A partire dall’Ottocento l’impero zarista cerca di aprirsi un varco verso i mari caldi, allestendo una flotta che le consente di competere con ottomani e britannici. Prima puntata di una serie sull’influenza russa nel mondo arabo-musulmano

Ultimo aggiornamento: 12/04/2023 16:59:19

L’articolo costituisce la prima di quattro parti dedicate a un tema di estrema attualità: il ruolo e l’influenza della Russia nel Medio Oriente. Servendoci della prospettiva storica di lunga durata, cercheremo di comprendere l’evoluzione della politica del Cremlino verso il mondo arabo-musulmano dal XIX secolo alla contemporaneità, individuando punti di svolta, tendenze geopolitiche e scambi culturali. In questa prima puntata si analizzerà l’ascesa della Russia zarista come potenza mondiale, che nel corso dell’Ottocento ebbe l’ambizione di stabilire una propria sfera di influenza su territori e popolazioni di cui aveva scarsissima conoscenza.      

 

Dai primi contatti alle campagne militari

 

Fino al XIX secolo la Russia, con la parziale eccezione del periodo di Pietro il Grande e di Caterina II, era poco presente in quello che oggi definiremmo il teatro mediorientale: ciò non era solo dovuto alla lontananza geografica, dato di certo influente e che rendeva difficoltosi e radi i contatti, ma anche alla “ragione di stato” e alle ambizioni geopolitiche della casa regnante. I Romanov, infatti, avevano dato priorità ad altri fronti: a est, al completamento della conquista di Siberia e Pacifico, e a ovest, all’assoggettamento dell’Europa slava e della penisola balcanica. Di conseguenza, essi non poterono, o non vollero, rivolgere la loro attenzione ai territori a sud dell’impero: malgrado alcune iniziative promosse dal governo centrale, le relazioni instaurate con le locali popolazioni musulmane furono sporadiche, frutto, piuttosto, dell’iniziativa di singoli mercanti, oppure di viaggiatori e avventurieri. Inoltre, la presenza dello Stato ottomano, principale avversario nei Balcani e nel Mar Nero e in perenne guerra con i sovrani ortodossi, costituiva un ostacolo invalicabile alla creazione di una sfera di influenza russa nel Mediterraneo.

 

In forza di tale situazione, non sorprende il fatto che i circoli intellettuali russi coltivassero un’idea dell’Islam distorta e fortemente stereotipata (mentre erano a conoscenza della condizione delle Chiese orientali, soprattutto quelle ortodosse[1]), in maniera assai simile all’orientalismo che permeava le classi dirigenti europee. Il mondo arabo-islamico veniva infatti visto come un’entità misteriosa e irrazionale, sospesa a metà tra il fanatismo religioso e lo stato di decadenza in cui versavano gli apparati statuali, in netto contrasto all’antico splendore del Vicino Oriente greco-romano, alla purezza dogmatica dell’ortodossia cristiana e al razionalismo illuminista di matrice occidentale[2].    

 

 

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Ivan Konstantinovič Ajvazovskij, “Veduta di Costantinopoli e del Bosforo”, 1880. Fonte: Wikimedia Commons.

 

Fu soltanto all’inizio dell’Ottocento che San Pietroburgo ottenne finalmente le risorse e i mezzi necessari per aprire una direttrice espansionistica nel cuore dell’Asia, con l’obiettivo di raggiungere i “mari caldi” (Mediterraneo, Golfo e Oceano Indiano) e allestire una flotta capace di competere con quelle delle altre potenze del vecchio continente. Sfruttando la crescente debolezza degli ottomani e della dinastia persiana dei Qajar, l’esercito di Alessandro I penetrò, a partire dal 1801, nella regione del Caucaso, incuneandosi tra i due grandi imperi islamici. In questo modo la Russia si procurò, per la prima volta nella sua storia, sufficiente prossimità geografica e vantaggio strategico per giocare un ruolo di primo piano, se non imporre una vera e propria egemonia, in parte del Medio Oriente.

 

Primo obiettivo della politica di grandeur fu la Persia, nelle mire degli zar almeno dal Seicento. Nicola I, successore di Alessandro, approfittò del fallimentare tentativo dei Qajar di riprendersi il Caucaso per avviare una nuova campagna militare nel Paese, che si concluse vittoriosamente due anni dopo con la conquista delle province settentrionali, inclusa l’importante città mercantile di Tabriz, e l’imposizione allo scià Fath-‘Ali del versamento di un pesante tributo. L’armistizio, firmato nella cittadina di Torkamanchay, apportò grandi benefici ai russi, in quanto permise di potenziare le rotte commerciali, di stabilire una rappresentanza diplomatica permanente e di incrementare gli scambi culturali con Teheran. Anche se i rapporti di forza tra zar e scià propendevano a favore del primo, l’insieme di queste iniziative pose le basi per la nascita di un sodalizio russo-persiano che sarebbe durato fino ai primi anni del Novecento.  

 

Grande importanza rivestiva, naturalmente, lo storico fronte contro lo Stato ottomano. Questo, da tempo affetto da crisi sistemica, aveva ceduto alla Russia nel corso del secolo precedente territori a maggioranza musulmana, come la Crimea dei tatari e la Bessarabia. Anche così, però, il sogno degli zar di conquistare Costantinopoli ed ergersi a paladini delle comunità ortodosse rasentava l’utopia: Francia e Gran Bretagna non avrebbero mai permesso che la loro comune avversaria diventasse egemone in Oriente e si schierarono al fianco del sultano.

 

Nell’impossibilità di espandersi territorialmente, gli zar elaborarono una strategia di “soft power” nel Levante sfruttando il legame religioso con le comunità cristiane levantine, sulla scia dell’attivismo religioso della Chiesa latina e dei pastori protestanti. Dopo alcuni tentennamenti, nel 1842 il governo russo organizzò finalmente una spedizione ecclesiastica a Gerusalemme, avente un obiettivo duplice: entrare in contatto con il Patriarcato greco-ortodosso e svolgere attività di spionaggio. L’incompetenza del capo delegazione, l’archimandrita di Odessa Porfirio Uspenskij, portò al fallimento della missione nel 1854; tuttavia, egli ebbe il merito di porre le basi per la nascita di centri culturali e religiosi russofoni in Terrasanta, tra cui la Società Imperiale Ortodossa di Palestina, fondata nel 1882[3].      

 

Il grande gioco nellAsia centrale

 

Nel frattempo, il trattato di Torkamanchay aveva spianato la strada alla conquista delle steppe dell’Asia centrale e del Khanato kazako, un vasto e poco conosciuto territorio popolato da tribù turcofone di fede islamica le quali, pur trovandosi sotto protettorato zarista da circa due secoli, godevano di fatto di ampia autonomia. Le continue ingerenze del potere centrale costrinsero, però, i clan a ribellarsi, dando inizio a un confronto militare: la campagna si protrasse per oltre un ventennio, ma alla fine la resistenza locale venne piegata e il Khanato cessò di esistere nel 1847. 

 

L’incorporamento delle steppe centroasiatiche causò, in una sorta di effetto domino, l’intervento nell’emirato dell’Afghanistan, dove si giocò la partita più delicata. L’avversario regionale era il Regno Unito della regina Vittoria, che nella seconda metà dell’Ottocento divenne, grazie alla rivoluzione industriale, al dominio sui mari e alle innumerevoli colonie sparse sui cinque continenti, prima potenza del globo. Non era la prima volta che i due Stati entravano in competizione: oltre che nello scenario europeo, i russi erano dovuti scendere a patti con gli inglesi anche in Persia, lasciando loro il controllo della porzione meridionale del Paese.

 

Rispetto alla Persia, però, l’Afghanistan rivestiva, per entrambi gli imperi, un ruolo strategico ben più importante, situato com’era a metà strada tra l’India britannica e l’Asia centrale da poco sotto controllo zarista. E infatti nel 1838 il governatore delle Indie Lord Auckland, ossessionato dai rumors su imminenti invasioni russe da nord, si affrettò a intensificare i legami con l’élite afghana filo-britannica e preparò una spedizione militare, la prima guerra anglo-afghana, per trasformare il vicino emirato in uno Stato cuscinetto a protezione della “perla dell’impero”. Il Grande Gioco, come passò alla storia, fu soprattutto un confronto tra diplomazie, in cui le parti cercarono di tracciare su mappa una spartizione condivisa del Paese. In parallelo ai negoziati si susseguirono, però, attività di spionaggio e movimenti di truppe, una “guerra per procura” ante litteram che sconvolse il sistema sociale e politico di Kabul.   

 

Vignetta satirica del “Grande Gioco” che raffigura l’emiro afghano affiancato dai suoi “amici”: la Russia (l’orso) e il Regno Unito (il leone). Fonte: Wikimedia Commons  

Grande Gioco

 

Si arrivò così all’“Accordo Gorchakov-Granville”, dal nome dei plenipotenziari che lo firmarono nel 1873: Londra fece l’importante concessione di riconoscere la sovranità russa fino al fiume Oxus (Amu Darya), mentre San Pietroburgo dovette rinunciare a qualsiasi ambizione sul controllo della monarchia afghana, dichiarandola fuori dalla sua sfera di influenza[4]. L’accomodamento, vago e ambiguo nella sua formulazione, non pose fine alla competizione regionale, tanto che l’esercito di Alessandro II invase le steppe turkmene, minacciando nuovamente l’autonomia di Kabul. Lord Lytton, nuovo governatore d’India, corse subito ai ripari e nel 1880, con la vittoria della seconda guerra anglo-afghana[5], ripristinò l’egemonia sul Paese che da quel momento divenne definitivamente un protettorato della Corona.  

La “sconfitta” della Russia nel Grande Gioco rappresentava soltanto la parte minima di un problema ben più profondo e grave. L’impero, per quanto vasto e influente a livello internazionale, basava ancora la sua politica di potenza su un sistema produttivo di stampo feudale e dipendente in maniera quasi esclusiva dal settore agricolo. In mancanza di adeguate riforme politiche e piani di industrializzazione, lo Stato accusò ben presto un deficit tecnologico rispetto a Francia, Regno Unito e Germania. A livello economico il fenomeno più preoccupante fu, oltre al netto peggioramento delle condizioni di vita dei sudditi, la contrazione del volume d’affari nei mercati esteri, e in particolar modo in Medio Oriente, come dimostrano la cancellazione delle commesse per la costruzione della ferrovia di Alessandria d’Egitto e della Persia, che furono assegnate a compagnie tedesche e inglesi.  

 

Ma la crisi colpì duramente anche la capacità militare che alla fine del secolo declinò in maniera evidente. Se le prime avvisaglie risalivano alla guerra di Crimea – il cui trattato di pace firmato a Parigi nel 1856 revocò alla Russia il ruolo di protettrice delle comunità cristiane levantine – e al Grande Gioco, la situazione precipitò a inizio Novecento, dapprima con la sconfitta nella guerra russo-giapponese del 1905 e infine col disastro della Prima guerra mondiale. La rivoluzione del 1917 assestò il colpo finale all’agonizzante impero sostituendolo con un modello statuale totalmente diverso, fondato sull’ideologia marxista e sull’esperienza rivoluzionaria di Lenin e dei bolscevichi. Di conseguenza, anche la politica in Medio Oriente venne ripensata dalle fondamenta, sulla base di nuovi concetti e visioni geopolitiche molto lontane da quelle adottate dai Romanov.

 

Qui il secondo approfondimento sulla Russia in Medio Oriente, dedicato al periodo dal 1917 al 1989.

 

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[1] Cfr. Lora Gerd, Russia and the Melkites of Syria: Attempts at Reconverting into Orthodoxy in the 1850-s and 1860-s, «Scrinium» n. 17 (2021), pp. 134-157.

[2] Cfr. Elena Andreeva, Russia and Iran in the Great Game. Travelogues and Orientalism, Routledge, London-New York 2007, pp. 1-7.

[3] Cfr. Theofanis George Stavrou, Russian Interest in the Levant 1843-1848: Porfirii Uspenskii and Establishment of the First Russian Ecclesiastical Mission in Jerusalem, «Middle East Journal», n. 1/2, (1963), pp. 98-99.

[4] Raziullah Azmi, Russian expansion In Central Asia and the Afghan question (1865-85), «Pakistan Horizon», vol. 37, n. 3(1984), p. 114.

[5] La guerra colpì la pubblica opinione inglese a tal punto che lo scrittore Arthur Conan Doyle la utilizzò per descrivere il ferimento di uno dei suoi personaggi più famosi, il dott. Watson, chirurgo al servizio dell’esercito britannico.  

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