In Iraq, le fazioni appartenenti all’Asse della Resistenza hanno intensificato i loro attacchi contro le truppe americane e ambiscono al controllo totale dello Stato

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 14:41:26

L’operazione “Diluvio di al-Aqsa” e la guerra a Gaza hanno profondamente destabilizzato l’intero scenario mediorientale. Tra i Paesi coinvolti figura l’Iraq, dove le milizie irachene sciite e la coalizione politica a loro affiliata, il Quadro di Coordinamento, sono impegnate nel doppio confronto contro Israele e le truppe americane presenti nel Paese. Ma qual è il loro ruolo all’interno dell’Asse della Resistenza e del contesto iracheno? Lo abbiamo chiesto a Michael Knights, analista del Washington Institute, tra i massimi esperti di milizie irachene.  

 

Intervista a cura di Mauro Primavera

 

Qual è il ruolo delle milizie irachene all’interno dell’Asse della Resistenza, soprattutto a seguito dell’operazione “Diluvio di al-Aqsa”?

 

È probabile che la maggior parte dei membri dell’Asse della Resistenza non avesse ricevuto alcun preavviso dell’attacco del 7 ottobre. Hamas è riuscita a mantenere segreta l’operazione, al punto che nemmeno gli iraniani erano probabilmente a conoscenza della data esatta di “Diluvio di al-Aqsa”. Tutti sono rimasti sorpresi dall’efficacia dell’attacco e dalla portata della reazione statunitense e israeliana. L’Asse della Resistenza mirava a sostenere Hamas e il Jihad Islamico Palestinese che, nonostante il loro exploit, rischiavano di essere eliminati dalla forte reazione israeliana agli eventi del 7 ottobre. L’Asse si è così trovato in una situazione che non aveva previsto: da un lato doveva dissuadere Israele dall’annientare Hamas e ottenere una vittoria significativa, dall’altro evitare che Netanyahu estendesse la guerra al Libano, cosa che avrebbe inferto un duro colpo a Hezbollah. Gli Stati Uniti, pur sostenendo convintamente lo Stato ebraico, non erano entusiasti di una possibile invasione israeliana del Libano, visto che Hezbollah non rappresentava una grossa minaccia. L’obiettivo principale è diventata la presenza militare di Hamas e del Jihad Islamico Palestinese nella Striscia di Gaza.

 

È probabile che gli attori dell’Asse non fossero molto convinti di poter salvare i membri di Hamas, anche perché quest’ultimi hanno commesso alcuni errori il 7 ottobre: si sono spinti troppo oltre, si sono dimostrati indisciplinati e non hanno eseguito il piano, scatenando invece una furia selvaggia che ha innescato la rabbia degli israeliani. E quella che doveva essere un’operazione pulita si è trasformata in un’azione sporchissima. Tuttavia, gli altri membri dell’Asse si sono detti: “dobbiamo mostrare sostegno nei confronti di Hamas, non possiamo lasciare che Israele distrugga uno dei membri dell’Asse senza che gli altri facciano qualcosa”. Funziona un po’ come la NATO: ci si aspetta un certo sostegno reciproco, ma se questo manca, a che cosa serve l’Asse? È un discorso che vale soprattutto per i componenti minori: l’Iran è l’Iran, ma non è il massimo se sei Hezbollah, le milizie sciite irachene o gli Houthi e vedi Teheran lasciare che uno dei membri dell’Asse venga spazzato via, perché questo significa che potresti essere il prossimo. Nel corso degli anni alcune milizie, soprattutto quelle irachene, sono arrivate a credere che l’Iran avrebbe potuto tirarsi indietro, perché sostenerle sarebbe stato troppo oneroso. Come si è visto più volte, questo genera una reazione negativa. Ad esempio, le milizie irachene, sconfitte alle elezioni del 2021 e non avendo avuto un sostegno adeguato dall’Iran, hanno lanciato un attacco di droni contro la residenza del primo ministro iracheno e tentato di rovesciare il risultato elettorale attraverso le proteste. Il messaggio, implicito e pericoloso, per Teheran era: “se non ci aiutate, faremo da soli”. L’Iran alla fine è intervenuto e in qualche modo ha risolto, o ha aiutato a risolvere, il problema.

 

Nella crisi successiva al 7 ottobre, ai membri dell’Asse è stato permesso di impegnarsi nella misura a loro più congeniale. L’Iran non ha attaccato direttamente Israele, evitando così un’eccessiva esposizione. Hezbollah ha cercato di mantenere un livello minimo di escalation per attirare l’attenzione degli israeliani. Tuttavia, non ha fatto molto per aiutare Hamas; hanno fatto di più le milizie irachene, prendendosi dei rischi. La cosa è che Hezbollah e l’Iran sono direttamente contrapposti a Israele, mentre le milizie irachene hanno unito due piani diversi: la guerra di Hamas e il progetto di cacciare le forze americane dall’Iraq. Di fatto hanno stabilito una sorta di conflitto parallelo e solidale, sulla base di questo ragionamento: “anche noi abbiamo degli invasori, che sono alleati di coloro che stanno occupando Gaza e la Cisgiordania. E allora attacchiamo i nostri invasori mentre voi attaccate i vostri”.

 

Come si inseriscono gli Houthi in tutto ciò?

 

Gli Houthi hanno svolto un ruolo cruciale, fornendo ad Hamas un sostegno più diretto rispetto a tutti gli altri attori. Perché? Perché hanno fatto qualcosa che gli altri membri non sono riusciti a fare, ossia internazionalizzare il conflitto e determinare un costo globale tangibile per quello che succede a Gaza: più dura il conflitto, più viene preso di mira il traffico marittimo del Mar Rosso, più aumenta il prezzo da pagare per l’economia globale.  Per l’opinione pubblica americana ed europea è un motivo in più per chiedere che il conflitto a Gaza finisca presto, e questo alla fine è il modo migliore per salvare Hamas. Se gli israeliani dovessero fermarsi prima di aver trovato, ucciso o esiliato la leadership di Hamas, allora quest’ultima avrebbe maggiori possibilità di riorganizzarsi: potrebbe partecipare di nascosto alle elezioni, reinserirsi all’interno delle istituzioni non solo della Striscia di Gaza ma anche in quelle dell’Autorità Palestinese. Gli Houthi possono rivendicare di aver fatto più di tutti di aver rischiato molto per conto dell’Asse. Non mi sorprende, dal momento che gli Houthi non sono legati in maniera così diretta all’“ala persiana” dell’Asse, che comprende molti miliziani iracheni che sostengono l’Iran sin dagli anni ’80. Molti di loro hanno mogli, famiglie, proprietà in Iran e talvolta perfino la cittadinanza iraniana. In un certo senso, è come se gli Houthi appartenessero all’Asse della Resistenza dall’inizio, visto che sono definiti da quello a cui si contrappongono, ossia l’arroganza globale di Stati Uniti e Israele. Non gli importa che Hamas sia un attore marginale o un gruppo sunnita. Senza contare che il loro motto è uno dei primi manifesti dell’Asse della Resistenza.

 

Possiamo dire che le milizie irachene hanno ormai acquisito una solida esperienza militare? Data la loro capacità di infiltrarsi nelle istituzioni statuali, sono in grado di prendere il pieno controllo dell’Iraq ed espandere ulteriormente la loro autorità?

 

Le milizie irachene hanno cercato di ottenere il controllo completo del Paese con due primi ministri, Adel Abdul Mahdi e Mohammed Shia al-Sudani. Durante il governo del primo, un esperimento durato un anno e mezzo, il tentativo di accaparrarsi gli apparati statali fallì.  Il piano fu infatti osteggiato dai sadristi e in ultima analisi portò alle proteste dell’ottobre 2019, note come movimento Tishreen. Successivamente furono uccisi Soleimani e Abu al-Muhandis. Il premier al-Khadimi è riuscito a rallentare l’avanzata delle milizie e addirittura a invertire la tendenza. Ora che al-Sudani è al potere, non c’è un vero e proprio gruppo di opposizione come Tishreen o la società civile, né un Primo Ministro che cerchi, indipendentemente dal fatto di riuscirci, di frenare l’avanzata delle milizie.

 

Dal mio punto di vista, le milizie sono assolutamente in grado di controllare completamente lo Stato iracheno. Faranno il possibile per raggiungere questo obiettivo prima delle prossime elezioni dell’ottobre 2025 e anche nella fase successiva di formazione del governo. Stanno cercando di rimuovere e indebolire i sadristi in molte posizioni chiave, inclusi i governatorati e i quartier generali militari come il Comando Operativo di Samara. Si stanno infiltrando nella provincia di Maysan, nel Servizio nazionale d’intelligence, nel comando antiterrorismo, nell’ufficio del primo ministro, nel Ministero del Petrolio e in quello dei Trasporti. Sono ormai presenti nella magistratura e nelle agenzie anticorruzione, che vengono sempre più utilizzate allo stesso modo dei vecchi comitati di de-baathificazione. Certo, molte delle persone che finiscono nel loro mirino sono corrotte, ma questo modus operandi è piuttosto selettivo, e si concentra soltanto sui nemici delle milizie. Quasi tutti i governi iracheni l’hanno fatto, ma credo che ora la cosa stia accelerando. Il controllo della Commissione per le Comunicazioni e i Media (CMC), un tempo indipendente, è un ottimo esempio di accaparramento degli apparati statali. La Commissione spesso adottava misure impopolari, ma non aveva preferenze politiche evidenti. Da quando è arrivato al-Sudani, abbiamo riscontrato numerose criticità all’interno del CMC: la composizione del consiglio di amministrazione è cambiata rapidamente, e ora è del tutto dipendente dal Quadro di Coordinamento, che ora usa il CMC allo stesso modo del sistema giudiziario, della Commissione per l’Integrità e dell’intelligence. Vengono utilizzati tutti contro l’opposizione politica al Quadro di Coordinamento.

 

C’è un fatto da considerare: in questo momento le milizie controllano il parlamento, l’ufficio del primo ministro e persino la presidenza della Repubblica, perché il presidente, che viene dall’Unione Patriottica del Kurdistan (PUK), fa quello che gli dicono. Hanno pieno potere sulla magistratura, compreso Faiq Zaidan, il presidente del Consiglio Supremo della Magistratura, così come sui servizi di intelligence e su altre commissioni speciali. Attualmente detengono tutte le leve del potere, tranne forse una, che è l’Ayatollah al-Sistani. Quando al-Sadr ha vinto le elezioni nell’ottobre 2021, al-Sudani era preoccupato dal fatto che lo sciismo iracheno sarebbe stato spaccato da un blocco multietnico e interconfessionale, che avrebbe isolato un segmento chiave della comunità sciita. Lui e i principali leader politici, ad eccezione di al-Sadr, si sono riuniti e hanno lavorato insieme. Quando però ad al-Sudani è stato chiesto di scegliere tra un governo iracheno controllato dall’Iran o uno controllato da al-Sadr, lui ha optato per l’Iran.

 

Qual è la posizione di al-Sudani? Il governo iracheno si trova infatti in un equilibrio precario tra la presenza militare statunitense e l’influenza iraniana.

 

La cosa importante di al-Sudani è che non è sanzionato dagli Stati Uniti. Ciò significa che possiamo parlargli e possiamo avere a che fare con lui, mentre con gli altri non possiamo trattare. Non possiamo ad esempio parlare con al-Khazali, leader della milizia Asaib Ahl al-Haq, e per noi è difficile dialogare con Hadi al-Amiri, capo delle milizie Badr, soprattutto dopo il 7 ottobre. Come ho detto, siamo in contatto con al-Sudani: il suo ruolo è un po’ quello di interprete tra gli Stati Uniti e il Quadro di Coordinamento. Il problema è che noi siamo sempre più arrabbiati con lui e lui è sempre più arrabbiato con noi, perché entrambi siamo in una posizione insostenibile. Abbiamo capito che al-Sudani ha pochissima autorità, anzi non ne ha per niente. Nelle iniziative importanti deve andare dal Quadro di Coordinamento per avere il loro placet. Capita che vada dai curdi o dagli americani e si accordi su qualcosa, scontentando il Quadro di Coordinamento. Quest’ultimo non approva il fatto che al-Sudani prenda l’iniziativa senza chiedere il permesso, anche perché non sempre il Quadro di Coordinamento è in grado di correre ai ripari. Ad esempio, nei primi giorni del suo mandato, gli americani comunicarono che avrebbe cambiato il modo in cui rendicontavano il trasferimento di dollari”. Al-Sudani non fece obiezioni, ma le milizie andarono su tutte le furie, consapevoli del problema e del fatto che quella decisione sarebbe costata loro centinaia di milioni di dollari all’anno. Fin dall’inizio abbiamo visto il mandato di al-Sudani come puramente amministrativo ed esecutivo. Gestisce tutto attraverso il Quadro di Coordinamento, perché per loro anche le questioni più banali potrebbero essere rilevanti. Ha perso credibilità fin dal suo insediamento. Il suo lavoro è svolto in misura crescente dal suo segretario personale e parente, Abdul Karim al-Sudani, un ex generale della polizia della provincia di Maysan che è quasi un capofamiglia degli al-Sudani. C’è ancora un piccolo margine per negoziare, quando il Quadro di Coordinamento arriva e parla con Abdul Karim al-Sudani dicendogli “bene, cosa abbiamo all’ordine del giorno questa settimana? Nel Quadro siamo tutti d’accordo che questo direttore generale deve essere rimosso e sostituito con tizio”. In pratica si creano il loro piccolo impero, si scambiano le carte e poi si presentano nell’ufficio di al-Sudani dicendogli: “fai così”. Il problema è che, quando gli Stati Uniti dicono al premier “abbiamo bisogno che tu faccia questo”, lui si limita a inoltrare la richiesta al Quadro di Coordinamento. È un po’ come far recapitare un messaggio in busta: ecco, al-Sudani è la busta, non ha alcun ruolo all’interno del processo decisionale. Tutto quello che può fare è dire: “sentite, avermi come volto del governo serve a fare in modo che l’Iraq rimanga criminale, così le persone investono qui e c’è qualcuno da mandare a Davos, un politico presentabile che non sia né sotto sanzioni né corrotto”. Se lo indeboliscono tutto questo è a rischio. Il problema con al-Sudani è questo: se le forze americane rimarranno in Iraq, non sarà perché lui sarà stato convincente a riguardo. Sarà perché lo stesso Quadro di Coordinamento, anche se noi lo detestiamo, si è ormai reso conto che è meglio se gli americani rimangono in Iraq. Il loro ragionamento è: “se rompiamo definitivamente con gli americani potremmo perdere l’accesso al dollaro, subire ancora più sanzioni e attacchi, o favorire il consolidamento dell’alleanza tra Stati Uniti e Kurdistan iracheno. Dobbiamo offrire agli americani un’alternativa”. Anche gli iraniani la pensano più o meno allo stesso modo. Credo che vedremo evolvere le cose, ma non sarà grazie ad al-Sudani, ma al Quadro di Coordinamento, ai curdi e ai sunniti. Al-Sudani governa un Paese che non è come la Corea del Nord, l’Iran o la Siria: deve lasciare le truppe americane in Iraq.

 

Stiamo tutti aspettando la fine della guerra di Gaza. Dal 28 gennaio – quando le milizie hanno ucciso tre soldati americani in Giordania – la situazione in Iraq si è notevolmente calmata: la violenza è diminuita drasticamente, siamo quasi ai livelli pre-7 ottobre. Alcuni sostengono che le milizie stiano cercando di cacciare le forze americane, ma io non la penso così: gli iraniani hanno capito che rischiavano seriamente di essere colpiti. Tutte le fazioni irachene hanno capito che continueranno a essere prese di mira: se loro ci colpiscono in Iraq, noi li colpiremo a nostra volta. Gli Stati Uniti sono stati molto chiari nel dire che non se ne andranno dall’Iraq finché sono sotto il fuoco nemico. Sarebbe necessario un periodo prolungato senza attacchi. Ha ragione Qais al-Khazali quando dice: “sentite, stupidi, non avete capito bene. Se li attacchiamo, resteranno qui. Se smettiamo di attaccarli, se ne andranno”. Gli americani rimangono in Iraq perché non possono permettersi un altro Afghanistan, non possono fare un’altra ritirata sotto il fuoco nemico.

 

In che misura la guerra civile siriana ha contribuito a rafforzare la capacità militare delle milizie?

 

La Siria, soprattutto Deir el-Zor e la valle siriana dell’Eufrate, ha permesso loro di avere un altro luogo da usare come base operativa senza provocare ritorsioni in Iraq, come in effetti è avvenuto nelle prime fasi del conflitto di Gaza. Noi li abbiamo attaccati in Siria, loro hanno reagito prendendo di mira principalmente noi, ma sempre in Siria. Poi le cose sono cambiate ed è stato allora che la situazione in Iraq e le relazioni USA-Iraq sono davvero peggiorate. Adesso stiamo tornando alla situazione iniziale. Dal 28 gennaio abbiamo avuto solo attacchi contro le forze statunitensi in Siria, lanciati dalla Siria. Le milizie vorrebbero tornare alla vecchia formula: “un piccolo numero di attacchi in Siria dalla Siria”, ma il discorso degli Stati Uniti è: “beh, ragazzi, uccidiamo ancora un po’ di membri di Kata‘ib Hezbollah, e poi torniamo alle vecchie regole”.

 

La Siria era molto importante per gruppi come Nujaba e Kata’ib Sayyid al-Shuhada, i più vicini all’obiettivo rivoluzionario delle forze Quds. Queste formazioni non sono focalizzate sul contesto iracheno; si tratta piuttosto di gruppi jihadisti transnazionali il cui obiettivo primario è attaccare Israele e sostenere Hezbollah. Ma la cosa interessante di questa guerra è che il presidente siriano Assad ha detto fin dall’inizio: “no, non faremo un “fronte dei coraggiosi”. In tanti mi hanno detto che è una cattiva idea”, soprattutto gli emiratini e i russi. Di conseguenza, in Siria le milizie non avevano la piattaforma che si aspettavano per lanciare attacchi diretti contro Israele. Penso che se molte di queste milizie fossero state schierate nel Golan, avremmo potuto ucciderne molte con l’aiuto degli israeliani. Ad ogni modo non è successo. L’elemento chiave delle milizie consiste in un breve addestramento e un piccolo  equipaggiamento, simile a quello che gli Houthi hanno ricevuto per il lancio dei droni. È un meccanismo estremamente semplice da usare. Giusto per dare un’idea ai lettori: gli iraniani forniscono molte componenti dei droni, la cui fabbricazione e assemblaggio avviene in Iran, ma anche in Iraq e Yemen. Ora però utilizzano modelli sempre più economici come lo Shahed 101. Per farlo funzionare, è sufficiente utilizzare un software che pianifica le missioni, inserire un paio di coordinate, scaricarle nel sistema operativo dell’apparecchio, e infine lanciare il drone da una piattaforma. Tutto ciò non richiede particolari capacità, e nemmeno molto denaro. Di conseguenza, in Iraq uno o due attacchi al giorno sono più che sufficienti. Operazioni del genere non richiedono cinquanta persone: basta addestrarne alcune per predisporre il lancio di un drone. Talvolta le coordinate vengono inviate direttamente dagli iraniani su chiavette crittografate. È una specie di guerra telecomandata.

 

Tuttavia, subito dopo la morte di tre nostri soldati, il capo delle forze Quds dei Guardiani della Rivoluzione Esmail Qaani è arrivato in Iraq e il giorno dopo le Kata’ib Hezbollah hanno interrotto tutte le operazioni. Poco dopo Sabereen News, il principale canale Telegram di propaganda della milizia, ha interrotto la copertura del conflitto. È un segnale molto chiaro che gli iraniani sono arrivati troppo vicini alla guerra e non vogliono che tutte le loro milizie irachene vengano distrutte dagli americani. Per questo motivo hanno deciso di fare un passo indietro.

 

L’amministrazione Biden è distratta dallo scenario iracheno a causa di altre questioni e delle prossime elezioni?

 

Biden è un decisore politico piuttosto emotivo. Quando c’è stato un attacco contro le forze americane che ha quasi ucciso alcuni uomini il giorno di Natale, abbiamo immediatamente reagito. Biden è al colmo della rabbia: ha esaurito la pazienza con queste milizie. Questi gruppi iracheni sanno che se faranno qualcos’altro verranno probabilmente colpiti molto più duramente rispetto a tre mesi fa. Il Presidente è stufo, e anche se ha una campagna elettorale in corso e tutta una serie di altre preoccupazioni, nel momento in cui qualcuno ucciderà soldati americani in Iraq o in Siria, reagirà molto duramente. Per una persona molto impegnata e con un anno elettorale orribile di fronte, questo è il genere di cose che gli procura sollievo. Se sta passando una brutta giornata e le milizie colpiscono gli americani, allora anche loro avranno una brutta giornata. È così: siamo una superpotenza, ma alla fine al comando c’è un uomo solo. Se i miliziani continuano a infastidirlo come hanno fatto negli ultimi 3-4 mesi, Biden continuerà a colpirli duramente anche in futuro.

 

 

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