Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:41:08

Entrare nei meandri della crisi economica e finanziaria è, per la stragrande maggioranza dei cittadini, un’impresa impervia. Qualsiasi analisi appena un po’ meno che generica diventa presto inintelligibile al profano. Così il discorso economico, e ancor più quello finanziario, si è fatto lontanissimo dalla possibilità di comprensione di coloro che pure ne sono i destinatari e gli attori finali, cioè tutti. È necessario che l’economia e la finanza, senza ovviamente prescindere dal loro livello specialistico, non rinuncino mai ad esplicitare quello elementare ed universale. Tutti debbono poter capire, almeno a grandi linee, la “cosa” con cui economia e finanza hanno a che fare. Ciò è necessario perché ognuno non solo possa difendere i propri diritti, ma sappia soprattutto assumersi consapevolmente le proprie responsabilità in riferimento alla costruzione del bene comune anche attraverso sacrifici e rinnovati impegni. Non si può inoltre accettare una riflessione e una pratica dell’economia che prescinda da una lettura culturale complessiva che inevitabilmente implica un’antropologia e un’etica. A questo proposito mi sembra decisiva la prospettiva con cui si sceglie di guardare all’odierna situazione. Parlare di crisi economico-finanziaria per descrivere l’attuale frangente di inizio del Terzo millennio non è sufficiente. A mio giudizio la crisi del momento presente chiede di essere letta e interpretata in termini di travaglio e di transizione. Questo tempo in cui la Provvidenza ci chiama più che mai ad agire da co-agonisti nel guidare la storia è simile a quello di un parto, una condizione di sofferenza anche acuta, ma con lo sguardo già rivolto alla vita nascente. Il travaglio del parto esige però dalla donna l’impegno di tutta la sua energia umana. Così anche noi, cittadini immersi nella crisi economico-finanziaria, siamo chiamati a metterci in gioco, impegnando tutta la nostra energia personale e comunitaria. Il domani avrà un volto nuovo se rifletterà la nostra speranza di oggi. Una “speranza affidabile” deve quindi guidare le nostre decisioni e la nostra operosità. Allargare la “ragione economica” e la “ragione politica” Parlare di travaglio e non limitarsi a parlare di crisi economico-finanziaria, vuol dire non fermarsi alle pur necessarie misure tecniche per far fronte alle gravi difficoltà che stiamo attraversando. Secondo molti esperti la radice della cosiddetta crisi starebbe nel rovesciamento del rapporto tra sistema bancario-finanziario ed economia reale. Le banche sarebbero state spinte a dirottare molte risorse che avevano in gestione (e quindi anche il risparmio delle famiglie) verso forme di investimento di tipo puramente finanziario. Anche a proposito della nostra città si è potuto affermare: a Milano è rimasta solo la finanza. Non spetta a me confermare o meno tale diagnosi. Voglio, invece, far emergere un dato che reputo decisivo: nonostante l’ostinato tentativo di mettere tra parentesi la dimensione antropologica ed etica dell’attività economico-finanziaria, in questo momento di grave prova il peso della persona e delle sue relazioni torna testardamente a farsi sentire. Dalla crisi si esce solo insieme, ristabilendo la fiducia vicendevole. E questo perché un approccio individualistico non rende ragione dell’esperienza umana nella sua totalità. Ogni uomo, infatti, è sempre un “io-in-relazione”. Per scoprirlo basta osservarci in azione: ognuno di noi, fin dalla nascita, ha bisogno del riconoscimento degli altri. Quando siamo trattati umanamente, ci sentiamo pieni di gratitudine e il presente ci appare carico di promessa per il futuro. Con questo sguardo fiducioso diventiamo capaci di assumere compiti e di fare, se necessario, sacrifici. Da qui è bene ripartire per ricostruire un’idea di famiglia, di vicinato, di città, di paese, di Europa, di umanità intera, che riconosca questo dato di esperienza, comune - nella sua sostanziale semplicità - a tutti gli uomini. Non basta la competenza fatta di calcolo e di esperimento. Per affrontare la crisi economico-finanziaria occorre anche un serio ripensamento della ragione, sia economica che politica, come ripetutamente ci invita a fare il Papa. È davvero urgente liberare la ragione economico-finanziaria dalla gabbia di una razionalità tecnocratica e individualistica di cui, con la crisi, abbiamo potuto toccare con mano i limiti. Ed è altrettanto urgente liberare la ragione politica dalle secche di una realpolitik incapace di capire il cambiamento e coglierne le sfide. La politica, nell’attuale impasse nazionale e nel monco progetto europeo, ha bisogno di una rinnovata responsabilità creativa perché la società non può fare a meno del suo compito di impostazione e di guida. A questa assunzione di responsabilità da parte della politica deve corrispondere l’accettazione, da parte di tutti i cittadini, dei sacrifici che l’odierna situazione impone. Per sollevare la nazione è necessario il contributo di tutti, come succede in una famiglia: soprattutto in tempi di grave emergenza ogni membro è chiamato, secondo le sue possibilità, a dare di più. Tre rilievi di carattere culturale Mi permetto ora di offrire tre brevi indicazioni di carattere culturale necessarie all’allargamento della ragione economica e politica. Ricchezza e felicità Se non vogliamo ricorrere al drastico ammonimento del Signore - «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell'abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede» (Lc 12,15) – sarà sufficiente ricordare che già Aristotele giudicava inaccettabile una vita che identificasse la felicità con la ricchezza, ovvero che scambiasse un mezzo con il fine. Non ci si può rassegnare di fronte ad una concezione dello “scambio” che non solo è diventata sempre più diffusa, ma che sembra governare l’intera macchina economica. Secondo questa visione il cittadino è (pessimisticamente) ridotto all’homo oeconomicus, preoccupato esclusivamente di massimizzare il profitto. Alla base dell’attività economica e finanziaria sembra infatti esservi solo l’assunto secondo cui l’aumento della ricchezza è in ogni caso e, meglio, quanto prima, un bene da perseguire . Secolarizzazione e mondo cattolico In secondo luogo merita di essere denunciato l’indebolimento di quelle “voci” che porterebbero a questo auspicato allargamento della ragione. Responsabile, in parte, di questo indebolimento è il variegato processo di secolarizzazione, che ha di fatto favorito l’affermarsi della mentalità positivistica denunciata da Benedetto XVI. È però doveroso in proposito notare che, anche in campo cattolico, un’ambiguità latente in certa interpretazione del principio dell’“autonomia delle realtà terrene”, ha giocato un suo ruolo. Il Concilio Vaticano II ha affermato il valore di tale principio se con esso «si vuol dire che le cose create e le stesse società hanno leggi e valori propri, che l’uomo gradatamente deve scoprire, usare e ordinare», perché «allora si tratta di un’esigenza d’autonomia legittima: non solamente essa è rivendicata dagli uomini del nostro tempo, ma è anche conforme al volere del Creatore» (Gaudium et spes, 36). Ma lo stesso Concilio precisa che «se invece con l’espressione “autonomia delle realtà temporali” si intende dire che le cose create non dipendono da Dio, e che l’uomo può adoperarle senza riferirle al Creatore, allora a nessuno che crede in Dio sfugge quanto false siano tali opinioni. La creatura, infatti, senza il Creatore svanisce» (Gaudium et spes, 36). Il principio dell’autonomia delle realtà terrene – se rettamente inteso – porta di conseguenza all’appropriato riconoscimento dell’autonomia dei fedeli laici nel campo “loro proprio” (cf. Apostolicam actuositatem, 7). Talvolta, però, il riferimento al principio dell’autonomia in questo ambito si è trasformato in una perniciosa rinuncia a far emergere la valenza antropologica ed etica necessaria per affrontare i contenuti concreti dell’azione sociale, politica ed economica. In tal modo, però, “autonomo” è diventato di fatto sinonimo di “indifferente” rispetto a tali sostanziali valenze. La stessa dottrina sociale della Chiesa ha rischiato, in questo quadro, di essere considerata più come una premessa di pie intenzioni che come un quadro organico e incisivo di riferimento. Insomma, c’è da chiedersi se il mondo cattolico, per sua natura chiamato a essere attento alle grandi sfide antropologiche ed etiche in gioco, non sia stato, da parte sua, corresponsabile, almeno per ingenuità o ritardo o scarsa attenzione, dell’attuale stato di cose. Gli autorevoli inviti ai fedeli laici a un più deciso impegno politico diretto domandano l’assunzione integrale della Dottrina sociale della Chiesa basata su princìpi di riflessione, criteri di giudizio e direttive di azione e non alchimie partitiche. “Peggio della cicala” C’è ancora un terzo fattore che merita di essere segnalato. Neppure la combinazione di congiunture tanto sfavorevoli avrebbe condotto all’odierna crisi economico-finanziaria se essa non avesse potuto attecchire sul terreno di un’irresponsabilità diffusa: quella che spinge a spendere sistematicamente per i propri consumi ciò che non si è ancora guadagnato. Un comportamento che fino a poco tempo fa sarebbe sembrato così folle da oltrepassare perfino il livello della qualifica morale (di fronte alla saggia formica, l’immorale cicala in fondo consumava soltanto ciò che aveva), ora è percepito sempre più come normale ed è sistematicamente provocato (fino a giungere alla pubblicità che senza vergogna incoraggia ad indebitarsi per fare una seconda vacanza). A comprova di questa deriva basti pensare a un certo modo di concepire i diritti nella nostra società. Negli scorsi decenni, anche in ragione di un considerevole benessere e senza fare i conti con le risorse veramente disponibili, si sono avanzate pretese eccessive in termini di diritti nei confronti dello Stato. Il risultato è stato il formarsi di una società sempre più disarticolata e scomposta. Tale processo ha oscurato un insieme di valori antropologici, etici e, quindi, pedagogici di primaria importanza: la capacità di attendere per la realizzazione di un desiderio; la limitazione dei propri bisogni e il controllo dell’avidità; la cura delle cose invece della loro compulsiva sostituzione; uno sguardo complessivo sulla durata della propria vita e il senso della vita eterna; la solidale condivisione, in nome della giustizia, dei bisogni altrui a cominciare da quelli degli ultimi. Si potrebbe quasi dire che l’odierna crisi ha manifestato una diffusa “oscenità”, nel suo significato etimologico di “cattivo auspicio”, nell’uso dei beni. Tutto questo impone un radicale mutamento degli stili di vita, tanto più che, come molti sottolineano, non sarà possibile e non è neppure auspicabile ritornare al modus vivendi precedente alla crisi. * Estratto del discorso di S. Ambrogio del 6 dicembre 2011