Manuel II Palaiologos, Dialoghi con un musulmano, Edizioni Studio Domenicano – Edizioni San Clemente, 2007

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:49:27

Quando Manuele II Paleologo vergava le ultime righe dei suoi dialoghi con un musulmano, in una Costantinopoli assediata, difficilmente poteva immaginare che dopo seicento anni di onesto cabotaggio il suo nome avrebbe conosciuto un brusco ritorno di fiamma ad opera di uno di quei «Pannoni, Celti e Galli occidentali, dei quali i soli nomi fanno rabbrividire, tanto sono tutti barbari». Il destino a volte è beffardo. Terminata la sovraesposizione mediatica, è forse il momento propizio per contestualizzare la citazione che tanto ha fatto discutere. Ci prova lo Studio Domenicano, pubblicando la traduzione italiana della settima tra le ventisei discussioni che coinvolsero l’imperatore bizantino e un anonimo dotto persiano. Tali discussioni, tutte edite da una decina d’anni, risalgono all’inverno 1390/1391 o 1391/1392, quando l’imperatore si trovava presso il sultano ad Ankara e si inseriscono in una lunga tradizione controversistica, di cui il curatore dell’edizione francese, Théodore Khoury, dà ampio conto in numerosi lavori scientifici. La settima discussione verte sui meriti delle tre leggi religiose. Il dotto persiano, riprendendo un tema apologetico comune nell’islam, sostiene che la legge islamica rappresenta il giusto mezzo tra le disposizioni mosaiche, troppo rozze e terrene, e gli insegnamenti cristiani, sublimi ma inattuabili. Manuele Paleologo ribatte sostenendo che per molti aspetti la legge islamica rappresenta un ritorno alle prescrizioni mosaiche, se non addirittura un peggioramento. «Per prima è venuta la Legge di Mosè, che anche tu dichiari imperfetta, e ha introdotto per iscritto la norma della circoncisione [...] In seguito ecco il battesimo, la crismazione e gli altri nostri misteri, e una Legge migliore e più perfetta della precedente – questo, infatti, lo hai sempre ammesso – e poi di nuovo la circoncisione e quasi tutto il resto della Legge precedente! E tu questo lo chiami un progresso?». A questo nucleo dialettico è connessa anche la digressione sulla violenza contraria alla ragione e dunque a Dio stesso che apre la conversazione. Nonostante qualche nota di colore indovinata, che tuttavia non toglie la natura fondamentalmente letteraria del testo, e nonostante un’esposizione onesta degli argomenti dell’apologetica musulmana (ancor più ammirevole se si considera che tutti i dialoghi si svolsero per mezzo di un interprete), giustamente osserva Khoury che a conti fatti «i due interlocutori, il cristiano e il musulmano, sono restati [...] ciascuno all’interno del proprio sistema dottrinale. [..] Ciascuno ha riflettuto per sé e non in funzione dell’altro. In tal modo il dialogo si presenta come un insieme di riflessioni parallele su certi punti discussi, ma che non si incontrano praticamente mai». Lasciamo dunque ai nostri due controversisti il dibattito sulle tre leggi, destinato ad arenarsi senza un preventivo chiarimento sul significato dei termini; tratteniamo però e meditiamo la mirabile frase che Benedetto XVI propose all’attenzione del suo uditorio: «Dio non può rallegrarsi del sangue, e agire senza ragione è estraneo a Dio».