Durante la visita a una moschea, i bambini di una scuola materna hanno simulato la preghiera islamica. Ma esperimenti simili non aiutano la conoscenza reciproca

Ultimo aggiornamento: 06/05/2025 09:52:43

Al netto dei travisamenti di cui può essere stata oggetto, l’idea di far “provare” ai bambini di una scuola materna i gesti della preghiera islamica, come avvenuto qualche giorno fa in un centro islamico di Susegana, in provincia di Treviso, non è particolarmente felice. Ci sono svariati modi di promuovere la conoscenza reciproca tra fedeli di diverse religioni, e molti di questi sono fortunatamente già praticati nel nostro Paese: visite dei luoghi di culto, momenti di condivisione in occasione di particolari festività, iniziative di formazione. Gli atti di culto rappresentano però una componente fondamentale dell’esperienza religiosa di una comunità, e non possono essere sperimentati come un gioco. Non si vede d’altronde come l’esperimento possa favorire una migliore comprensione della religione altrui, dal momento che il culto assume il suo reale significato soltanto all’interno di una fede vissuta. È invece altamente probabile che improvvisazioni troppo avventate generino confusione e polemiche, come infatti è accaduto con la prosternazione dei bambini di Susegana in direzione della Mecca: un gesto che, a prescindere dalle intenzioni degli organizzatori, rischia inevitabilmente di evocare una qualche forma di proselitismo, finendo per ostacolare quella convivenza per cui esso era stato invece pensato.

Quando associata a una dimensione interreligiosa, la preghiera è da sempre una questione delicata. Basterà ricordare il dibattito che aveva accompagnato la “Giornata mondiale di preghiera per la pace”, voluta da Giovanni Paolo II ad Assisi nel 1986. Per evitare fraintendimenti, in quell’occasione il Papa polacco aveva specificato che l’evento non esprimeva «alcuna intenzione di ricercare un consenso religioso», né si trattava di «una concessione a un relativismo nelle credenze religiose, perché ogni essere umano deve sinceramente seguire la sua retta coscienza nell’intenzione di cercare e di obbedire alla verità».

In alcuni Paesi del mondo, cristiani e musulmani convivono da secoli. Anche dove la loro convivenza è più riuscita, essa non si fonda su convergenze sincretiche, un fenomeno che svilirebbe la fede di tutti, ma sul rispetto reciproco. Può capitare che i fedeli delle due religioni condividano una stessa geografia sacra. Esistono ad esempio luoghi che sono meta di pellegrinaggio sia per i cristiani che per i musulmani, ma questo non implica l’interscambiabilità dei relativi riti.

Accade inoltre, in Europa come in diversi Paesi dell’Africa e dell’Asia, che le scuole cattoliche siano frequentate anche da bambini o ragazzi musulmani. Normalmente, però, questi ultimi non partecipano ai momenti liturgici propri del cattolicesimo, né vengono loro insegnati gesti e preghiere della tradizione cristiana. Sarebbe infatti irrispettoso far “provare” a un bambino musulmano il segno della croce o la genuflessione durante la consacrazione eucaristica.

A promuovere la controversa iniziativa del trevigiano è stata una scuola materna d’ispirazione cattolica, che aveva l’obiettivo di far conoscere ai bambini che la frequentano luoghi e cultura dei loro compagni musulmani. Proprio l’identificazione dell’istituto con la tradizione cattolica suggerirebbe tuttavia un approccio diverso alla convivenza interreligiosa. Negli ultimi decenni, la Chiesa ha sviluppato una ricca esperienza e un vero e proprio magistero relativi alle relazioni con i musulmani, e più in generale ai fedeli delle altre religioni. In un suo intervento al Cairo, per citare un esempio tra i tanti, Papa Francesco aveva racchiuso in tre «orientamenti fondamentali» l’atteggiamento più favorevole a un dialogo proficuo: «il dovere dell’identità, il coraggio dell’alterità, la sincerità delle intenzioni». In questo senso, un cristiano, che sia adulto o bambino, sarà più portato a immedesimarsi con l’esperienza religiosa dei suoi interlocutori musulmani se lui stesso è impegnato con la propria tradizione, e non se gli viene proposto di simulare il culto di una religione con cui non ha alcuna familiarità, e il processo vale naturalmente in entrambe le direzioni. Ciò non toglie che sia naturale, e in alcuni casi molto fecondo, che la religiosità dell’altro interroghi il proprio modo di vivere la fede. La serietà con cui i musulmani praticano il digiuno durante il mese di Ramadan, ad esempio, non può non suscitare nei cristiani d’Occidente una riflessione su una pratica che essi hanno pressoché dimenticato. Esistono peraltro figure esemplari di cattolici, come Charles De Foucauld o, più recentemente, i Martiri di Algeria, che proprio attraverso il contatto con l’Islam hanno maturato una comprensione più profonda della propria fede.

Nel promuovere iniziative di dialogo con i musulmani sarebbe più arricchente attingere a questo patrimonio e a questa prospettiva, declinandoli naturalmente in base alla condizione e all’età degli interessati, invece di forzare situazioni che non giovano a nessuno.