Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 19/03/2024 09:50:25

In una Tunisia colpita da neve e pioggia, cresce il malcontento popolare nei confronti del presidente Kais Saied dopo il flop delle elezioni legislative di dicembre, quando la stragrande maggioranza degli elettori non si è presentata alle urne. Da quel momento le manifestazioni anti-ra’is hanno assunto una certa consistenza e il 14 gennaio, giorno dall’alto valore simbolico in quanto anniversario della fine del trentennale governo di Ben Ali, opposizioni e società civile hanno sfilato lungo le principali vie della capitale, chiedendo le dimissioni di Saied.

 

 

«Il 14 gennaio è l’anniversario della rivoluzione, anzi l’anniversario del compimento del primo obiettivo della rivoluzione» precisa Sufyan Rajab in un editoriale per il quotidiano al-Sabah dal titolo: “è questo quello che vuole il popolo”. Nel suo racconto dei disordini di questi giorni, il giornalista invita a porre l’attenzione non tanto sugli schieramenti della piazza, divisa tra i sostenitori di Saied e i suoi numerosi oppositori, ma su un terzo gruppo che non parteggia per nessuno e che guarda con apprensione l’incessante aumento del costo della vita e l’aggravarsi delle condizioni socioeconomiche: «il popolo è rimasto indifferente sia di fronte alle proteste dell’opposizione politica sia di fronte alla vanagloria e all’arroganza di un presidente che prende decisioni da solo…il popolo è rimasto a guardare “quelli” e “ quegli altri”». La diffusione del sentimento di indifferenza è, per Rajab, un pessimo segnale che annulla il percorso di democratizzazione iniziato dodici anni fa: la colpa è da attribuire a una classe politica rapace che «ha rubato la rivoluzione» e portato alla fame la gente che, assuefatta dagli scandali, si è disillusa sul valore del voto, sul ruolo dell’opposizione, sull’importanza delle proteste. Che cosa vuole, dunque, il popolo? Un’altra rivoluzione? No, si limita a chiedere «cibo, vestiti e medicine».

 

Il settimanale al-Shari‘al-Magharibi, specializzato su questione maghrebine, si chiede se «l’unione sindacale non possa avere successo nel creare un’alternativa nazionale laddove potere e opposizione hanno fallito». In effetti, l’Unione Generale Tunisina del Lavoro (UGTT) ha partecipato attivamente al nuovo corso politico post-autoritario, diventando nel 2013 uno dei membri del Quartetto per il dialogo nazionale tunisino. D’altro canto, nota la rivista, l’UGTT ha mostrato i suoi limiti nella ricerca del consenso e nell’intesa raggiunta con le classi più agiate, a detrimento dei disoccupati e degli emarginati. «Ci auguriamo – conclude al-Shari‘ – che il sindacato segua le orme dei suoi predecessori […] A dire il vero, attualmente ci sono diversi indicatori che mostrano come l’organizzazione sia alquanto ondivaga su temi cruciali […] Il chiarimento delle sue posizioni sulle vere riforme richieste è una questione importante perché la situazione attuale costituirà uno spartiacque per il popolo».   

 

 

L’Egitto si scopre al verde. Le preoccupazioni di Doha e Riyad

 

In queste settimane la stampa (filo)qatariota si sta occupando dell’economia egiziana, spesso utilizzando toni a dir poco pessimisti. Non è la prima volta che i quotidiani legati a Doha fanno i conti in tasca al Cairo: ne avevamo già parlato a seguito dell’incontro del 13-14 settembre scorso tra al-Sisi e l’emiro Tamim bin Hamad al-Thani, e poi ancora a margine del vertice COP-27 di Sharm el-Sheikh di novembre. Ora, in occasione dell’incontro di Abu Dhabi del 18 gennaio tra i leader di Emirati, Egitto, Oman, Qatar, Bahrein e Giordania, la questione è tornata a ridestare un certo interesse. Questa volta l’analisi spetta a Mamduh al-Wali, economista egiziano ed ex presidente del consiglio di amministrazione della Fondazione al-Ahram, ora penna di Al Jazeera. L’esperto, dopo aver tracciato un quadro fosco sulla capacità dell’economia egiziana di far fronte alla crisi internazionale, ha notato come la situazione economica attuale del Paese nordafricano sia tutt’altro che florida: gli investimenti pubblici si sono ridotti del 53%, il valore totale del deficit sul bilancio ammonta al 43% e i prezzi dei beni di prima necessità sono in costante aumento. La soluzione che Mamduh propone, forse in maniera non del tutto disinteressata, è quella indicata dal Fondo Monetario Internazionale: «vendere le azioni delle aziende pubbliche a fondi sovrani del Golfo, in modo da spingere il governo ad attuare la sua richiesta di privatizzare un buon numero di compagnie».

 

Al-‘Arabi al-Jadid sgombera il campo da qualsiasi alibi esterno, come si evince dal titolo: “L’Egitto paga il pegno di scelte governative, non di crisi mondiali”. Il nocciolo del problema risiederebbe quindi nelle poco lungimiranti decisioni dell’establishment cairota che hanno reso l’economia nazionale non competitiva e incapace di garantire una vita dignitosa a gran parte dei cittadini. All’analisi segue subito una insinuazione: «non sorprende che questa deprimente situazione coincida con l’aumento dei flussi migratori irregolari provenienti dall’Egitto annunciati dalle autorità europee e italiane nei mesi scorsi». L’articolo indica due vie percorribili per uscire dalla crisi. La prima, la più semplice, è quella di reperire fonti di finanziamento e pronta assistenza in diversi modi, tra cui la regolamentazione della politica monetaria per arrestare il declino del Paese. La seconda, più complessa, prescrive il contenimento del tasso di inflazione e lo stop alla costruzione delle grandi opere pubbliche non necessarie al fine di stabilizzare la sterlina egiziana, ma tutto ciò sarebbe poco utile se non accompagnato da riforme economiche e finanziarie strutturali. Inoltre, manovre del genere comportano un ingente costo politico di cui il presidente al-Sisi non sembra intenzionato a farsi carico. La critica a questo punto diventa esclusivamente antigovernativa: «il ra‘īs ha utilizzato i grandi progetti per la mobilitazione politica e mediatica, dando all’opinione pubblica legittimità e importanza allo sviluppo». Un altro punto debole del Cairo riguarda l’assenza della libera impresa e gli scarsi investimenti esteri. Anche in questo caso, l’articolo invita il Paese a servirsi dei partner regionali per migliorare la situazione, perché «la caduta economica di uno Stato grande quale è l’Egitto […] equivarrebbe al “giorno del giudizio” nel Medio Oriente». Un giudizio apocalittico, in tutti i sensi. 

 

Per contro, la stampa egiziana cerca di rassicurare mercati, partner e soprattutto i cittadini. «Forza, iniziamo!» il commento – ma sarebbe più corretto dire l’incoraggiamento – di ‘Abd Allah Zalta per il quotidiano al-Ahram. «Dal momento che il dollaro ha raggiunto questo valore, inaspettato per professori ed esperti di economia, è necessario che noi, in quanto egiziani, formiamo un fronte unico e dirigiamo gli indici di spesa, incoraggiamo i prodotti nazionali; non decidiamoci ad acquistare prodotti stranieri tranne che in situazioni estreme. L’Egitto chiede a tutti di sostenerlo e di proteggerlo […] si richiede a tutto il popolo di stare dietro alla sua guida per attraversare questa crisi che ha colpito tutti i ceti». Il tenore dell’articolo si fa via via sempre più drammatico: «Abbiamo un disperato bisogno di assicurare la stabilità sociale ed economica, perché non è nell’interesse di nessuno che lo Stato sprofondi in qualsiasi tipo di disordini». Occorre essere quindi ottimisti e «all’altezza degli eventi», dato che «non è la prima crisi che il Paese affronta nella sua lunga storia».

 

Resta da aggiungere una piccola nota a margine dell’incontro di Abu Dhabi: l’assenza dell’Arabia Saudita. L’argomento è stato ampiamente trattato dal giornale al-‘Arab, non senza venature polemiche. Nella prima pagina dell’edizione del 19 gennaio compare sulla sinistra la foto dei sei leder partecipanti al meeting. Sulla destra, però, campeggia, a mo’ di contrappunto, un titolo che è già di suo una stoccata: «L’annuncio dell’Arabia Saudita di cambiare le modalità di invio degli aiuti è un messaggio a Egitto e Giordania». Nell’articolo che segue emerge il «disappunto» di Riyad per le modalità con cui sono stati spesi i soldi erogati sotto forma di aiuti ai due Paesi arabi. Soldi che non solo non hanno aiutato al risollevamento delle economie («spesi per comprare la pace sociale, piuttosto che per incentivare lo sviluppo»), ma che sono stati dati «a fondo perduto» e senza aver prodotto nessun ritorno o guadagno politico ed economico per il Regno. È forse questo il motivo che ha spinto i sauditi a non partecipare all’incontro di Abu Dhabi, che hanno preferito dirigersi al Forum Economico Mondiale sulle nevi di Davos.     

 

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