Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:48:21

«Non dobbiamo puntare l'attenzione per prima cosa né su indici, né su tratti caratteristici né su tendenze, ma sui processi, sul modo in cui le cose hanno smesso di essere ciò che erano e hanno cominciato a essere qualcos'altro». Queste acute parole dell'antropologo americano Clifford Geertz, contenute in un libro recentemente edito in italiano (Islam, Lo sviluppo religioso in Marocco e in Indonesia, Raffaello Cortina, 2008), sembrano conservare intatta la loro validità anche oggi, a distanza di quarant'anni da quando furono formulate. Cercando di capire che cosa stesse succedendo tra i popoli decolonizzati, Geertz si accorse che gli indicatori economici allora in voga (chilometri di strade asfaltate, numero di televisioni, posti letto negli ospedali etc.) risultavano pressoché irrilevanti per una lettura complessiva del fenomeno. Ponendo l'accento sui processi, Geertz riuscì a intravedere la rinascita sotto nuove forme del fatto religioso e al contempo il rischio della sua ideologizzazione, proprio in anni in cui la grande maggioranza dei suoi colleghi pronosticava un'imminente secolarizzazione di stampo socialista. La necessità di comprendere i processi è, se possibile, ancora più stringente oggi. E il processo che più ci interroga, come anche i recenti fatti di cronaca dimostrano, è quello che già da tempo proponiamo di indicare con il termine "meticciato di civiltà e di culture". Un'espressione - ormai dovrebbe risultare sufficientemente chiaro - da intendersi non come categoria prescrittiva, ma come ipotesi esplicativa, offerta alla libertà dei singoli e delle comunità in vista del difficile compito di indirizzare il vorticoso flusso degli eventi. Meticciato dice al tempo stesso la ricchezza, ma anche il potenziale di violenza e scontro insito in un processo i cui esiti non sono in nessun modo garantiti. Uno dei tratti più rilevanti del meticciato è certamente la comparsa di molteplici attori religiosi sulla scena pubblica, senza più la mediazione di uno "spazio neutro" che in realtà non è mai esistito: si trattava infatti di un comune fondo cristiano, condiviso almeno come ispirazione etica, per quanto non dichiarata. Lo vediamo bene oggi che questo sottofondo condiviso è scomparso. Questa novità rappresenta certamente una sfida, ma anche una possibilità per la creazione di una nuova laicità. Ad esempio, le religioni, in quanto universali concreti, costringono a contestualizzare il tema dei diritti, che in Occidente soffre da tempo di una preoccupante astrattezza. Non passa giorno che non si proponga di aggiungere questo o quel diritto a Carte internazionali o regionali, nella duplice convinzione che si possano enunciare diritti senza prevedere i corrispettivi doveri e che sia sufficiente la sanzione astratta dei principi per garantirne la corretta applicazione. Quello che occorre invece è prevedere criteri concreti: se sul principio non si discute, sulle declinazioni il confronto potrà essere serrato. Ciò è apparso con particolare evidenza in merito alla discutibile preghiera-manifestazione in Piazza Duomo a Milano, successivamente replicata nel piazzale antistante la Stazione Centrale. Non basta in questo caso appellarsi al sacrosanto principio della libertà di religione che pure, come a Oasis ben sappiamo seguendo da anni le vicende delle comunità cristiane nei paesi a maggioranza musulmana, è uno dei diritti fondamentali più minacciati nel mondo. Invocare la libertà di culto non può far dimenticare che una dimostrazione di quel genere snatura la dimensione religiosa costringendola completamente entro una chiara prospettiva politica. È evidente che la preghiera musulmana non è la preghiera cristiana, non solo nelle forme, ma anche nella concezione: il legame con la dimensione politica vi è molto più accentuato e non solo nel passato. Va anche considerato il momento di particolare tensione: con i fatti di Gaza siamo ormai al muro contro muro eretto a sistema. Tuttavia, lo spazio pubblico, se non è neutro, neppure è confiscabile dagli attori in gioco. Deve rimanere, soprattutto in una società plurale, aperto al riconoscimento reciproco, in forza del bene pratico dell'essere insieme, che precede e fonda la convivenza civile, e nel rispetto della tradizione prevalente di un popolo. Per riprendere la classica dicotomia del diritto musulmano tradizionale, lo spazio della società civile non può essere considerato né "casa dell'Islam" o di qualsiasi altra established religion, né "casa della guerra" tra fazioni in lotta, ma "casa della testimonianza", come anche alcuni pensatori musulmani europei hanno iniziato a suggerire. Questo compito è insuperabile e non potrà mai essere pensato come definitivamente assolto. Martino Diez Centro Oasis - Studium Generale Marcianum www.oasiscenter.eu