Manca ancora un governo centrale, cresce il malcontento della popolazione intrappolata tra la minaccia jihadista e le lotte di potere interne

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:09:02

Per la prima volta nelle scorse settimane gli Stati Uniti hanno portato a termine un raid mirato contro postazioni dello Stato Islamico nel nord della Libia. La comunità internazionale tenta da mesi di ricucire le divisioni tra due governi antagonisti e arrivare alla formazione di un unico esecutivo capace di traghettare la nazione verso una transizione politica, senza successo. La Libia non ha ancora un governo unificato e la frammentazione politica e militare – con il proliferare di milizie e gruppi armati diversi – diventa sempre più profonda. Il problema, spiega a Oasis Virginie Collombier*, ricercatrice allo European University Institute di Firenze ed esperta di Libia, è nato sul piano politico e “non può esserci una risposta essenzialmente ed esclusivamente militare”. Si torna a parlare di un intervento militare internazionale in Libia. Quale lezione è possibile trarre dall'esperienza del 2011? Quali sono gli errori da non ripetere? "La questione è soprattutto d’interrogarsi e di comprendere i fondamenti della crisi per rispondervi nel modo più adeguato. In primo luogo oggi ci rendiamo conto che sia i libici stessi che la comunità internazionale hanno ampiamente sottovalutato le fratture presenti all'interno della società dopo la caduta di Muammar Gheddafi. Queste fratture, che il regime aveva intenzionalmente accentuato, si sono manifestate in un’enorme assenza di fiducia tra le varie comunità e gruppi politici. In secondo luogo si ha la tendenza a dimenticare che la rivoluzione del 2011 non è stata soltanto la rivolta di una parte della società contro il regime: è stata anche una guerra civile tra comunità favorevoli o contrarie a Gheddafi. Di conseguenza, quando il regime è caduto, si sono delineati in maniera molto chiara vincitori e vinti. In quel contesto, la priorità è stata data all'organizzazione rapida di elezioni e alla creazione di nuove istituzioni politiche, senza però iniziare un vero processo di dialogo e di riconciliazione nazionale. Questo ha generato un’intensa competizione tra le comunità e le fazioni che erano uscite vittoriose dalla guerra; i vinti sono stati esclusi e da ultimo le divisioni e le tensioni all'interno delle società si sono molto accresciute". Qual è la situazione sul campo in questo momento? "Sul piano istituzionale, a partire dall'estate 2014, il Paese è diviso tra due parlamenti e due governi rivali che si contendono la legittimità del potere. Uno ha sede a Tripoli, l’altro a Tobruk e Baida. Di fatto però nessuno dei due esercita un controllo reale su una parte significativa del territorio o della popolazione. Dalla fine del 2014 le Nazioni Unite hanno supervisionato un processo di dialogo politico tra le varie fazioni rivali con lo scopo di riunificare le istituzioni e ristabilire un governo legittimo. Ma malgrado la firma di un accordo politico nel dicembre 2015, non è stato ancora possibile formare un governo d’intesa. Il contesto di vuoto politico prolungato e di competizione a volte violenta tra fazioni politico-militari ha avuto come conseguenza una crescita dei gruppi armati: vecchie brigate rivoluzionarie, gruppi criminali, e evidentemente gruppi jihadisti, in particolare lo Stato Islamico. Come valuta la minaccia dello Stato Islamico? "L’avanzata dello Stato Islamico è stata rapida a partire dalla fine del 2014. Il gruppo ha potuto approfittare del vuoto securitario, ma è anche riuscito a capitalizzare il sentimento d’esclusione di alcune comunità libiche e a guadagnare a sé una parte dei loro membri. Questo fenomeno è particolarmente evidente a Sirte, l’antico feudo di Gheddafi, in cui alcuni individui e famiglie hanno deciso di sostenere lo Stato Islamico. Più che per ragioni ideologiche, l’hanno fatto per motivi politici congiunturali: unirsi allo Stato Islamico poteva permettere loro di riguadagnare il potere e lo status di cui godevano prima del 2011. Certamente a Sirte c’è un nucleo consistente di combattenti stranieri e sono loro a controllare la città, ma possono appoggiarsi su una parte della popolazione locale. Questa situazione ricorda molto da vicino quella delle province sunnite dell’Iraq. La minaccia jihadista quindi è in parte fondata su una crisi e su delle rivendicazioni politiche da parte delle comunità locali. In termini numerici e di capacità peraltro l’incidenza jihadista è relativa: si parla indicativamente di qualche migliaio di combattenti. Questi ultimi poi hanno anche subito delle sconfitte, come ad esempio a Derna, dove alcuni gruppi locali li hanno combattuti e respinti fuori della città". In questo contesto quali effetti potrebbe avere un intervento militare straniero? "Tutto dipende naturalmente dal tipo d’intervento a cui si pensa. Un intervento su grande scala con presenza di truppe straniere sul terreno sembra escluso; sarebbe molto difficile concretamente e soprattutto molto mal accolto dai libici. Finora la logica che ha prevalso a livello internazionale era di non intervenire in modo unilaterale, ma di favorire la creazione di un governo d’intesa nazionale per poi appoggiarlo nella lotta contro i movimenti estremisti. Tuttavia i responsabili europei e americani, posti di fronte a quella che percepiscono come un’avanzata rapida dello Stato Islamico, sembrano ormai pronti a condurre degli interventi militari mirati senza richiesta preventiva da parte di un governo libico considerato come legittimo. Attacchi di questo tipo sono già stati effettuati a fine 2015, in particolare a Derna. In questi ultimi giorni degli aerei americani hanno condotto un raid importante nei pressi di Sabrata e si parla anche della partecipazione di forze speciali francesi ai combattimenti nella città di Bengasi, anche se l’informazione resta da verificare. Comunque sia, sembra che le operazioni occidentali si vadano accelerando e che la pazienza di fronte al blocco del processo politico si stia esaurendo. Per gli occidentali il tempo stringe e la minaccia cresce: occorre ormai agire in maniera unilaterale se necessario. Ma c’è il rischio reale che un’azione militare straniera unilaterale, anche di portata limitata, provochi il fallimento totale del processo politico e renda ancora più difficile la ricerca di una soluzione a lungo termine. In ogni caso, non può esserci una risposta essenzialmente ed esclusivamente militare a una minaccia che comporta una consistente componente politica". L’Occidente vede nello Stato Islamico la minaccia più seria in Libia. Ma quali sono le priorità dei libici? "La maggior parte dei libici è preoccupata dall'espansione dello Stato Islamico e più generalmente dal deterioramento della situazione di sicurezza. Per loro la sola risposta a breve termine è la formazione di un governo unificato in grado di esercitare la propria autorità sul territorio. Il problema è che fino a oggi i poteri rivali di Triboli e Tobruk/Baida hanno preferito farsi la guerra piuttosto che formare un fronte comune contro lo Stato Islamico e anzi è molto verosimile che il governo di Tripoli e i suoi alleati abbiano facilitato lo spostamento e fornito un sostegno finanziario a elementi jihadisti nel quadro della lotta contro i rivali di Tobruk/Baida". Che ruolo ha il Generale Haftar? È una parte del problema o della soluzione? "Quando nel maggio 2014 il generale Haftar lanciò l’operazione Karâma (dignità), era in pensione. Tuttavia manteneva il controllo dell’aviazione, riunì alcuni ex ufficiali e si alleò ad alcune forze tribali dell’est del Paese. Dopo diversi mesi di guerra a Bengasi, la sua operazione è stata avallata dal Parlamento di Tobruk che gli ha affidato ufficialmente il controllo delle forze armate. Ma l’esercito nazionale libico che dirige non è affatto un esercito nazionale nel senso che diamo noi al termine. Conta in particolare una consistente proporzione di civili, milizie locali e tribali che hanno giurato fedeltà al generale. A causa del suo passato sotto Gheddafi e della lotta che ha condotto contro alcune forze politiche e militari a Bengasi dal 2014 in avanti, Haftar costituisce un grande ostacolo a una soluzione politica della crisi libica. Lui e i suoi alleati si oppongono strenuamente all’ipotesi che sia sostituito al vertice dell’istituzione militare o al ministero della difesa da una personalità che non faccia parte della sua cerchia. Ma per i libici dell’ovest, la sua presenza alla guida dell’esercito è assolutamente inaccettabile e anche a est il numero dei suoi oppositori sembra aumentare". Non è molto ottimista… "Gli sviluppi di questi ultimi giorni e soprattutto le divisioni e le tensioni crescenti all’interno del Parlamento di Tobruk (che dovrebbe approvare il governo di unità nazionale) non sono rassicuranti. La stragrande maggioranza dei libici spera che questo governo possa formarsi, ma il compromesso sembra sempre più difficile. La strategia del dialogo politico adottata dalle Nazioni Unite è consistita nel far esplodere le coalizioni e creare una nuova alleanza di forze moderate favorevoli a un accordo. Questa strategia ha portato a dei risultati positivi, ma ha anche approfondito le fratture tra le diverse fazioni e comunità e all’interno di esse. Particolarmente forti sono oggi le divisioni all’est, nelle grandi tribù, nel Parlamento, ma anche nelle forze politiche e militari in generale, al punto che c’è oggi il rischio reale di un nuovo confronto armato tra sostenitori e oppositori del governo d’intesa e di una escalation di cui è difficile prevedere le conseguenze. È proprio per questo che un nuovo intervento militare straniero, anche mirato e limitato, senza una visione politica d’insieme, rischia solo d’aggravare una situazione già molto instabile". *Virginie Collombier, Research Fellow Robert Schuman Center for Advanced Studies, European University Institute Libya Project Associate, the Norwegian Peacebuilding Resource Center (NOREF) www.vcollombier.net