La lezione di Nizza: ci sono due guerre da combattere, quella delle armi e della sicurezza e quella delle idee

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:08:02

Un nuovo attentato di massa ha avuto luogo. Al momento non si sa ancora se l’attentato sia stato commissionato, se sia opera di una cellula autonoma, di un individuo o di un malato mentale (nel frattempo una rivendicazione su un canale accreditato per essere vicino allo Stato Islamico ha rivendicato l'azione terroristica, ndr). Poco importa. Dal punto di vista della visione radical-jihadista, che incancrenisce il mondo musulmano da quarant’anni ed è stata diffusa negli ultimi dieci anni dai teorici del jihad contemporaneo, da al-Qaeda piuttosto che da Daesh (acronimo arabo per lo Stato Islamico, ndr), l’attentato è stato tragicamente ben visto. Il modo è inaspettato. Come insegna un manuale del buon jihadista “per lupi solitari e piccole cellule” che circola sul web e riassume lezioni tenute in campi di addestramento al jihadismo, “il fattore sorpresa è già metà della vittoria, sorprendere il nemico nel tempo e nel luogo rende massime le possibilità di successo”. Mentre ci aspettavamo un attacco jihadista con esplosivi e kalashnikov ecco un modo semplice: un camion sulla folla. Un altro insegnamento del manuale in questione è la sicurezza delle operazioni in vista del loro successo, ciò che dipende dall’adeguamento degli obbiettivi ai mezzi adoperati e alle possibilità di reazione del nemico. Lanciare un camion nella folla può effettivamente causare danni terribili prima che la reazione possa mettere fine all’operazione. L’obbiettivo che, secondo le parole del Corano riprese dal jihadismo, consiste nel “terrorizzare il nemico” è conseguito e lo è ancor di più in un momento particolarmente simbolico per la Francia, il 14 luglio. Da questo nuovo attentato si cercherà di capire se l’autista-jihadista era un “lupo solitario” o un membro di una “cellula piccola”. Si aspetterà di vedere se Daesh rivendica l’attentato. Anche se non è poi così importante perché questo attentato rientra nelle logiche contemporanee del jihadismo la cui dottrina, elaborata fin dagli anni 2000 da figure come al-Suri o Naji, punti di riferimento nel mondo jihadista, consiste nel promuovere una strategia del jihad diffuso e una strategia del caos. In altre parole si tratta di promuovere la diffusione del jihad nella vita quotidiana del nemico, colpire là dove è possibile, su iniziativa di chiunque, per seminare il caos, suscitando una reazione, promuovendo una logica della tensione reciproca e permettendo di ampliare il campo in cui è possibile istituire un ordine islamico. La guerra che si sta trascinando in Siria ha consentito a Daesh dal 2014 di radicarsi imponendosi e intrufolandosi nel disordine siriano. Analogamente, essa ha consentito ad al-Qaeda nel Maghreb islamico di diffondersi nell’Africa sub-sahariana. Daesh sarà certamente colpito duramente, Mosul e il territorio da cui trae notevoli risorse finanziarie saranno riconquistati dall’esercito iracheno, perennemente sostenuto dall’America e dall’Occidente. Ma la “vittoria” sul Daesh non corrisponderà a una vittoria sul jihadismo, così come la vittoria sui talebani e al-Qaeda in Afghanistan non ha significato una vittoria sul radicalismo jihadista. Saranno necessari decenni di lotte contro il radicalismo, e costeranno molto care alle finanze pubbliche. Domani non si potranno certo togliere i soldati dalle strade o rimpiazzarli con altre forze di polizia. La privatizzazione della sicurezza verso la quale ci stiamo dirigendo nell’illusione di una prospettiva limitata nel tempo, non consentirà di far fronte alla necessaria sicurezza dei cittadini. Questo per quanto riguarda la sicurezza immediata e l’azione volta alla lotta contro il radicalismo, che è il primo aspetto. Ma occorrerebbe anche imparare le lezioni degli anni 2000. Ci eravamo illusi che l’eliminazione armata dei gruppi jihadisti, dei talebani o di al-Qaeda sarebbe stata sufficiente a prosciugare la fonte del jihadismo. Questa fu una grande illusione: lo dimostrano il prolungarsi del jihadismo negli anni 2000 e l’espansione di quest’ultimo nel 2011. Il jihadismo infatti non è che la punta visibile dell’iceberg che emerge da un background culturale diffuso e che ha costituito il terreno fertile del jihadismo. C’è un secondo aspetto della lotta contro il radicalismo jihadista di cui non si comprende la portata. La maggior parte degli europei in questo ambito è rimasta nell’immobilità: alcuni si sono fermati ai discorsi di facciata di dialogo o di buone relazioni con il mondo musulmano, altri si limitano a tentare di integrare economicamente i leader musulmani in una visione piatta delle motivazioni radicali, altri non hanno voluto vedere che c’era un problema con l’Islam e si sono limitati a discorsi generici sul multiculturalismo e l’interculturalismo o a erigere barricate virulente e ingiuste contro l’Islam e le religioni. I musulmani europei, toccati come tutti i cittadini dal radicalismo, i loro leader e i loro intellettuali non hanno voluto ammettere negli anni 2000 che vi fosse un problema interno allo stesso Islam, così come questo era insegnato e predicato. Anzi, hanno addirittura tentato di eludere la questione accusando l’Occidente di islamofobia. Questo per dire che se c’è un radicalismo musulmano è perché l’Occidente è l’islamofobo. L’immobilismo degli uni e l’elusione degli altri ha impedito una riflessione di fondo, da ambe le parti. Ha impedito, tanto tra i musulmani quanto presso le diverse istanze, di svolgere un lavoro educativo delle giovani generazioni. E così siamo arrivati alla generazione del dopo 2011, quella delle partenze per il jihad in Medio-Oriente, dei ritorni o dei legami sfociati negli attentati al museo ebreo di Bruxelles, a Parigi… I leader musulmani hanno iniziato a cambiare atteggiamento negli ultimi dieci, quindici anni e a fare discorsi più chiari sul radicalismo. Ma con una lentezza esasperante e spesso senza disporre degli strumenti intellettuali per analizzare, reinterpretare e confutare i messaggi jihadisti che il web contribuisce a diffondere in maniera virale. L’Unione europea non ha la competenza, la capacità, il coraggio o la visione per lanciare un vasto programma in grado di offrire i mezzi per contribuire alla nascita di nuovi attori e leader e di un nuovo pensiero. In Belgio, fortunatamente la polizia e i giudici sono molto attivi. Ma l’azione educativa e culturale è molto frammentaria. I ministri che hanno qualche competenza nell’ambito prendono alcune piccole iniziative, ma sono azioni di piccolo cabotaggio. Annunci mediatici arrivano da ministri che si mostrano sicuri di se stessi, mentre altri ministri che avrebbero ambiti di competenza non osano muoversi. Interessi partigiani degli uni o degli altri s’inseriscono in modo sordido, distolgono dagli obbiettivi e frammentano le competenze. Il poco denaro a disposizione è sprecato nei canali più disparati. Tutto ciò in un gioioso disordine che nessuno riesce a coordinare un minimo. La mancanza di visione è abbastanza allucinante. Nel frattempo gli attori sul terreno, gli educatori, gli insegnanti, gli animatori culturali e il mondo delle associazioni, che ogni giorno si trovano a fare i conti con giovani incerti e combattuti tra i messaggi del web, i predicatori influenti e il vissuto quotidiano, sono incapaci, nonostante la loro esperienza, di affrontare la realtà inaspettata dell’irruzione del religioso in forme estreme nella vita quotidiana dei giovani. Ci sono due guerre da combattere: quella delle armi e della sicurezza da una parte e quella delle idee e delle teste dall’altra. Non possiamo condurre la prima con efficacia, rapidità, strategia e coordinamento e lasciare la seconda alla superficialità, la lentezza, l’improvvisazione e l’immobilismo. Altrimenti il decennio 2010 rischierà di essere un decennio perso per quanto riguarda l’azione contro il radicalismo, così come lo è stato quello del 2000. *articolo tradotto dal francese e originariamente pubblicato sul quotidiano belga La Libre