Recensioni dei film pubblicate in Oasis n. 7

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:49:11

Il primo piano è pericoloso, sia per l’attore che per il regista. Lo diceva molto bene Orson Welles: «Esiste davvero l'attore da primo piano. È l'attore che non c'imbrocca mai se non lo inquadri appena sotto il mento. Rin Tin Tin e Lassie (celebri cani dei telefilm degli anni ’60, ndr) sono ottimi esemplari della categoria». Robert Redford non è un cane. Ma il primo piano – per lui che torna al cinema dopo sette anni di silenzio, dietro e davanti la macchina da presa nel film Leoni per agnelli (Lions for Lambs) – è doppiamente pericoloso. Non si tratta solo delle rughe che compiaciute invadono lo schermo. Sono piuttosto le parole, un diluvio verbale che in primo piano pesa moltissimo. E cosa dicono, tutte queste parole? Niente. O meglio, dicono un sacco di cose sull’Iraq, sull’America, sul mondo e sul destino dell’uomo. Ma alla fine, stringi stringi, dicono solo una cosa: che è impossibile giudicare la storia, che la verità non esiste, che c’è un unico valore, l’impegno, per cui si può anche dare la vita. E pazienza se la si butta via, come fanno i due soldatini, l’afroamericano e l’ispanico, che vanno a morire sulle montagne dell’Afghanistan per non pagare le tasse all’università. Sono i leoni del titolo, i coraggiosi. L’agnello è Tom Cruise, il senatore che li manda a morire. Quanto a Redford, è un professore di Scienze politiche che non crede più a niente ma è ancora fiero di una cicatrice conquistata nel ’68. Non c’è da stupirsi se il ragazzo più intelligente del corso diserta le sue lezioni. Il giusto al posto del vero è poco attraente, lascia l’amaro in bocca. Si può chiedere di più, mentre Roma brucia.

La Ragion Critica

Ne sa qualcosa il canadese Denys Arcand che avevamo lasciato, con Le invasioni barbariche, nell’illusione apparentemente pacificata che l’impegno intellettuale e i piaceri della vita bastassero per una morte bella e buona. Con L’età barbarica (L’age des ténèbres) si fa un passo indietro. Il gusto intellettuale, gli amici, il sesso, i sogni e l’eutanasia bastano forse per morire. Per vivere ci vuole altro. Nel paese più ateo e statalista del mondo, il Canada, un uomo senza qualità si riscopre infelice. Oppresso dagli infiniti divieti del politicamente corretto, da una moglie che fa i soldi e lo tradisce, da due figlie perdute nell’iPod, si rifugia nel sogno. È triste ma funziona, almeno fino a quando non si prova a trasformarlo in realtà. Che fare, allora, se le regole ci si rivoltano contro, se fumare ti porta in galera, se il tuo lavoro è insensato e tua madre muore da sola? Una nuova fuga, una nuova vita. Arcand ci ricasca e dimostra, senza volerlo, che la ragion critica invocata da Redford ha un limite. Senza una speranza, o almeno senza una speranzella, non si può vivere. Forse, avvolti nella natura e nel silenzio, vedremo chiaro. Forse, anche un cesto di mele diventerà, ai nostri occhi appannati, un quadro di Cézanne. Forse.

La Giovane Israele

Fin qui i pezzi da novanta: i film che scalano le classifiche, le storie che vendono, gli autori paludati. Ma c’è qualcosa di nuovo, sullo schermo. Arriva da una manciata di giovanissimi registi che improvvisamente alzano la voce, se la ridono delle nostre paure, mettono in scena il bello della vita. Senza negare la realtà anche più cruda – si parli di terrorismo, di guerra o di aborto – ripartono dal positivo. Perché, prima di contestarla, la realtà si può amare. Da Israele la notizia più recente: Bomba che ticchetta (Pzazzà metakteket), il film di un giovane regista, Atar Ofek, che prende in giro kamikaze e soldati. Il film è stato finanziato da enti pubblici ma, al momento di proiettarlo, i festival di Gerusalemme e Haifa si sono tirati indietro. Dopo una sola serata alla Cinemateca di Tel Aviv, il film ora va a ruba tra ebrei e palestinesi, grazie al passaparola e a Internet. Protagonista, una maldestra ragazza pronta a farsi esplodere davanti a un autobus israeliano. Oltre i posti di blocco, presidiati da militari ottusi e distratti, Rauda incontra l’amore della vita, un giovane ebreo pazzo di lei. E lascia perdere l’attentato. Si può ridere della tragedia? Non è l’unico, Ofek, a provarci. L’ha fatto un altro regista all’opera prima, lo scrittore Eran Kolirin, con The Band’s visit, premiato in tutti i festival europei, da Cannes a Berlino. Non sarà all’Oscar perché Israele lo ha ritirato. Porte sbarrate anche ai festival arabi, a cominciare da quello di Abu Dhabi, nonostante la presenza nel film di attori israeliani e palestinesi. Spassosa e lunare la storia: otto egiziani in divisa azzurra, musicisti della banda militare, arrivano all’aeroporto di Israele invitati dal Centro culturale arabo ma nessuno va ad accoglierli. Finiranno in uno sperduto villaggio ebreo nel deserto, dove troveranno amore, amici e fortuna. In Europa il film arriverà ad aprile, preceduto da Shabat Shalom Maradona, (Buon Sabbath Maradona), pellicola diretta dal regista israeliano Dror Zelavi, dove un palestinese kamikaze, innamorato del calciatore argentino, arriva nel centro di Gerusalemme con addosso la cintura esplosiva. Ma il meccanismo si inceppa e il ragazzo, grazie all’aiuto di un elettricista israeliano e di una ebrea ortodossa di 17 anni, scoprirà l’amicizia e l’amore. Prima di alzare il sopracciglio, sappiate che il film è tratto da una storia vera. Così come più vera del vero è la giornata di sei donne a Beirut, nel piccolo film dai grandi incassi Caramel, della libanese Nadine Labaki. Si chiacchiera tra ragazze, tutte sull’orlo di una crisi di nervi, nel salone di bellezza: e il profumo di caramello della ceretta addolcisce il “bla bla bla” su amore e morte, su guerra e pace.

Speriamo Che Sia Femmina

Donne leggere, curiose, incoscienti ma innamorate della vita, quelle che cavalcano la controtendenza annunciata anche dal film evento della stagione, l’americano Molto incinta (Knocked up) del quarantenne Judd Apatov. I critici militanti, di qua e di là dall’oceano, si sono affrettati a liquidare questa commedia spassosa con l’appellativo “neocon”. Ma ciò non ha scoraggiato il pubblico, che è corso in massa a farsi quattro risate. Di fronte a una gravidanza inaspettata, due sprovveduti giovinastri, Allison e Ben, decidono di prendere sul serio il bambino che deve nascere e un amore improbabile, nato tra i fumi alcolici di un bar. Ciò che dà fastidio agli intelligentoni non sono le battute volgari o le riprese frontali del parto, ma che Allison decida allegramente di tenere, non solo il bambino, ma anche il ben più ingombrante compagno, senza drammi né angosce, nella serena certezza che la vita è fatta «di cose che succedono e che bisogna assecondare». La sorpresa finale, prevedibile ma non troppo, è che funziona. Non è un caso isolato, questa bizzarra concezione del mondo che fa a meno dell’ideologia e ritorna a dar fiducia alla vita. Sono in arrivo due film snobbati dalla critica e premiati dal pubblico dei festival. Bella, presentato a Toronto, è stato girato in 24 giorni da un ragazzo messicano senza arte né parte, Alejandro Gomez Monteverde. Interpretato dalla star messicana delle telenovelas, racconta serenamente drammi e speranze che una gravidanza a sorpresa si porta dietro, per la mamma che decide di partorire e di fare adottare il bambino. Una storia uguale, assai più allegra, nel film acclamato alla festa del cinema di Roma: il canadese Juno, diretto da Jason Reitman e scritto dalla giovanissima blogger Diablo Cody. Ragazzina leggera e spregiudicata, Juno rimane incinta a 16 anni per un rapporto casuale con un compagno di scuola. Arriva fino alla porta del consultorio dove si ferma perché c’è «puzza di dentista». Non è la maternità che la attira, ma il fatto che il bambino ci sia, l’incontro con una coppia sterile che lo vuole. Sarà poco corretto, ma è così strano che ogni tanto ragione e cuore coincidano?

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