Perché le tribù che hanno sconfitto al-Qaida nel 2007 faticano oggi a opporsi a Isis

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:09:21

Le forze irachene hanno riconquistato Ramadi allo Stato Islamico; in Siria il “califfato”, colpito dai bombardamenti aerei internazionali, ha perso l’iniziativa. Questi successi rischiano però di non trasformarsi in una definitiva vittoria strategica: il “califfato”, infatti, è un mostro mutante, opportunista e resistente. Oggi i jihadisti hanno uno “Stato”, ma anche se perdessero tutti i territori controllati, tornerebbero a essere un pericoloso e destabilizzante movimento terroristico, a sfruttare, fomentandolo, il nefasto conflitto settario che infiamma il Medio Oriente. L’obiettivo sarebbe quello di sopravvivere, come un virus latente, nelle società sunnite, in attesa di nuove opportunità da sfruttare. Se non si spezza il rapporto, a volte osmotico a volte parassitario, tra il movimento jihadista e le comunità sunnite, il “califfato” non potrà essere davvero sconfitto. Il “risveglio” del 2007 In un recente passato, qualcosa di simile è già avvenuto: tra il 2006 e il 2008, gli Stati Uniti hanno favorito la nascita della Sahwa – risveglio, in arabo – milizie sunnite a reclutamento tribale che garantivano la sicurezza locale, proteggevano la popolazione dalle violenze di al-Qaida, fornendo all’esercito americano appoggio sul terreno. Era il cuore della strategia di counterinsurgency del generale al comando delle truppe americane, David Petraeus: più soldati sul terreno e più vicini alla popolazione, per conquistare il suo sostegno e la sua collaborazione. Parallelamente, gli Stati Uniti hanno imposto una presenza politica sunnita a Baghdad, instaurando così una sorta di riequilibrio settario. In tal modo, la massa critica delle comunità sunnite si è spostata sull’opposizione ai jihadisti, che si sono trovati senza più una rete di appoggio, allo scoperto. Il terrorismo è stato così ridotto ai minimi termini. Con il ritiro delle truppe americane dall’Iraq alla fine del 2011, si sono verificati però fenomeni che hanno scatenato una mutazione genetica nei movimenti jihadisti. Il governo iracheno ha disatteso ogni promessa e smantellato le milizie di autodifesa sunnite; l’ex premier Nuri al-Maliki ha attuato misure di esclusione politica e discriminazione economica a danno dei sunniti che, dopo aver contribuito nell’arginare la minaccia di al-Qaida, si aspettavano un guadagno politico importante in termini di inclusione nel governo. Contemporaneamente, quando ormai sembravano sconfitte, nelle acque torbide delle carceri irachene le due anime della insurgency irachena, quella qaedista-jihadista e quella baathista-nazionalista hanno rinsaldato i loro legami. Da un lato i jihadisti avevano bisogno della expertise militare e logistica che i baathisti avevano maturato durante il regime – quando sotto Saddam Hussein una minoranza sunnita governava una maggioranza sciita – dall’altro questi ultimi speravano trovare una massa di manovra per rovesciare la situazione. Del resto, avevano lo stesso nemico: il governo sciita di Baghdad. E così, le braci jihadiste hanno ricominciato a bruciare alimentate dal soffio baathista. E la fiamma che ne è nata è lo Stato Islamico. Il divampare improvviso dell’incendio jihadista nell’estate 2014 si può spiegare soltanto focalizzandosi sul ruolo e sulla frustrazione politico-sociale della popolazione sunnita irachena. La campagna di intimidazione Già nel 2012, sull’onda di quanto stava accadendo in tutto il Medio Oriente, in molte città dell’Iraq, soprattutto sunnite, i cittadini sono scesi in piazza chiedendo riforme e lotta alla corruzione. Alla fine del 2013, la situazione è precipitata: il premier Maliki ha dichiarato che il sit-in dei manifestanti di Ramadi – la capitale della regione sunnita dell’Anbar – era “un comando di al-Qaida”; ha ordinato lo sgombero dei siti di protesta e fatto arrestare con l’accusa di terrorismo Ahmed al-Alwani, influente sceicco della tribù dei Dulaimi e attivo parlamentare sunnita. A quel punto la protesta sunnita si è trasformata in opposizione armata, estendendosi anche alle cittadine di Falluja e al Karmah, tant’è che l’esercito iracheno si è ritirato da quei territori per evitare ulteriori tensioni. Altre tribù si sono unite ai Dulaimi, e le forze di sicurezza locali, in larga parte composte da sunniti, si sono allora sfaldate. Lo Stato Islamico non aspettava altro: infiltratosi nelle città della protesta con l’appoggio di alcuni clan legati a ex baathisti, ha iniziato una campagna di intimidazione contro le autorità civili e militari. Decine di funzionari governativi, sceicchi e miliziani tribali sono stati assassinati o giustiziati in pubblico. Dunque, quella che erroneamente è stata considerata una “fulminea” conquista jihadista delle province sunnite si spiega con lo stato di rivolta in cui già versavano da tempo questi territori, e con il progressivo collasso delle istituzioni governative e dell’esercito. In realtà, sin dall’inizio, le tribù hanno guardato allo Stato Islamico con estrema diffidenza, se non ostilità. Si trattava però di una scelta obbligata: l’alternativa era infatti il tanto odiato governo sciita di Baghdad. Il limbo e la mancanza di alternativa Anche se alcune milizie tribali avrebbero avuto un ruolo attivo, secondo quanto riportato dalla stampa internazionale, nella liberazione di Ramadi, in realtà oggi i sunniti iracheni si trovano in una sorta di limbo. Sebbene lo Stato Islamico sia più un fenomeno subìto passivamente, manca ancora una soluzione politica alla questione sunnita irachena. Finché non sarà offerta loro una alternativa praticabile, i sunniti iracheni rimarranno esposti alla tentazione di appoggiare movimenti insurrezionali jihadisti. Tra gli incentivi per un riequilibrio settario, ci sarebbe innanzitutto la creazione di una guardia nazionale a reclutamento locale, dove confluirebbero le milizie tribali; secondariamente, andrebbe ammorbidita la legislazione contro gli ex baathisti, per permettere a quadri intermedi di rientrare nelle istituzioni. Infine, lo stato dovrebbe intervenire con decisione nella ricostruzione delle zone liberate, cominciando dalla devastata Ramadi, dove secondo quanto riportato dal Wall Street Journal serviranno almeno 10 miliardi di dollari per rimettere in piedi la città. Il premier Haider al-Abadi è però troppo debole per attuare queste misure, frenato dai partiti sciiti, esposto alla fronda del suo predecessore al-Maliki. E gli Stati Uniti, che premono per un riequilibrio confessionale, non hanno più il peso politico che avevano a Baghdad in passato. Vecchi e nuovi attori come Iran e Russia stanno rafforzando la loro influenza nel Paese. Anche Mosca, come ha riportato Michael Weiss sul Daily Beast, attingendo dal vecchio copione americano del 2007 starebbe cercando di stringere rapporti con le tribù sunnite, per instaurare con loro una cooperazione “per combattere il terrorismo”.