Un aggiornamento del pensiero islamico potrà permettere di uscire da una pericolosa disgregazione delle istituzioni religiose

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:07:56

L’argomento è di quelli su cui si preferisce generalmente tacere, perché quando è sollevato incontra opposizione: abbiamo infatti sentito in più di un’occasione negare in modo netto la semplice esistenza di un’istituzione religiosa nell’Islam. In uno spazio così ridotto non è mia intenzione esporre le caratteristiche dell’istituzione religiosa nell’Islam, che ritengo note quanto meno in linea generale. Piuttosto, comincerei illustrando una differenza importante, per quanto riguarda la nostra epoca presente – non parlo qui della storia – tra la situazione dell’istituzione religiosa nell’Islam e nel Cristianesimo, in particolare nella Chiesa cattolica, ove essa è strutturata in modo gerarchico e chiaro. L’idea fissa dello Stato moderno, in tutto l’Occidente e in particolare in Francia, è stata sottrarsi all’egemonia dell’istituzione religiosa. Le lotte tra la Chiesa e regimi politici ruotavano tutte attorno alla questione di chi avesse la precedenza nella gestione della cosa pubblica. Nel campo religioso islamico, e sunnita in particolare, è molto diverso, dal momento che il potere politico è riuscito in larga misura, e tuttora riesce, ad addomesticare l’istituzione religiosa. Di conseguenza, le lotte che vediamo nella nostra epoca sono il contrario di quelle avvenute in Occidente. Alla base non c’è la volontà di liberarsi dall’egemonia della Chiesa; piuttosto, è l’istituzione religiosa a ricercare una forma di autonomia nei confronti del potere politico. La differenza non è di poco conto e a mio avviso spiega in larga misura le difficoltà di questa istituzione, che non è strutturata sul modello della Chiesa. La cosa è evidente a livello politico, ma al fondo si tratta di una realtà sociale e culturale. Il declino degli ulema Per dar forma oggi all’istituzione religiosa nell’Islam non esiste alcun modello o esempio storico a disposizione e il fatto di non poter invocare precedenti è una delle difficoltà più gravi che questa istituzione incontra nel momento in cui reclama autonomia o libertà dal controllo dello Stato e del potere politico, tanto più che essa, a partire almeno dagli ultimi sei secoli, dall’epoca di Ibn Khaldūn1, ha perso la forza morale che possedeva in origine e con cui poteva influire nell’ambito politico. Ibn Khaldūn dice chiaramente che gli uomini di religione, gli ulema del suo tempo, cioè i rappresentanti dell’istituzione religiosa, «ricevevano grandi complimenti nelle occasioni pubbliche», e questo soltanto. In altre parole, la gestione politica avveniva senza badare alle loro opinioni. Naturalmente, sul piano dell’organizzazione della vita sociale e in particolare degli statuti personali, gli ulema godevano di grande prestigio e influenza. Tuttavia, sul piano della vita sociale, il loro peso è andato progressivamente diminuendo, man mano che il potere politico adottava altri riferimenti, diversi da quelli religiosi. Come afferma Hmida Ennaifer, l’influsso dei rappresentanti dell’istituzione religiosa si esercitava a livello della produzione di senso, quanto meno a livello del popolo, mentre era inesistente nella vita politica. Nella nostra epoca la relativa perdita di credibilità e influenza degli ulema si è andata accentuando, anche prima dell’introduzione dei mezzi di comunicazione moderna, per una ragione fondamentale: il diritto positivo ha iniziato a sostituire le norme della giurisprudenza islamica, di modo che una parte considerevole dei fondamenti della vita sociale è stata sottratta al controllo dei rappresentanti religiosi. Questi si sono trovati a fronteggiare la concorrenza dei parlamenti e delle istituzioni statali che legiferano senza riferirsi, sul piano sostanziale, alle norme della giurisprudenza islamica. Certo, sul piano formale può sempre comparire un riferimento religioso, ma in realtà la maggior parte delle leggi promulgate nei Paesi islamici è formata da norme di diritto positivo, con l’eccezione dello statuto personale, eccezione comunque di portata variabile, da una regione all’altra e da un contesto politico all’altro. Non v’è dubbio che questo stato di cose accentui la difficoltà di liberarsi dalla tutela politica. In altre parole, se l’istituzione religiosa islamica influenzasse ancora in modo significativo la vita sociale attraverso le norme del fiqh [giurisprudenza islamica], forse avrebbe un margine di manovra più ampio e potrebbe trattare con il potere politico da pari a pari. Ma non è questo il caso oggi. Islam tradizionale e Islamismo: concorrenza, rivalità, imitazione Dobbiamo poi aggiungere che l’istituzione ufficiale subisce la concorrenza di altre istituzioni, formazioni o strutture sociali, come i partiti, le associazioni e varie organizzazioni che parlano a nome dell’Islam, ma che hanno riferimenti diversi rispetto all’istituzione religiosa ufficiale. Tutti i movimenti che chiamiamo “islamisti”, “Islam della contestazione” e affini, sono in concorrenza con l’istituzione religiosa ufficiale. A questo proposito è importante sottolineare la grande differenza tra il sapere religioso propagandato da queste nuove correnti e quello, reale per quanto in larga misura fossilizzato, che era offerto dalle istituzioni tradizionali. Sappiamo bene che gli ulema di al-Azhar, della Zeituna e della Qarawiyyin2, rispettivamente in Egitto, Tunisia e Marocco, a differenza dei loro studenti, difendevano ostinatamente un tipo d’insegnamento che si limitava quasi unicamente ai commenti e alle glosse e non erano disposti a rinnovare i manuali d’insegnamento, né nei contenuti né nelle forme espositive. Malgrado questo, vegliavano alla preservazione di un sapere religioso che, per quanto tradizionale e in larga misura congelato – non essendovi possibilità di aggiunta rispetto a quanto detto dagli antichi – permetteva comunque di relativizzare le varie espressioni della religione o della religiosità. Per questo le posizioni di questa élite tradizionale si caratterizzavano in genere per la loro tolleranza verso le opinioni divergenti, a differenza delle nuove strutture e istituzioni che sono nate in particolare con il movimento dei Fratelli musulmani negli anni Venti del secolo scorso e che non si caratterizzano né per una conoscenza profonda dei testi religiosi né per una padronanza sicura e diretta delle moderne scienze umane e sociali, né infine per capacità di relativizzare le verità che difendono, essendo quanto mai lontane dallo spirito di tolleranza di cui solitamente facevano prova i rappresentanti dell’istituzione religiosa tradizionale. Questo è molto importante perché ci spiega le ragioni della disgregazione che oggi investe l’istituzione religiosa. Quanto detto fin qui vale in realtà tanto per l’epoca moderna quanto per quella contemporanea. Ma con l’avvento della globalizzazione si manifesta un altro fenomeno a cui non sempre si presta la dovuta attenzione: il fenomeno della privatizzazione. In passato, come abbiamo visto, coesistevano istituzione politica da un lato e istituzione religiosa dall’altro ed entrambe, pur cooperando a volte e altre volte scontrandosi, riconoscevano allo Stato il compito di presiedere all’organizzazione della vita collettiva. Con la globalizzazione, che inizialmente fu economica ma che poi ha finito per investire ogni aspetto della vita, abbiamo iniziato a vedere all’opera realtà diverse dallo Stato, come il capitale, le multinazionali e le forze esterne, regionali e internazionali, che s’intromettono per fare dell’istituzione religiosa uno strumento o quanto meno un esecutore delle loro politiche. Questo non può che ridurre ulteriormente la già ridotta credibilità dell’istituzione religiosa. Se ad esempio paragoniamo la situazione di venti o trent’anni fa con quella odierna, tanto in ambito islamico quanto cristiano, notiamo l’esistenza di associazioni e organizzazioni religiose dalle enormi risorse economiche, dotate di mezzi d’influenza moderni, in grado di utilizzare Internet e tutti gli strumenti di comunicazione, dietro alle quali stanno forze economiche. Questo per esempio è chiaro in relazione ai movimenti evangelical cristiani. In America Latina, che un tempo era considerata una delle roccaforti del Cattolicesimo, i movimenti evangelical rappresentano il 30 per cento dei credenti e hanno dietro di loro le multinazionali e la destra americana. Il loro influsso è sensibile anche in Africa. Non credono nello Stato nazionale e sono a servizio degli interessi capitalistici, che non conoscono confini geografici. Identico fenomeno si può osservare nel campo islamico, dove sono all’opera movimenti di predicazione che non necessariamente rispondono agli Stati. Ad esempio in Africa, una delle realtà più attive nella predicazione è quella wahhabita. Tuttavia essa non è sempre sostenuta direttamente dal governo saudita; sono uomini d’affari, ricchi sauditi e del Golfo, a sostenere le associazioni e le istituzioni religiose, in concorrenza con quelle tradizionali e a servizio della privatizzazione e della disgregazione dello spazio pubblico. Servizio cosciente o incosciente, poco importa. Queste associazioni riconoscono gli Stati esistenti in modo puramente formale, operando in realtà secondo una prospettiva transnazionale. Una religiosità ibrida Tra le conseguenze più importanti di questo stato di cose vi è il “bricolage”: nei Paesi islamici e nelle regioni in cui si diffonde questo tipo di predicazione, chi vi aderisce attinge contemporaneamente a quello che dicono i rappresentanti delle istituzioni religiose tradizionali e all’insegnamento dei nuovi predicatori, apportando al tempo stesso anche una terza componente esterna allo spazio islamico. Le forme di religiosità che ne derivano sono ibride, non sono più le forme di religiosità tradizionale dai tratti ben definiti, in cui possiamo chiaramente distinguere il bianco dal nero. La stereotipizzazione a cui mirano è accompagnata da una grande cura dei riti secondo una modalità insieme propria e collettiva e dal timore di non eseguirli correttamente, senza distinguere tra prescrizioni cultuali fondamentali, come la preghiera e il digiuno, e fenomeni sociali di religiosità, come il modo di lavare i morti e seppellirli o l’obbligo per le donne di coprire i capelli e la loro separazione dalla società maschile. Globalizzazione significa però anche perdita di senso. In altre parole la disgregazione a cui ho fatto cenno interagisce, a volte come conseguenza, a volte come causa, con lo smarrimento del significato vissuto da molte classi sociali, in particolare da quanti subiscono repentini processi d’inurbazione, per effetto dei quali perdono i legami tradizionali e si sottraggono a quel controllo sociale di cui l’istituzione religiosa era uno degli attori più importanti. Un’istituzione religiosa a cui peraltro essi erano attaccati perché l’avvertivano come un elemento costitutivo della loro personalità. È lo smarrimento del significato a spiegare l’adesione a nuovi movimenti e istituzioni. La pluralità d’idee e opinioni e delle modalità di esprimerle, per effetto della rivoluzione digitale, e la diffusione dei moderni mezzi di comunicazione sono tutti elementi che conducono necessariamente a un bricolage inconsapevole e alla confusione nelle menti dei giovani, che si trovano persi tra opinioni concorrenti e discordanti. Nei casi estremi questo conduce all’adesione a movimenti totalitari violenti, soprattutto religiosi. Daesh ad esempio è una di queste istituzioni che non hanno alcun legame con l’istituzione religiosa ufficiale. Queste istituzioni di contestazione, di proselitismo, di rivoluzione, chiamatele come volete, sono lontanissime nei loro scopi e nelle loro pratiche dalle caratteristiche dell’istituzione religiosa tradizionale, sia essa ufficiale o di opposizione. Se si prendono in esame le pratiche degli aderenti al cosiddetto Stato islamico, come l’applicazione barbarica delle pene corporali, la tortura dei dissidenti, le decapitazioni e la riduzione in schiavitù delle donne, forse non è esagerato considerarle come espressione di una nuova religione che si è separata dal ceppo dell’Islam, al modo, per fare un esempio, del Bahaismo3. Questa nuova religione è agli antipodi rispetto alle istituzioni storiche dell’Islam. Nulla lo dimostra meglio del fatto che una grande percentuale di quanti si radunano sotto la bandiera di questo “Stato” non sono musulmani di nascita, ma vi sono arrivati da ogni angolo della terra per sottrarsi alla condizione di smarrimento di senso e di marginalizzazione sperimentata nei loro ambienti d’origine. Pulsioni anti-moderne Una peculiarità che mi sembra degna di nota è che tutti questi movimenti, al pari dell’istituzione religiosa tradizionale, preferiscono concentrarsi sulla dimensione comunitaria, su ciò che considerano essere il bene del gruppo e della comunità islamica nel suo complesso, piuttosto che sul valore del singolo e sulla sincerità del sentimento individuale nel campo religioso. Ciò significa che queste istituzioni sono di per sé in controtendenza rispetto all’evoluzione generale della nostra epoca verso l’individualismo (che non va confuso con l’egoismo). Da questo punto di vista esse rappresentano delle forze contrarie rispetto all’enfasi che il nostro tempo pone in modo caratteristico sul valore del singolo, sulle sue scelte e sull’accettazione della diversità. Abbiamo quindi a che fare con una situazione complessa, in cui non esiste più quella chiara divisione di campi che era presente in passato. Ciò di per sé è già un segno della difficoltà che le istituzioni religiose trovano ad aderire alle esigenze della nostra epoca, di ciò che chiamiamo modernità, cioè quel modello di civiltà in cui non vi è separazione tra i nuovi valori dei diritti umani, come la libertà, l’uguaglianza, la democrazia e via dicendo, e le realizzazioni materiali. Le istituzioni di cui stiamo parlando accettano senza discussione, e a volte senza neppure rendersene conto, le realizzazioni materiali, tanto che personalmente non saprei indicare alcuna obiezione mossa contro di esse. Allo stesso tempo però rifiutano in modo quasi assoluto le esigenze gnoseologiche e valoriali che formano una parte imprescindibile della civiltà moderna. Questo rifiuto, giustificato con la scusa della resistenza all’occidentalizzazione, dell’opposizione alla laicità, della difesa dell’identità e via dicendo – non voglio entrare nei dettagli di queste accuse, che sono ben note – lascia chiaramente trapelare la scelta consapevole di non aderire ai valori della nostra epoca e alle sue realizzazioni materiali. Giungo così in conclusione a una conseguenza importante: le difficoltà sperimentate dalle istituzioni religiose, ufficiali, tradizionali e nuove, derivano dalla difficoltà che il pensiero religioso nell’Islam vive da due secoli a questa parte nel rinnovare le proprie categorie. I fondamenti della religiosità tradizionale sono ancora in piedi e tutte queste correnti faticano a rivedere alcuni postulati del passato, cioè a realizzare una critica costruttiva del sapere tradizionale, che sia quello dell’età della decadenza o che si tratti del comportamento dei cosiddetti “pii antenati” (al-salaf al-sālih)4. Il punto di partenza è sempre la glorificazione di una parte della tradizione religiosa, in nome di una presunta purezza perduta, ed è questo a far sì che l’istituzione religiosa islamica, in tutta la sua varietà, non trovi nella nostra epoca presso l’opinione pubblica nel suo complesso quella risposta di adesione che suscitava in passato. Certo essa è in grado di polarizzare a sé gruppi, grandi o piccoli, ma in relazione all’insieme dei credenti musulmani resta un insieme di movimenti e istituzioni divergenti e a volta in lotta tra loro, ma incapaci di offrire all’insieme dei musulmani un modello in cui trovino una risposta all’esigenze valoriali etiche e conoscitive, nuove e inedite, che caratterizzano in modo così significativo il nostro tempo. Un aggiornamento del pensiero islamico potrà forse permettere di uscire da questa condizione di disgregazione per approdare a uno stato di cose in cui il musulmano normale sia in linea generale contento di sé, psicologicamente tranquillo e si lasci alle spalle il sentimento di essere minacciato e la sensazione che la sua fede può smarrirsi in ogni momento a fronte delle potenti correnti che sostengono la nuova globalizzazione. Siamo ben consapevoli che questo aggiornamento auspicato nel campo religioso si trova in relazione dialettica con la modernizzazione delle strutture economiche, politiche, educative etc., ma non vi è altro modo che fronteggiare le sfide nel loro complesso, senza separarne una a scapito delle altre. In caso contrario la modernizzazione resterà mutilata, limitata e in larga misura fallimentare, com’è stata quella conosciuta dalle società arabe e islamiche negli ultimi due secoli. * Titolo originale: Tahawwulāt al-mu’assasa al-dīniyya fī zaman al-‘awlama. Intervento pronunciato a Tunisi il 29 novembre 2014 in occasione del convegno organizzato dalla fondazione mu’minūn bilā hudūd (“credenti senza confini”) sul tema L’istituzione religiosa e la globalizzazione. (Trad. Martino Diez) Note del traduttore 1 Il grande storico maghrebino vissuto tra il 1332 e il 1406. 2 I tre grandi centri di studi islamici tradizionali, siti rispettivamente al Cairo, a Tunisi e a Fes. 3 Il Bahaismo è un movimento nato in ambito islamico nel XIX secolo, che ha finito per configurarsi come religione autonoma. L’autore non intende naturalmente stabilire un parallelo tra le pratiche bahai, improntate al rifiuto della violenza, e quelle dello Stato Islamico. L’elemento di comunanza è semplicemente che entrambi i movimenti sono nati in terra islamica. 4 Si tratta delle prime tre generazioni di musulmani, riferimento ideale e idealizzato in materia di religione.