Importanti esponenti islamisti, tra cui l’Unione mondiale degli Ulema di Doha, hanno salutato la vittoria talebana in Afghanistan come un segno del riscatto dell’Islam. Ma l’emirato afghano non può essere una soluzione

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:05:25

Dall’Islam politico arrivano segnali contrastanti. Mentre in Afghanistan i Talebani hanno ricreato il loro emirato, i movimenti islamisti del Nord Africa, arrivati al potere in diversi Paesi sulla scia della Primavera araba, sono entrati in una parabola discendente. In Egitto l’esperienza di governo dei Fratelli musulmani è rapidamente naufragata, aprendo la strada al colpo di Stato del generale al-Sisi; in Sudan le rivolte popolari del 2019 hanno decretato la fine del trentennale governo islamista di Omar al-Bashir; in Tunisia il partito Ennahda ha visto calare significativamente i propri consensi ed è stato il bersaglio principale del colpo di forza con cui lo scorso luglio il presidente della Repubblica Kais Saied ha congelato le attività del Parlamento; in Marocco il partito islamista Giustizia e Sviluppo, al governo da oltre dieci anni, è stato sbaragliato alle ultime elezioni legislative, passando da 125 a 13 seggi. Queste vicende pongono il tema della possibile traiettoria dell’Islam politico definito “moderato”, “mainstream” o “gradualista”, cioè di quei movimenti che, a differenza delle organizzazioni jihadiste, sono disposte a operare all’interno delle strutture istituzionali esistenti.

 

Importanti rappresentanti di questa corrente hanno infatti salutato la vittoria talebana come il segno del riscatto dell’Islam. Lo ha fatto soprattutto, come avevo già scritto in precedenza, l’Unione mondiale degli Ulema musulmani di Doha, punto di riferimento per la galassia dell’islamismo “gradualista” sia nel mondo arabo che in Occidente. Alcuni suoi esponenti, infatti, fanno parte anche del Consiglio europeo della Fatwa di Dublino, una delle organizzazioni a cui guardano i musulmani che vivono in Europa e simpatizzano per l’Islam politico. È il caso, per esempio, dell’ex presidente dell’Unione, Yusuf al-Qaradawi, che ha fondato e presieduto per molti anni anche il Consiglio europeo della Fatwa, o dell’attuale segretario generale dell’Unione, ‘Ali al-Qaradaghi.

 

Fin dalla presa talebana di Kabul, l’Unione mondiale degli ulema ha apertamente sostenuto il nuovo governo afghano. Sui rapporti tra l’Unione e i Talebani ha fatto luce al-Qaradaghi in un’intervista rilasciata a inizio settembre al giornale filo-islamista online ‘Arabī21. In quell’occasione, il segretario generale ha circostanziato le ragioni dell’appoggio ai Mullah facendo riferimento ai principi contenuti nella Carta dell’Unione, secondo i quali quest’ultima «abbraccia tutti gli ulema che aderiscono all’Islam a livello della dottrina, della sharī‘a e dello stile di vita». Ha spiegato inoltre che una delle ragioni per cui l’Unione vuole aiutare i Talebani è contribuire a riabilitarne l’immagine, perché la gente non li classifichi come «Talebani o altro, ma dica piuttosto che questo è l’Islam».

 

I rapporti tra questa istituzione e i Talebani risalgono in realtà ad almeno un anno fa. Nell’autunno 2020 l’ex presidente dell’Unione, Yusuf al-Qaradawi, e l’attuale presidente Ahmed Raysuni hanno incontrato più volte la delegazione talebana. In uno di questi momenti, Raysuni aveva definito l’Afghanistan «un Paese che ci è caro» ed espresso l’auspicio che nel tempo potesse diventare «un modello di convivenza per tutto il mondo islamico». Durante l’ultimo incontro, risalente al 18 settembre scorso, le due parti si sono accordate per cooperare a tre progetti riguardanti l’economia, l’istruzione e la creazione di un «governo ben guidato» in Afghanistan. I dettagli della questione non sono stati resi noti e neppure è chiaro che cosa s’intenda per «governo ben guidato (hukm rashīd)». Quel che è certo è che l’espressione araba usata rimanda idealmente al governo dei primi quattro califfi che si sono succeduti dopo la morte del profeta dell’Islam, noti per l’appunto come «i califfi ben guidati» (al-khulafā’ al-rāshidūn) e ritenuti dalla tradizione islamica simboli del buon governo e dell’epoca d’oro dell’Islam.

 

Il sostegno convinto dell’Unione mondiale degli Ulema al governo talebano solleva un importante interrogativo sul sistema politico ideale di partiti e movimenti islamisti. A partire dagli anni ’90 e soprattutto dopo le Primavere arabe, questi ultimi hanno progressivamente accettato le procedure formali della democrazia e pragmaticamente rinunciato al progetto di istituire uno Stato islamico, invocando invece il modello dello “Stato civile” e presentandosi come i garanti della democratizzazione dei regimi politici arabi. Come si concilia questo sviluppo con l’appoggio dell’Unione di Doha all’emirato talebano, una teocrazia che rifiuta le pratiche democratiche e si sta nuovamente distinguendo per la sua intransigenza? Solo poche settimane fa l’ex ministro della Giustizia talebano, mullah Nuruddin Turabi, ha per esempio annunciato che avrebbe riportato in vigore le pene previste dal Corano per alcuni crimini, tra cui il taglio della mano per i ladri.

 

A questa domanda ha risposto in maniera implicita Qaradaghi, quando nell’intervista ha affermato che l’Unione sostiene qualsiasi ulema o, in senso più ampio, personalità politica, che voglia applicare la dottrina e la giurisprudenza islamica nella vita quotidiana. Ciò suggerisce che per l’Unione la conformità di un regime politico all’Islam prevale sulla sua democraticità.

 

Per questo l’Unione sembra disposta a scendere a molti compromessi con il nuovo governo afghano. Basti pensare che tutte le richieste di Raysuni alla leadership talebana di creare un governo inclusivo coinvolgendo anche le minoranze etniche e religiose del Paese sono finora cadute nel vuoto. A differenza del governo del Qatar, che si è detto deluso dall’intransigenza mostrata dai Talebani, l’Unione di Doha si è limitata a prendere atto dei fatti senza sollevare rimostranze. Tant’è vero che Qaradaghi nella sua intervista ha dichiarato che nominare un ministro sciita hazara non è prioritario visto che l’Iran, dal 1979 a oggi, non ha avuto alcun ministro sunnita.

 

Al momento non è chiaro se queste prese di posizione preludano a una regressione dei movimenti islamisti verso il massimalismo del passato, con l’emirato di Kabul a fare da bussola, o se invece siano delle considerazioni contingenti, legate esclusivamente all’evoluzione dell’Afghanistan.

 

In ogni caso, come ha scritto il politologo George Fahmi sul quotidiano egiziano al-Shurūq, il giubilo degli islamisti per la vittoria talebana riflette «soltanto la loro crisi e non esprime un vero progetto per il futuro dell’Islam politico». È infatti inconcepibile che il nuovo emirato afghano possa rappresentare la soluzione ai problemi dei movimenti islamisti.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
 
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