L’intesa rappresenta un passo importante che permette di capire chi lavora a favore e chi contro una risoluzione politica

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:09:22

Le reazioni all’accordo fra le fazioni libiche siglato dopo estenuanti trattative a Skhirat, in Marocco, poco prima di Natale, oscillano fra il più cupo pessimismo e la speranza che la Libia, finalmente, abbia imboccato il sentiero – certo tortuoso – che la allontani dal precipizio dell’autodistruzione. Alla luce dei disastri di questi ultimi anni, del progressivo sfaldamento di ogni autorità statuale, della creazione di due parlamenti e due governi in lotta fra loro – senza peraltro avere poteri reali sul territorio libico – della crescita impetuosa di movimenti jihadisti che si rifanno ad al-Qaida o allo Stato Islamico, fino alla dilapidazione delle ricchezze finanziarie lasciate dal colonnello Muammar Gheddafi, ebbene è fin troppo semplice essere pessimisti. Basterebbe sottolineare come questo accordo sia il frutto di un compromesso faticosissimo fra le fazioni libiche. Un accordo quasi imposto dalla comunità internazionale, nato da continui negoziati guidati dal discusso mediatore dell’Onu, lo spagnolo Bernardino Leon, che prima di lasciare ha voluto ottenere un successo o, come sostengono i suoi critici, una parvenza di successo, con un pasticciato accordo nello scorso autunno. Lasciando al suo successore, il tedesco Martin Kobler, il compito arduo di tradurlo in pratica e di far nascere il sospirato governo di unità nazionale. Uno strumento inefficiente e contraddittorio Per settimane questo è sembrato un compito impossibile, viste le reazioni negative che arrivavano da dentro e fuori la Libia, tanto che si è detto che l’accordo aveva portato ad avere soltanto “un pezzo di carta firmato in più”. Gli esclusi dal nuovo governo di unità nazionale hanno fomentato proteste e ulteriori fratture dentro i vari blocchi contrapposti, che fanno riferimento al parlamento di Tobruk (quello riconosciuto dalla comunità internazionale), dominato dai gruppi laici, e quello di Tripoli (il vecchio Consiglio generale nazionale auto-riconvocatosi dopo la sua decadenza e dominato dai gruppi islamisti). Due “blocchi” soltanto apparenti, perché frammentati al loro interno da un florilegio di distinguo, ambizioni e rivalità personali, istanze localistiche, etc. Insomma, il rischio è che il nuovo governo risulti un’entità puramente virtuale, costretto magari a doversi insediare in località remote (si è parlato di Ghaddames – oasi nel Nord-ovest – o Jufra – regione al centro del Paese; per il momento la prima riunione del governo è avvenuta a Tunisi). Certamente, vista la sua struttura elefantiaca – un atto dovuto per accontentare gli appetiti di una moltitudine di pretendenti e per bilanciare i movimenti, le milizie e le tante anime della Libia – sarà uno strumento inefficiente e contraddittorio. Fornendo così altre munizioni retoriche a chi boicotta ogni forma di riconciliazione. Ma limitarsi al pessimismo e all’elenco delle difficoltà – note ed evidenti a tutti – serve a poco. Un esercizio fin troppo facile di preveggenza. La verità è che l’accordo rappresenta comunque un passo importante, che ci permette di capire chi lavora a favore e chi contro. È fondamentale allora che il sistema internazionale delinei politiche che tengano conto di questo “spartiacque politico”. In altre parole, occorre lavorare per aumentare progressivamente il consenso e per accomodare le ambizioni di chi è rimasto fuori dai giochi, ma allo stesso tempo essere pronti a sanzioni crescenti nei confronti dei singoli individui e dei movimenti che si ostinano ad avvelenare i pozzi del dialogo politico interno. Un compito non facile, che vede l’Italia impegnata in prima linea. Dopo un lungo periodo di prudenza – troppo lungo, secondo qualcuno – Roma a dicembre ha deciso di guidare l’azione per la stabilizzazione della Libia, convocando una conferenza internazionale il 13 dicembre, cui hanno partecipato decine di delegazioni di Paesi regionali e internazionali e cui Washington ha dato il proprio sostegno, con l’arrivo del segretario di stato, John Kerry. Del resto, nessun Paese conosce meglio la Libia e i libici di noi italiani. E nessun Paese europeo ha una tradizione storica che – nelle differenze – ci avvicina: loro hanno tradizionali rivalità fra tribù e fra le loro tre regioni (Tripolitania, Cirenaica e Fezzan), noi abbiamo superato storiche ostilità fra le mille città d’Italia e conosciamo bene l’arte della navigazione di governi frutto di compromesso fra forze politiche diverse. La necessità di un ruolo italiano Senza voler essere velleitari o inseguire improbabili iniziative unilaterali, è evidente come ci sia bisogno di una forte azione italiana per favorire la nascita di questo governo di unità nazionale, il cui primo ministro, il discusso Fayez el-Serraj, è stato ricevuto dal presidente del consiglio Matteo Renzi pochi giorni fa. Nessuno ha ricette magiche, ma è fondamentale avviare - con maggior serietà rispetto al passato – programmi di assistenza post conflict e di institution bulding a livello di sicurezza, politico e amministrativo. In Libia le forze armate sono debolissime e percepite come una delle tante milizie: occorre lavorare per aumentarne l’efficacia e la reputazione, cercando di integrare le milizie integrabili ed eliminando quelle troppo radicali, compromesse o collegate ai gruppi jihadisti. A livello politico, occorre aiutare la creazione di un’amministrazione centrale e locale quasi da zero, dato che il vecchio regime aveva distrutto ogni forma di amministrazione organizzata (e da allora le cose sono andate soltanto peggiorando), sapendo che si tratta di programmi di assistenza e di capacity building che dureranno molto a lungo. E i cui frutti – nel migliore dei casi – saranno incerti. L’alternativa a questo difficile impegno, che ci espone con i libici ma anche con i nostri “alleati” occidentali (i quali sembrano guardare per ora con curiosità a quanto sono in grado di fare “gli italiani”) è il definitivo collasso della Libia quale entità statuale; un fatto che favorirebbe ancor più la creazione di hot spot terroristici alle nostre porte, minacciando la nostra sicurezza.