Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 16:09:50

In Israele la tenuta del governo guidato da Benjamin Netanyahu è a rischio. La Corte Suprema israeliana ha stabilito che Aryeh Deri, leader del partito ultraortodosso Shas, non può far parte dell’esecutivo a causa dei reati per cui è stato condannato e per i quali, come ricorda l’Associated Press, è stato messo in libertà vigilata. Deri, ha puntualizzato la Corte, «ha già ricevuto tre condanne nel corso della sua vita, e ha violato il dovere di servire il pubblico lealmente e legalmente mentre ricopriva posizioni di alto livello». Inoltre, l’attuale ministro della Sanità e dell’Interno aveva assunto davanti ai giudici l’impegno di ritirarsi dalla politica. La decisione avviene in ottemperanza al compito della Corte Suprema di vagliare l’operato governativo e valutare la «ragionevolezza» delle scelte dell’esecutivo: alla luce dei reati appena accennati, la nomina di Deri è stata definita «estremamente irragionevole». Naturalmente, i leader dei partiti della maggioranza hanno reagito duramente alla sentenza, definita uno «schiaffo» in faccia agli elettori che il 1° novembre 2022 hanno indicato la loro preferenza. Senza Deri, si legge sul Jerusalem Post, non c’è nessun governo, perché i membri di Shas sarebbero i primi a ritirarsi. Netanyahu deve decidere se attenersi alla sentenza della corte o sfidarla, portando la faida con il sistema giudiziario (che come vedremo, non si limita a questo caso) a un nuovo livello. Secondo Amir Fuchs, senior researcher all’Israel Democracy Institute, nell’immediato Netanyahu recepirà la sentenza, ma promuoverà «molto rapidamente una legislazione che gli permetta di nominare di nuovo Deri».

 

Le dichiarazioni Itamar Ben-Gvir permettono di comprendere qual è il punto fondamentale dello scontro tra Corte Suprema ed esecutivo: «oggi è chiaro – ha detto il leader del partito di estrema destra Otzma Yehudit – che la Corte, che non è eletta, non è interessata a compromessi, e vuole un controllo senza limiti sui funzionari eletti. Riforma subito!». In gioco c’è proprio la riforma dei poteri della Corte, invocata da Ben-Gvir e voluta dall’attuale governo. In questo senso, la proposta del governo Netanyahu «limita drasticamente i poteri del sistema giudiziario [e] ha profonde implicazioni per la natura stessa dello Stato di Israele». È per questo che circa 80mila persone hanno occupato le strade di Tel Aviv per manifestare contro la riforma giudiziaria che, temono i manifestanti, permetterà «alla coalizione di estrema destra di Netanyahu e ai partiti ultra-religiosi di avvantaggiarsi di una magistratura indebolita per imporre agli israeliani liberal e secolari i valori fortemente conservatori e religiosi» di cui è espressione la coalizione di governo.

 

Il terreno di scontro tra Corte Suprema e governo riguarda in particolare la «clausola di annullamento» grazie alla quale la Knesset potrebbe respingere qualsiasi decisione della Corte Suprema con una maggioranza semplice di 61 voti su 120. Secondo la presidente della Corte, Esther Hayut, la riforma ideata dal ministro della Giustizia Yariv Levin è un «colpo mortale all’indipendenza della magistratura», ma soprattutto impedirebbe alla Corte Suprema di bloccare le «leggi che violano in maniera eclatante i diritti umani, incluso il diritto alla vita, la proprietà, la libertà di movimento, e anche i diritti basilari della dignità umana e i suoi derivati come il diritto all’eguaglianza, la libertà di parola e altro». La procuratrice generale Gali Baharav-Miara ha precisato che la riforma proposta dal governo Netanyahu si basa sulla convinzione che la regola della maggioranza sia il principio fondamentale della democrazia. Tuttavia, ha notato correttamente il procuratore, «la regola della maggioranza è in effetti una condizione necessaria affinché la democrazia esista, ma non è una condizione sufficiente. La separazione dei poteri, la salvaguardia dei diritti individuali e la prevenzione dell’esercizio arbitrario del potere contro le minoranze sono valori fondamentali. Senza di essi, non ci sarebbe piena democrazia». Quali effetti avrebbe un simile potere nelle mani di una maggioranza parlamentare in un contesto come quello del conflitto israelo-palestinese?

 

Intanto continuano le tensioni attorno alla Spianata delle moschee. La Giordania ha convocato l’ambasciatore israeliano dopo che le autorità israeliane avevano impedito all’inviato giordano di entrare nel complesso. Inoltre, un quarantenne palestinese è stato ucciso a Halhul, a nord di Hebron, in un raid dell’esercito israeliano. Stessa sorte è toccata a due palestinesi a Jenin: uno, ventottenne, era un combattente delle Brigate Jenin, mentre l’altro, 58enne padre di sei figli, era un insegnante della scuola locale. Secondo al-Jazeera questi ultimi decessi portano il conto dei palestinesi uccisi a 17 dall’inizio dell’anno. Quasi uno al giorno.

 

In politica internazionale la Turchia vuole essere se stessa

 

Mancano sei mesi alle elezioni presidenziali in Turchia, ma se ne fa già un gran parlare. Questa settimana il controverso ex consigliere per la sicurezza nazionale americana John Bolton è intervenuto dalle colonne del Wall Street Journal per criticare duramente il presidente uscente Erdoğan. In linea con le aspettative dovute al personaggio, Bolton non ha usato mezzi termini: la Turchia di Erdoğan non si sta comportando da membro della NATO e per questo gli Stati Uniti, l’Europa e l’Alleanza Atlantica stessa dovrebbero monitorare accuratamente l’andamento delle elezioni e favorire la vittoria delle opposizioni. Nel farlo, suggerisce Bolton, bisogna anche considerare un’eventuale espulsione di Ankara dalla NATO. Steven Cook su Foreign Policy offre una visione più sfumata: Erdoğan vuole disporre di leve per manipolare a proprio vantaggio l’andamento delle relazioni internazionali. È ciò che sta facendo districandosi all’interno della difficile relazione che intrattiene sia con Mosca che con Washington e Bruxelles. Ciò che è importante comprendere secondo Cook è che la Turchia non vuole diventare un asset né della politica estera russa né di quella americana. Erdoğan riesce a manipolare a proprio vantaggio questo continuo tira e molla e continuerà a farlo – scrive Cook – fino a quando la comunità internazionale persevererà nel chiedere ad Ankara di essere allineata in tutto e per tutto a Oriente o a Occidente, senza comprendere che la Turchia è semplicemente la Turchia: Erdoğan potrà anche distanziarsi dall’Occidente ma non ha intenzione di schiacciarsi sulla Russia.

 

Anche gli investitori internazionali osservano con grande attenzione quanto accade in Turchia: il presidente turco «non è mai sembrato così vulnerabile e l’economia è il suo tallone d’Achille», ha scritto Reuters, secondo cui i gestori dei fondi di investimento attendono la fine delle politiche economiche eterodosse di Erdoğan per tornare nel Paese anatolico.

 

Intanto mercoledì il ministro degli esteri turco Mevlüt Çavuşoğlu ha incontrato a Washington il suo omologo Anthony Blinken. Al centro dell’incontro le discussioni sulla fornitura di caccia F16 alla Turchia (dopo il rifiuto americano di vendere i più moderni F35 a causa dell’acquisto di armamenti russi da parte di Ankara) e l’accesso nella NATO di Svezia e Finlandia. Çavuşoğlu si è espresso proprio riguardo alla vendita degli aerei al termine dell’incontro con Blinken: ci aspettiamo, ha detto il ministro turco, che la vendita venga approvata. Il problema è che serve l’approvazione del Congresso e Bob Menendez, presidente della commissione relazioni estere del Senato, è pronto a dar battaglia: non ci sarà nessuna approvazione «fino a quando Erdoğan non cesserà le sue minacce, migliorerà la situazione dei diritti umani in Turchia – incluso il rilascio di giornalisti e membri dell’opposizione – e inizierà ad agire come dovrebbe fare un alleato fidato».

 

Nell’incontro tra Çavuşoğlu e Blinken si è discusso anche delle intenzioni turche in Siria: Ankara, come sappiamo da tempo, è desiderosa di lanciare una nuova operazione militare nelle zone di confine occupate dai curdi siriani, mentre Washington (e Mosca) vi si oppone. Intanto però, come ha osservato in una lunga analisi il ricercatore Charles Lister (Middle East Institute), le opposizioni e in particolare il partito repubblicano CHP hanno già iniziato a chiedere la normalizzazione delle relazioni tra Siria e Turchia, che sarebbe funzionale al rimpatrio dei profughi siriani, divenuti capro espiatorio in questo momento di difficoltà generale. In questo senso va interpretato anche l’incontro, il primo da molti anni, avvenuto poche settimane fa a Mosca tra i capi dell’intelligence e della difesa turca e siriana. Ciò non significa comunque, ha scritto Lister, che il processo di normalizzazione si concluderà in breve tempo: i recenti contatti di alto livello «rappresentano l’ultima fase di un processo particolarmente lungo iniziato a metà del 2016». In ogni caso, il fatto che un riavvicinamento sia comunque nei fatti, ha delle conseguenze: come ha correttamente osservato Hilal Khashan (Geopolitical Futures) «la permanenza al potere di Assad nell’ultimo decennio fornisce un modello per i regimi dispotici nel mondo arabo per mantenere il controllo anche di fronte a rivolte di massa o guerra»

 

Perché in Iran non possiamo parlare di rivoluzione

 

Al World Economic Forum di Davos si è parlato anche di Iran. Lo ha fatto in particolare il principe Faisal bin Farhan Al Saud, ministro degli Esteri saudita, secondo il quale la decisione presa da Riyad e da altre capitali del Golfo di focalizzarsi sullo sviluppo delle proprie economie manda «un forte segnale all’Iran che c’è un percorso verso una comune prosperità, al di là delle tradizionali discussioni e dispute». Possono essere interpretati in questo quadro i contatti tra i sauditi e i ribelli houthi yemeniti sostenuti proprio dall’Iran, che proseguono anche se, formalmente, la tregua è terminata nel mese di ottobre. Potrebbe partire quindi dal martoriato paese yemenita il processo di distensione nelle relazioni tra i due pesi massimi del Golfo Persico? Secondo Samy Magdy (Associated Press), sia Riyad che gli houthi «stanno cercando una soluzione dopo otto anni di una guerra che ha ucciso più di 150 mila persone, frammentato lo Yemen e portato la più povera nazione araba al collasso». Secondo un funzionario anonimo dell’ONU, nonostante i colloqui tra houthi e sauditi siano solo all’inizio e la ripresa dei combattimenti sia un rischio sempre presente c’è «un’opportunità per porre fine alla guerra, se negoziano in buona fede e se i colloqui includeranno altri attori yemeniti». Tuttavia, secondo la previsione di The Soufan Center una soluzione permanente alla guerra in Yemen difficilmente verrà trovata nel corso del 2023. Al tempo stesso, si legge in un altro “brief” di TSC, le tensioni tra Stati Uniti e Iran aumenteranno in maniera significativa alla luce dei progressi iraniani sul nucleare e della vicinanza sempre maggiore tra Mosca e Teheran. L’Iran non fa nulla per nascondere i suoi preparativi a ogni tipo di eventualità, e lo dimostra l’intervista rilasciata dal brigadier-generale Alireza Sheikh, il quale mette a fuoco la nuova dottrina militare iraniana, che prevede l’uso combinato di navi, missili e droni ben oltre al Golfo Persico. Nel frattempo, il Parlamento europeo ha adottato una risoluzione nella quale chiede che il corpo dei Guardiani della Rivoluzione sia designato come entità terroristica.

 

Un altro fronte importante riguarda naturalmente la repressione interna. Teheran ha giustiziato Alireza Akbari, ex viceministro della Difesa con doppia nazionalità britannica e iraniana, del quale avevamo parlato nello scorso Focus attualità. L’americano Siamak Namazi e l’irlandese Bernard Phelan, entrambi incarcerati in Iran, hanno invece iniziato uno sciopero della fame (e della sete nel caso di Phelan) per chiedere il rilascio. Mentre le proteste iniziano a perdere vigore, le autorità continuano a emettere condanne a morte: Javad Rouhi, 35enne con problemi mentali, è stato condannato alla pena capitale (dopo aver subito torture così gravi da renderlo incapace di proferire parola) per aver bruciato alcuni oggetti, incluso un Corano, nelle fasi iniziali delle proteste per la morte di Mahsa Amini.

 

Intanto però l’ufficio del procuratore generale iraniano ha diramato nuove linee guida per la polizia, nelle quali rende noto che le donne che non osserveranno il dress code stabilito dalle autorità non dovranno più essere arrestate. Saranno però tenute al pagamento di una serie di multe. Stessa sorte toccherà anche a bar, ristoranti, taxi e banche che permetteranno l’ingresso di donne non correttamente velate. Un altro aspetto significativo delle proteste è che il presidente Ebrahim Raisi, ha notato Najmeh Bozorgmehr, è stato in gran parte risparmiato dalle critiche, anche da parte dei riformisti. Non avevano avuto la stessa fortuna Hassan Rouhani e Mahmud Ahmadinejad durante le proteste che si sono verificate nel corso dei loro mandati. Ciò non deve far pensare che Raisi sia più popolare dei suoi predecessori. Al contrario, il Presidente è ignorato dai manifestanti perché non è percepito come qualcuno dotato di una propria autonomia, ma soltanto come un esecutore degli ordini di Khamenei.

 

Nei primi mesi delle manifestazioni si è diffusa l’opinione secondo cui quella in atto in Iran sarebbe una nuova rivoluzione. Sajjad Safaei ha pubblicato al riguardo un’interessante analisi su Foreign Policy. Safaei ha analizzato l’attuale contesto iraniano alla luce degli otto criteri individuati dal sociologo politico Hossein Bashiriyeh per identificare un fenomeno rivoluzionario. Quattro dei fattori elencati da Bashiryeh sono effettivamente presenti nell’odierno Iran: la legittimità del sistema è venuta meno, le élite non sono coese (si veda il ruolo crescente del Consiglio dei Guardiani e l’estromissione dalla corsa elettorale di prominenti politici moderati e riformisti), c’è una cronica incapacità da parte del sistema di gestire i dossier più importanti e, infine, c’è un generalizzato malcontento tra la popolazione. I quattro fattori mancanti, tuttavia, portano Safaei a concludere che quello attuale non è un fenomeno rivoluzionario, anche se non è affatto escluso che lo diventi in futuro. Il primo di questi è l’intatta capacità e coesione delle forze di coercizione (pasdaran, basiji, intelligence, polizia e magistratura). Secondo e terzo fattore riguardano l’assenza di leadership e di struttura organizzativa dell’opposizione, ciò che segna una netta differenza con l’Onda Verde del 2009 quando vi erano sia leadership (Karroubi e Mousavi) che organizzazione, ereditate dalla precedente campagna elettorale. Infine, nonostante l’obiettivo delle manifestazioni sia chiaramente il rovesciamento del regime, è impossibile trovare oggi in Iran una «ideologia offensiva coerente».

 

In breve

 

Il parlamento tedesco ha ufficialmente riconosciuto che quello subito dagli yazidi in Iraq e Siria per mano dello Stato Islamico è stato un genocidio (Le Monde). 

 

Tre droni hanno attaccato la base americana di al-Tanf, nel sud della Siria, ferendo due membri di una milizia sostenuta dagli Stati Uniti (Al-Monitor).

 

La Siria sta subendo una gravissima crisi energetica dovuta alla mancanza di carburanti che provoca a sua volta l’assenza di elettricità per lunghissimi tratti della giornata (Washington Post).

 

Nel famoso “Qatargate” c’è un altro Paese pesantemente coinvolto: il Marocco. Ora, per la prima volta in 20 anni, il Parlamento europeo ha votato una risoluzione sfavorevole a Rabat, nella quale si condannano i tentativi marocchini di limitare la libertà di parola nel Paese (Le Monde).

 

 

Leggi qui la rassegna dalla stampa araba

 

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