Per il cinema il fascino delle rivoluzioni è irresistibile, perché la settima arte si costruisce sull’attrattiva dell’istante, del punto di rottura, del “già e non ancora” che accompagna le proteste. Mentre è più difficile narrare sul grande schermo il lungo periodo del dopo le rivolte, della costruzione democratica e della ricerca del compromesso politico. Eppure c’è chi ne è capace.

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:37:51

Se dovessimo racchiudere in una sola battuta il sentimento del presente, la scelta cadrebbe su un film cinese, Touch of Sin. Già il titolo, che bolla con l’inconsueta definizione di “peccato” la grande confusione che alberga in Cina, e non solo, è interessante. Come le quattro storie, esasperate e crudeli, che il regista quarantenne Jia Zhangke racconta, specificando nella didascalia iniziale che sono tratte “da fatti realmente accaduti”. Fatti di sangue, violenze brutali che travolgono vite normalmente agiate, in una Cina fino a ieri miserabile che si ritrova, all’improvviso, ricca di tante possibilità da fare impazzire la gente. In un dialogo tra due ragazzi, uno confessa di voler andare via e l’altro risponde: «Dove vuoi andare? Tutti i Paesi del mondo sono in bancarotta…». Tutti tranne la Cina, dove l’improvvisa ricchezza si mescola alla vecchia corruzione, ai cambiamenti continui che capovolgono la storia e la geografia del Paese, e provoca l’esplosione di un malessere nuovo che coincide con la perdita dell’identità. La crisi non è la bancarotta, non solo, a giudicare da questo ed altri film: assomiglia di più a una rivoluzione, individuale o collettiva che sia, una trasformazione radicale e veloce, un cambiamento che auspica il superamento di un qualche ordine preesistente. E il denaro, che cresce all’improvviso, facendo ricchi i poveri e più ricchi i già ricchi in Cina, o scompare tra le dita di chi lo maneggia, come la polvere bianca che condanna all’inferno il broker di Scorsese, il “futuro padrone dell’universo” in The Wolf of Wall Street, ne è solo un sintomo. «Credo nell’immagine» Il cinema adora le crisi e corteggia le rivoluzioni, quel movimento raggelato nel tempo dove tutto può accadere. Ogni avanguardia, a cominciare da quella sovietica, ha marciato al passo delle rivolte. È un’arte innamorata dell’istante, del punto di rottura, quando il vecchio non è più e il nuovo ancora non si vede. Difficilmente si riesce a raccontare sullo schermo il lungo periodo, il tradimento dell’ideale. Sono tanti i film sulla presa del potere ma pochissimi quelli che raccontano il “dopo” con la stessa luminosa passione. Solo a volte, quando è grande davvero, il cinema va oltre la retorica, ricerca e restituisce, nell’esattezza dell’istante, quell’eternità che corrisponde al significato. È quello che intende il regista Rithy Panh quando intitola il suo film sul genocidio compiuto in Cambogia dai Khmer Rossi L’image manquante. Mescolando le poche sequenze storiche dell’epoca alle figurine plasmate nell’argilla del suo Paese, Panh organizza i quadri di una Via Crucis che allude, senza poterla riprodurre, all’immagine mancante, quella che dovrebbe raccontare non i numeri ma i volti di quei due milioni di persone, un terzo della sua gente, uccise tra il 1975 e il 1979. Il film, premiato a Cannes e candidato all’Oscar, è il terzo di una trilogia che coincide con la vita personale e professionale di questo regista classe ’64, il bambino che, imprigionato a 11 anni nei famigerati campi di “rieducazione”, ha visto morire tutta la sua famiglia. «Credo nell’immagine, anche se, certamente, è messa in scena, recitata, lavorata. Malgrado la dittatura, si può filmare un’immagine giusta», scrive Panh nel premiatissimo volume L’élimination. Se l’immagine manca, se l’eternità si sottrae all’istante colto dalla macchina da presa – quell’eternità del vero che solo un critico cattolico come André Bazin poteva sorprendere – c’è un modo di “porsi delle domande”, suggerisce il regista cambogiano, che per lo meno richiama alla mancanza di qualcosa che serve, che urge, che può salvare la vita. Prima che la rivoluzione evapori È certamente più facile raccontare, piuttosto che la democrazia realizzata, magari in crisi di identità come accade dalle nostre parti, la rivoluzione. Violenta anche quando, paradossalmente, dichiara guerra alla violenza, come recitano i tanti slogan che abbiamo visto fiorire nelle primavere arabe e nei movimenti politici che segnano gli ultimi anni, mesi e giorni. Spettacolare come le immagini della piazza, quelle coreografie naturali che il film egiziano The square, della regista egiziana Jehane Noujaim, con le sue riprese dall’alto dei tetti racconta così bene. Uno spazio raggelato nella fotografia dell’azione e un tempo breve, anche se dura anni, depurato dei tempi morti che scandiscono il quotidiano. Il mondo nuovo prima che la rivoluzione evapori, come scriveva Kafka, «lasciando dietro solo la melma di una nuova burocrazia». Altra cosa è raccontare la nascita e la crescita di una democrazia: i tempi lunghi, i compromessi, la pazienza dell’attesa, la fatica dell’educazione. Rithy Panh si fa aiutare dalla genialità di Hannah Arendt per descrivere il paradosso del bene. Anche lui racconta i carnefici che intervista come impiegati pedanti e annoiati dall’insistenza con cui si chiede loro conto delle azioni. Anche lui ne racconta la burocratica impassibilità con la celebre frase attribuita a Stalin: «Niente uomini, niente problemi». Se esiste la banalità del male, però, esiste anche una sorta di banalità del bene. Ha il volto di un padre che si è lasciato morire di fame: «Nelle nostre società democratiche, l’uomo che crede nella democrazia ci sembra all’ordine del giorno. Quasi noioso. Per questo, nel mio studio parigino, tengo di fronte a me una sua foto un po’ ingiallita: che esista una possente banalità del bene. Questa sarà la sua vittoria». La politica dopo la protesta Non sempre è netta, la differenza tra rivoluzione e democrazia: attraente la prima, scontata la seconda. Come nei movimenti che scuotono l’Europa e i suoi confini, accade che la protesta assuma il segno dell’ambiguità. E le due parole, nei cori di piazza, vanno insieme, cercando di annullare quel gap tra la denuncia, il bisogno, l’urgenza di cambiare e la volontà, la capacità, l’intenzione di mettersi al lavoro. Perché passare dalla promessa di un nuovo cielo e una nuova terra alla fatica di costruire un percorso culturale, politico, amministrativo, non è senza dolore. The Square narra benissimo questa fatica attraverso le storie dei protagonisti. Molto efficace nel personalizzare la protesta attraverso i volti e le vicende dei ragazzi che animano la piazza, il film si sottrae al momento del giudizio, in un’oscillazione continua tra ingenuità e denuncia che, probabilmente, è una delle cause della mancata vittoria all’Oscar. Perché cambiare bisogna: lo racconta a lume di candela, nelle immagini iniziali che si riferiscono al gennaio 2011, Ahmed, già bambino di strada, oggi testimonial della rivolta. Nella notte buia di una capitale dove neppure la corrente elettrica funziona, poche parole per dire come è iniziata la storia: «Regnava l’ingiustizia, i giovani passavano da un lavoro all’altro, io lavoravo da quando avevo otto anni, vendevo limoni per le strade, senza speranza in un futuro migliore». Immagini di filo spinato, vagoni blindati, soldati con le armi in pugno e persone giustiziate per strada. Dal volto di Mubarak si passa al primo piano di una donna in un video su Facebook: «Vogliamo andare in piazza Tahrir per la nostra dignità e per un paese più umano, chiedere i nostri diritti, dire no alla corruzione e al regime». Ahmed e i suoi amici si incontrano in piazza, tra gli slogan e i bivacchi, e lì torneranno ogni volta che il movimento decide di protestare contro i regimi che via via si avvicendano. Ogni tanto, emerge il problema del dopo: c’è una nuova Costituzione da scrivere, qualcuno da portare al potere, un dialogo da avviare con le parti. Ma la conclusione è sempre la stessa: «La politica è diversa dalla rivoluzione. Se vuoi impegnarti in politica, devi fare compromessi. Non ne siamo capaci. Assolutamente. Non siamo organizzati». Demolire «per dare aria e luce, non è forse abbastanza?», si chiedeva Strindberg. Di sicuro è qualcosa, l’espressione della volontà di un popolo, la dichiarazione di un disagio, l’apertura di un dialogo. Forse, anche l’allarme di una crisi che è in atto altrove. Ma poi serve di più. Camus se ne accorge nel 1951, quando scrive L’Homme révolté: «La bellezza, senza dubbio, non fa le rivoluzioni. Ma viene un giorno in cui le rivoluzioni hanno bisogno della bellezza».