L'Undici Settembre ha creato una frattura anche nella storia del cinema, ha cambiato l'immaginario mondiale. Nei film di Wim Wenders e Steven Spielberg l'Occidente si interroga sulla sua identità, sulla sua vitalità.

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:52:45

È un buco nero nella storia del cinema. Un prima e un dopo. Un evento da cui non si può prescindere ma che è impossibile mostrare, dopo l'esasperata esposizione televisiva che l'ha impresso a fuoco nella nostra memoria. Ground Zero, quella ferita al cuore dell'impero, ha cambiato l'immaginario mondiale. C'era una volta il cinema americano e c'erano una volta gli altri, i film "nazionali", quelli che malamente tenevano in vita, nel gran pastone dell'omologazione visiva, sfumature di linguaggio, stile, identità differenti. Di tutto questo non è rimasto più niente. O meglio, c'è ma non conta. Non contano nulla, neppure sul mercato, le inquietudini amorose francesi, i sopravvissuti proletari inglesi, il piccolo mondo antico di un'Italia sorpresa tra camera e cucina, la desolata metropoli russa, gli yakuza giapponesi e i rituali cinesi. La realtà è altrove, in una guerra fatta di immagini e non di cifre. Da una parte c'è il fronte occidentale, dall'altra il resto del mondo. Gli attentati alle due torri, la guerra in Afghanistan, oggi l'Iraq, hanno svelato, di là dall'Occidente, terre sconosciute e straniere. Un mondo senza immagini, un mondo a parte. L'effetto è stato immediato. E devastante. Così, l'America che racconta se stessa nello sprezzante pamphlet di Michael Moore premiato a Cannes, Fahrenheit 9/11, non è solo America. Come non c'è solo la Spagna disperata e nichilista ne La mala educación di Pedro Almodovar. È l'Occidente tutto, dolente e corale, che si interroga nella paranoia - e anche nella fede - de La terra dell'abbondanza di Wim Wenders.

Un Occidente senza lingua, religione, cultura: asettico e stranito, nel ritratto disegnato da Spielberg in The terminal. La no man's land, insomma, abita qui, tra noi. Il resto è altrove: piccoli film anche sciatti, brani di realtà a low budget, frammenti di un altro mondo.

Una Storia senza Immagini

Il fenomeno è appena iniziato ma non sembra destinato a vita breve. Lo alimentano una realtà in ebollizione e anche, soprattutto, i nuovi mercati che i mutamenti politici e sociali aprono via via. Un caso per tutti è Mohsen Makhmalbaf, portavoce del mondo nuovo. Il professore iraniano, già membro di un'organizzazione islamica radicale, scopre il cinema negli anni '80. È una rivelazione, la possibilità concreta di raccontare al mondo un popolo, una storia, una nazione senza immagini. Mohsen impara in fretta e subito si mette ad insegnare. Apre una scuola e con lui scoprono la forza del racconto, tra gli altri, i figli Samira, Hana, Maysam, la seconda moglie Marziyeh, oggi tutti registi famosi. Gira Viaggio a Kandahar nel 2001 e vince il Festival di Cannes. Il film esce all'indomani degli attentati e mostra al mondo, ancora sotto shock, «le donne afghane senza volto», «una nazione in cui metà degli abitanti non possono essere visti». Con la guerra, migliaia di immagini televisive ci abitueranno a quei fantasmi ricoperti di abiti scuri che camminano veloci per le strade.

Ma nel 2001 il viaggio di Nafas, la profuga afghana che torna clandestinamente nel suo paese per impedire il suicidio della sorella, è una brutta sorpresa, costringe il mondo a interrogarsi. «Avrei voluto girare il film in Afghanistan» racconterà il regista «ma mi è stato impedito. Sono entrato clandestinamente e ho visto cose spaventose, che mi hanno fatto vergognare di me, del fatto che avessi anch'io rimosso, come tutti, la tragedia che si svolgeva al confine con il mio paese». L'Afghanistan non è un incidente di percorso. Ne La mela, la diciottenne Samira Makhmalbaf aveva raccontato già nel '98 un fatto di cronaca avvenuto in un quartiere a sud di Teheran, la sua città: la storia di due gemelle di dodici anni, rinchiuse e costrette all'analfabetismo, alla denutrizione, all'isolamento. Scrive il copione tre giorni dopo aver letto la notizia sul giornale, gira in due settimane. Due anni dopo è la volta di Lavagne, che racconta il calvario di un gruppo di maestri. Sono profughi curdi. Una pesante lavagna in spalla, si aggirano in cerca di allievi e stipendio nelle vallate del Kurdistan iraniano, ferite dai bombardamenti e dalle armi chimiche.

È poi la volta di Piccoli ladri, il film di Marziyeh Meshkini, in questi mesi nelle sale europee. Protagonisti due bambini, che passano le giornate vagabondando per Kabul, in cerca di cibo e calore, e le notti in cella con la madre, accusata di adulterio dal marito talebano, anche lui rinchiuso in carcere. Sono i "prigionieri della notte", sono milioni. Quando anche le porte del carcere si chiudono, ai bambini non resterà che commettere un reato, sperando di essere arrestati. Sono ritratti fulminanti, piccole storie di quotidiano orrore girate in fretta, con pochi soldi e attori presi dalla strada. Fanno il giro del mondo. Il tono è leggero, garbato. Una denuncia, sì, ma sottovoce. Nessuno vuole spaventare l'altra metà del mondo. Una discrezione che suona strana agli occhi degli spettatori occidentali, abituati alle emozioni forti. Ed è subito sospetto di retorica, manierismo, eccessiva fotogenia. Qualcuno prova strade diverse per far breccia nell'indifferenza, dal melodramma al documentario. Ne La sposa turca, acclamato Orso d'Oro a Berlino 2004, Fatih Akin, trentunenne turco nato e cresciuto ad Amburgo, racconta il viaggio dell'impossibile integrazione tra la Germania e Istanbul. Un film livido e vitale, che descrive i nuovi "arrabbiati" dell'Unione Europea, tra gli inattuali cascami del costume islamico e la disperata modernità di un Occidente perduto a se stesso. Un piccolo cortometraggio olandese, 10' appena, conquista le pagine del New York Times. Sottomissione viene trasmesso in televisione e fa scalpore in prima serata, commuove e indigna. Ideato da Ayaan Hirsi Ali, rifugiata somala in Olanda e membro del parlamento, realizzato dal regista Theo Van Gogh, mostra corpi femminili su cui appaiono incisi versetti del Corano. Il film si apre con la preghiera di quattro donne che implorano Allah di far cessare le loro sofferenze. Una voce fuori campo ne racconta le storie: malmaritate, violentate in casa, picchiate e frustate, portano scritte sul corpo le parole della legge islamica che condanna i loro torti, veri o presunti. Si grida alla provocazione e all'intolleranza. Non ci si chiede se è tutto vero. Intanto il regista, 47 anni, già minacciato di morte nel 2002 per una serie tv, Najib & Julia, che aveva suscitato polemiche nella comunità islamica, viene ucciso ad Amsterdam da un giovane marocchino.

L'autrice di Sottomissione, Hirsi Ali, vive sotto la protezione dalla polizia olandese. Però, l'Occidente: dov'è, cosa fa?

La Realtà e il Suo Doppio

A fronte di una fiction mascherata da documentario, un documentario che si finge film. La terra dell'abbondanza ha in comune con Fahrenheit 9/11 la scelta di non mostrare la tragedia delle Twin Towers da cui prende il via. Le ragioni sono opposte. Se l'irruzione della realtà è un rischio troppo grande per Moore, l'immagine negata si carica di drammaticità in Wenders. Asciutto e forte, il film oppone alle mille risposte di Moore una sola domanda: da dove ricominciare, dopo il boato e il silenzio che hanno segnato Ground Zero e, con l'America, il mondo intero? Come affrontare la paura? Chiede e mendica "verità, prima o poi" attraverso i suoi protagonisti: Lana, che arriva alla missione cattolica di Los Angeles dopo essere passata dall'Africa al Medio Oriente; Paul, perseguitato dai fantasmi del Vietnam e dall'ossessione di controllare il nemico, dovunque e chiunque esso sia. La risposta è l'incontro tra i due, zio e nipote, i volti aggiornati del sogno americano. La terra promessa è la scintilla che ne nasce, l'irresistibile compassione che li muove l'una all'altro e che si allarga alla realtà dell'homeless pakistano ucciso in strada. È questa "l'abbondanza" cantata da Leonard Cohen nella colonna sonora del film. I francesi lo bollano: consolatorio.

La No Man's Land

E non li convince nemmeno The terminal, forse perché Spielberg si ispira a una storia davvero imbarazzante per la Francia, quella dell'iraniano Mehram Nasseri, rinchiuso per anni nella sala di transito internazionale dell'aeroporto di Roissy. C'è una certa paranoia diffusa nell'aria condizionata del JFK di New York. Così, quando un signor nessuno con la faccia da straniero atterra dal lontano paese di Krakhozia, col passaporto invalidato da un improvviso colpo di stato e una lingua barbara, scoppia il panico. Viktor Navorsky non può entrare in città e non può uscire dall'aeroporto. Senza soldi e documenti, senza arte né parte, praticamente non esiste. Però c'è, e si guarda attorno per sopravvivere. Quello che vede è l'asettica tomba dell'Occidente, una democrazia delle regole che si traduce in un labirinto di segnali incomprensibili. La realtà è fuori, e fa paura. Dentro, nell'illusoria protezione di un ordine artificiale, ci sono solo segni che non rimandano più ad alcun significato. Ordini, regolamenti, divieti senza oggetto. La grandezza di Spielberg è nella sua semplicità di americano duro e puro.

Se il deserto avanza, si riparte da quello che c'è: i volti degli extracomunitari che lavorano nella terra di nessuno, il cuore e la ragione che trionfano sul nulla della legge. Forte di una promessa fatta al padre, di un segreto che lo fa uomo, Navorsky si reinventa una casa, un popolo, un amore. Troppo facile? Non ci sono vie di mezzo, l'Occidente è al bivio tra l'essere e il nulla, tra la vita e la morte. L'alternativa è Almodovar, l'uomo nuovo disegnato ne La mala educación, mirabile e terrificante ritratto di quello che siamo. Il regista spagnolo prende sul serio il motto dostoevskiano «se Dio non esiste tutto è possibile» e reinventa una cosmologia senza destino, popolata da preti pedofili, attori transessuali, fratelli assassini. Un identikit che fa tremare e ha estasiato l'incosciente intellighentia europea. Vediamolo. Nome variabile, età di mezzo, sesso incerto. Studi: scuola cattolica, educazione "psicotica" perché induce al "senso di colpa". Professione: regista o scrittore, comunque un creativo, definito da progressiva aridità di ispirazione. Connotati: accentuata vocazione libertaria, ancorché disperata. Contrassegni: assenza di passione e lacrime. Parola chiave: diritti (senza desideri). Fobie: memoria, tradizione, ragione. Identità: nessuna. Segni particolari: una miopia che ci seppellirà.

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