A partire dal Corano è possibile mostrare come uno stesso ideale etico possa appartenere sia alla tradizione occidentale sia a quella islamica

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:07:51

Questo articolo è la presentazione sintetica di una ricerca attualmente in corso nel quadro del progetto "Non un'epoca di cambiamento, ma un cambiamento d'epoca" realizzato con il contributo di Fondazione Cariplo La riflessione sulla compatibilità di Islam ed Europa è rimasta fino a oggi ancorata alle normative particolari, e, nella volontà di conciliare le misure dettate dalla sharia con le acquisizioni delle società occidentali, si è finito per discutere la stessa fondatezza islamica di quelle misure, lasciando del tutto in ombra la discussione razionale e dialettica sui principi generali ai quali si richiamano. Poniamo l’esempio dei precetti relativi al velo e all’abbigliamento femminile: in questo caso certa islamologia, occidentale o islamica, ha discusso la plausibilità dell’“occultamento” della donna alla luce di un lavoro storico-critico sulle fonti islamiche, nel tentativo di dimostrare che era possibilmente infondato, cioè non qualificabile di islamico secondo le fonti più autorevoli. Lo stesso procedimento è stato adottato anche per altre questioni relative ai diritti della persona e capitali per una convivenza armoniosa nella “città comune”, quali la libertà di religione e di coscienza e l’autodeterminazione individuale o collettiva, il regime matrimoniale, il diritto penale e le pene corporali, etc. La via del “ritorno alle fonti” per stabilire o meno l’esattezza e la genuinità della precettistica islamica incompatibile con la tradizione occidentale sembra opportuna per molti versi, essendo la più rispettosa nei confronti dell’appartenenza altrui. Inoltre, proprio lavorando sulle fonti si è inteso combattere con le loro stesse armi la concezione più retriva di Islam, quella che si definisce eloquentemente “salafita” perché vincolata agli esordi storici di questa religione. Insistendo però sulla norma specifica e accogliendo l’idea di una realtà tanto più autentica quanto più originaria, l’islamologia rischia di cadere in più di un tranello. Intanto, dimostrare che una data regola del comportamento islamico non ha fondamento islamico è un’operazione molto ardua: chiunque lavori sulle fonti dell’Islam, che sia musulmano oppure no, si scontra continuamente con la contraddittorietà e a volte la vera e propria inconciliabilità, reale o apparente che si voglia definire, dei vari enunciati tradizionali. E comunque, una cosa è possedere la prova provata del carattere fittizio e inautentico di un dato precetto, e un’altra è convincere altri che quel precetto, pur attestato nella storia del mondo islamico, non ha alcun legittimo fondamento nell’Islam. Peraltro, privilegiare l’indagine sulla norma significa lasciare in ombra il principio soggiacente – la ‘illa, per impiegare il lessico tecnico del diritto islamico; per esempio, nella fattispecie dell’abbigliamento femminile – incompatibile con l’affermazione dei diritti personali – il principio è evidentemente quello – del tutto compatibile – della difesa e della protezione delle donne. Inoltre, insistere sulle norme specifiche, cioè sull’esito finale dell’interpretazione dei principi alla base del discorso islamico, rischia di non riflettere affatto l’aderenza a un sistema normativo plurale e flessibile come quello musulmano, ma, piuttosto, un’“essenzializzazione” tipica del pensiero giuridico positivista della modernità occidentale. Escludere la storia dell’esegesi sulle fonti e amputare l’Islam della sua complessa e sfaccettata dimensione storico-culturale è quanto mai dannoso, visto che proprio conoscere l’estrema varietà e la pluralità dell’esegesi teologico-giuridica islamica può servire a sfumare l’importanza delle misure e delle convinzioni particolari e contingenti. Occorre sostituire l’attenzione al versante normativo particolare con l’attenzione ai principi generali soggiacenti, nella convinzione che l’eventuale incompatibilità delle norme storicamente date non comporti necessariamente l’incompatibilità dei principi generali su cui esse si fondano. Costruire una società adeguata alle istanze dell’epoca in cui viviamo significa anche ripensare – e forse ritrovare – i principi della vita morale sui quali si regge la nostra collettività. La necessità di un cambiamento di prospettiva, dalla regola contingente al principio generale e astratto e in quanto tale passibile di generare altre regole e misure, è peraltro indicato anche dal lavoro di alcuni intellettuali musulmani contemporanei, diversi tra loro ma tutti interessati alla dimensione morale dell’Islam. Ad esempio l’egiziano Muḥammad Mutawallī al-Shaʿrāwī (m. 1998), tra le personalità̀ religiose più̀ influenti della contemporaneità, specialmente nel commentario incompiuto dal titolo Le mie considerazioni sul nobile Corano (Ḫawāṭirī ḥawla al-Qur’ān al-karīm); oppure lo stimato predicatore siriano Muḥammad Rātib al-Nābulusī (n. 1938), nella Enciclopedia dei Nomi divini, o l’indiano-americano Abdulaziz Sachedina (n. 1942). Sarebbe importante focalizzare l’attenzione sul valore della medietas, a titolo di esempio significativo e anche grazie agli spunti offerti da una pubblicazione recente, The Middle Path of Moderation in Islam dello studioso afgano Mohammad Hashim Kamali (n. 1944). A partire dal Corano e dall’esempio verificato del Profeta fino ad alcuni testi contemporanei sintomatici in lingua araba, è possibile illustrare come uno stesso ideale di pensiero e di condotta possa appartenere a giusto titolo sia alla tradizione occidentale sia a quella islamica.