimanalmente dalla radio Medi1 di Tangeri in un arco di tempo che va dal marzo 2003 al gennaio 2006, si propone di «avviare un lavoro di anamnesi». L’interesse dell’operazione è evidente e l’editore Cantagalli non si è lasciato sfuggire l’occasione, a tutto beneficio del pubblico italiano, anche se un’ulteriore revisione prima della pubblicazione avrebbe evitato alcuni refusi. Ispirandosi agli avvenimenti della cronaca e senza dimenticare viaggi e letture, Meddeb tocca parecchi nervi scoperti: il fondamentalismo e il terrorismo, il velo e la condizione della donna, il culto del capo e il deficit democratico, l’assenza di libertà religiosa e l’accusa di miscredenza (takfîr), in una parola «la trasformazione di una tradizione in ideologia da combattimento». Analisi tanto più apprezzabile in quanto l’autore evita le sirene dell’apologia: non ha cioè la necessità di concludere sulla necessaria armonia tra Islam e modernità che mina alle radici tanto discorso riformista. Ma che cosa opporre alla prospettiva di un Islam «che stabilisce un “monologismo” ossessivo e aggressivo»? Anche su questo Meddeb è molto chiaro: il «superamento delle referenze religiose tradizionali, in nome dei principi che alimentano la scuola dei Lumi, illuminando a loro volta la via cosmopolita della pace perpetua». L’idea di oltrepassare i particolarismi dei culti per ritrovare l’universalità naturale della religione non sarebbe del resto estranea a una parte del pensiero islamico: Meddeb traccia una genealogia che dal sufismo di Ibn al-‘Arabî e degli akbariani discende a Spinoza e di lì a Lessing e soprattutto a Voltaire. Non si tratta – Meddeb lo sa e lo dice – della tradizione maggioritaria nell’Islam, ma di una «deviazione dalla norma». Essa sola potrà «portare all’Islam le riforme di cui ha bisogno per attualizzare l’antichità di cui è conservatore e trasformarne i valori facendo così del soggetto islamico un essere nietzscheiano, nello stesso tempo contemporaneo e inattuale». Ma accanto al Meddeb dei Lumi ce n’è un altro, che si entusiasma per «le asperità della tradizione», che celebra la condizione interstiziale dello straniero, la «doppia genealogia» della sua terra e la «rassomiglianza nel dissimile» che unisce Europa e Islam. Di qui le pagine più convincenti del volume che celebrano, pur con qualche concessione a un esotismo vitalista, il patrimonio culturale maghrebino e più in generale islamico, a cominciare dalla magnifica miniatura del XIV secolo cui è dedicata l’Ouverture. L’autore, che è poeta e conosce “le ragioni del cuore”, contravviene alla norma che egli stesso si è data. In effetti se «le religioni sono tutte formalizzazioni differenti dello stesso bisogno che obbliga un relativo a prendere posizione nei confronti dell’Assoluto», perché attardarsi su di esse e sulle loro manifestazioni storiche piuttosto che procedere sicuri verso un sapere assoluto? Perché esse possiedono – Meddeb sembra presentirlo – un’inconfondibile nota di calore che la religione nei limiti della pura ragione non è in grado di dare. Esemplare la discussione sul male: commentando lo tsunami del 2003 l’autore esclude che le realtà naturali agiscano in vista di un fine provvidenziale. Ma subito dopo una pagina degna del miglior Voltaire, eccolo estrarre dal cilindro le parole di un’antica mistica sufi: «Dio ha chiamato a sé gli umani con ogni sorta di bontà e di grazie, ma quelli non gli risposero; allora rovesciò su di essi ogni sorta di calamità, perché con la catastrofe tornino a lui, perché lui li ama». Questa economia dell’amore – ¬conclude – «colora di sfumature sottili l’ultima ipotesi espressa da Voltaire». E da Meddeb.

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