Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:50:13

Il mondo del dopo Undici Settembre torna a porre al centro della vita pubblica e diplomatica la religione quale fenomeno universale non più relegabile alla semplice dimensione privata, ma coinvolgente anche la vita pubblica di miliardi di persone. Spesso rappresentata dai media come fonte di divisione e conflitto, la religione inquieta, al punto che viene discussa da alcuni come una dimensione da contenere e da “neutralizzare”, da altri come una realtà inevitabile, che riguarda tutti, credenti e non credenti, e con cui bisogna fare i conti, da altri ancora come possibilità unica per la soluzione dei conflitti ed essenziale nei vari programmi e progetti di sviluppo. Tale fenomeno è particolarmente evidente all’interno dell’Onu. Qui per anni il contributo offerto dalle varie religioni è stato quasi del tutto relegato a questioni particolari come, ad esempio, l’aborto, il controllo delle nascite, la libertà della pratica religiosa, ecc, sulle quali tra le comunità religiose e gli uffici Onu sono nate collaborazioni, ma anche forti contrasti. Ma oggi l’orizzonte è cambiato: la religione è vista in sede Onu come un utile strumento per lo sviluppo, per cui il dialogo interreligioso – percepito come interessante dalla diplomazia – è sempre più promosso. Si tratta di un aspetto di grande novità, che apre a nuove opportunità di collaborazione come anche a nuovi problemi. Primo fra questi la tendenza a ridurre la religione e il dialogo interreligioso a mezzi immediatamente utilizzabili. Ciò accade perché al fondo manca una comprensione adeguata di ciò che costituisce la dimensione religiosa, la sua ragion d’essere, che non può essere trattata con lo stesso metodo utilizzato per altre dimensioni come quella economica, politica, sociale…, in quanto contiene per natura aspetti non misurabili che, avendo a che fare con la ricerca della verità, trascendono qualsiasi risvolto funzionale. Ma tale tendenza a ridurre tutto a elementi pratici si riscontra anche in altri aspetti della vita diplomatica e delle politiche di sviluppo. Come il concetto di sicurezza è diventato uno dei criteri chiave per misurare il successo delle politiche in corso, o la stabilità è usata come parametro dell’efficacia dei progetti in atto, al punto che si arriva ad equiparare pace e sviluppo a sicurezza e stabilità, così il dialogo interreligioso e il coinvolgimento di rappresentanti religiosi vengono spesso considerati in funzione di vari scopi: garantire un certo livello di sicurezza attraverso, ad esempio, la condanna ufficiale di atti di terrorismo in nome della religione, o ancora ottenere il sostegno a progetti per la lotta contro l’AIDS, anche se questi possono contenere idee contrarie al loro credo. Ecco dunque che immersa in questo nuovo scenario, l’organizzazione delle Nazioni Unite si trova di fronte a domande non più rinviabili: può e deve occuparsi di questo tema? Se sì, entro quali limiti? In quanto organizzazione tra governi, come può assumere questa responsabilità rispettando la propria natura? E le religioni stesse fino a che punto possono e devono coinvolgersi con il lavoro dell’Onu? Se l’Onu decidesse di affrontare radicalmente la questione religiosa e di ripensare a un dialogo tra l’ONU e le grandi religioni del mondo, ciò avrebbe risvolti molto complessi per gli attori in gioco, cui si richiederebbe grande senso di responsabilità collettiva, ma aprirebbe una stagione di nuove grandi opportunità per tutti i popoli.