Estratti dalla relazione del Card. Angelo Scola al Comitato Scientifico internazionale di Oasis

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:44:21

Il “meticciato di civiltà” non è un programma politico: il suo carattere congiunturale esclude infatti che lo si possa erigere a meta da perseguire lungo il divenire storico. Al tempo stesso, esso è qualcosa di più della semplice descrizione di un processo (come potrebbe essere la distaccata osservazione di un fenomeno biologico), poiché si propone come un orizzonte capace di far spazio alle categorie necessarie a creare le condizioni che rendano tale processo occasione di un più ampio riconoscimento reciproco tra gli attori in campo. Mi riferisco ai temi dell’identità, dell’alterità, della differenza, della relazione, dell’interculturalità, dell’integrazione… Un peso decisivo tra queste categorie va dato al fattore “tradizione”. Molti singoli e molte comunità che interagiscono nel processo di meticciato di civiltà esibiscono una singolare autocoscienza: quella di essere espressione di una tradizione che li precede e li supera. Non punti isolati, dunque, ma anelli di una catena che risale molto indietro nel tempo, fino a un evento fondativo che, nel caso delle fedi religiose universalistiche, è ritenuto possedere un significato valido per ogni tempo e ogni luogo. Già questa sommaria descrizione permette di cogliere le difficoltà e le sfide che una tale concezione pone a un modello sostanzialmente individualistico in cui la società sia pensata, sulla base del nudo binomio individuo-Stato, come un caotico affiorare di rivendicazioni autonome, mantenute in precario equilibrio dall’intervento regolatore dello Stato. Ci si può allora domandare se non sia opportuno tracciare, pur con tutte le cautele del caso, un’ideale frontiera tra un contesto occidentale individualistico in cui, salvo minoranze residuali, si sarebbe ormai compiuto un processo di radicale deprezzamento della tradizione e le civiltà “orientali” comunitarie in cui, salvo avanguardie insignificanti, continuerebbe immutata la venerazione sacrale della tradizione. Forse questa lettura era plausibile agli inizi dell’Ottocento, quando Napoleone Bonaparte sbarcava ad Alessandria d’Egitto, ma certamente oggi una tale contrapposizione non ha alcun senso. La realtà delle cose è molto più sfumata, da entrambe le parti. Soprattutto, ed è quel che più importa, esiste spazio sufficiente per articolare un’alternativa tra un’esistenza senza radici e una sclerotica ripetizione dell’identico. La tradizione rettamente intesa resta necessaria. Dai discorsi che ho potuto ascoltare in questi anni, ad esempio all’Università di al-Azhar nel 2006 o al Royal Institute for Interfaith Studies nel 2008, mi pare evidente che la critica illuministica alla tradizione, intesa come trasmissione meccanica di un pacchetto di verità intangibili, ha raggiunto anche l’altra sponda del Mediterraneo. In questi anni abbiamo sentito spesso ripetere dai nostri interlocutori musulmani che occorre ritornare al Corano e alla sua razionalità, lasciando cadere le interpretazioni che ne sono state date in passato, perché troppo segnate storicamente, ad esempio per quanto riguarda la condizione della donna o gli statuti delle minoranze. In tal modo si documenta ancora una volta il valore di positiva purificazione che la modernità ha esercitato verso ogni tradizione religiosa. Si può convenire perciò con l’affermazione del mufti di Bosnia, Mustafa Cerić che nell’intervista sul prossimo numero di Oasis, dichiara: «Le religioni hanno beneficiato più di chiunque altro delle critiche mosse loro dall’Illuminismo». Inoltre, anche i fondamentalisti, in larga maggioranza, ritengono auspicabile una certa rottura con il passato. Per queste ragioni una lettura essenzialista che voglia irrigidire gli Islam col sigillo di uno “spirito orientale” immutabile non tiene alla prova dei fatti. I soggetti del meticciato dunque sembrerebbero condannati a una radicale impasse: nella misura in cui ambiscono mantenere un riferimento religioso concreto, non dissolto in principi astratti di portata universale, essi risulterebbero prigionieri di tradizioni prive di senso, che potrebbero addirittura essere di intralcio rispetto a una purezza originaria. Ma le cose stanno davvero così? «Non esiste la nuda fede o la pura religione. In termini concreti, quando la fede dice all’uomo chi egli è e come deve incominciare ad essere uomo, la fede crea cultura. La fede è essa stessa cultura». Quest’illuminante affermazione dell’allora Cardinal Ratzinger illustra eloquentemente, dall’interno della prospettiva cristiana, l’inevitabile circolarità tra fede e cultura, quando la cultura è intesa nel suo senso pregnante di esperienza umana consapevole. La fede, offrendo all’uomo un’ipotesi interpretativa del reale, produce cultura, e la/e cultura/e, esercitandosi, interpreta(no) le fedi stesse. Nel tempo storico, una tale dinamica è insuperabile. La tradizione adeguatamente e culturalmente interpretata la assicura. Pertanto non esiste un momento iniziale di assoluta chiarezza (nel nostro caso “la pura fede”) seguito da un tempo di crescente nebulosità (”la cultura”, “la religione” in senso barthiano), ma piuttosto un continuo scambio tra questi due poli. La cultura è sempre da purificare alla luce della fede, ma la fede, senza oscurare l’assenso dovuto alla verità, è sempre da interpretare secondo le istanze suscitate dalla religione (cultura). Alla luce di queste affermazioni si comprende meglio la necessità del compito di un’interpretazione culturale degli Islam connesso al dato che l’Islam, come ogni fede, produce cultura in quanto propone un’interpretazione del reale.